Un raro volumetto, dato alle stampe a
Roma nel 1909, riprendendo un lavoro di ricerca iniziato tempo prima e mai
portato a termine, raccoglie canti narrativi, profani e religiosi, del
mezzogiorno d’Italia e delle popolazioni del centro.
Autore Raffaele Magnanelli, marchigiano
di origine, laureato all’Università di Roma nel 1904 con una tesi sulla
letteratura popolare religiosa.
Già ufficiale di fanteria Raffaele partecipò
ad imprese belliche nel primo conflitto mondiale e poi diventò gesuita
abbracciando, nella seconda parte della sua vita, la carriera ecclesiastica,
suscitando peraltro non poca sorpresa tra i contemporanei, soprattutto perché
la risposta alla chiamata mistica arrivò in età alquanto matura.
Il libro, Canti narrativi religiosi del popolo italiano novamente raccolti e
comparati (ed. Loescher), difficile da reperire anche per la sola
consultazione, analizza sei gruppi di canti
religiosi scaturiti da antiche leggende agiologiche. La ricerca
agiografica, in realtà, non sempre prevale nella stesura del testo che diventa
in buona sostanza una preziosa raccolta di testimonianze, vere o meno vere, sulla
narrativa religiosa della poesia popolare. In particolare la vita e gli atti più celebri dei santi diventano
oggetto del narrare, con prevalente riferimento ai primi martiri delle
persecuzioni cristiane.
Il lavoro di raccolta del Magnanelli
ripercorre, rivisitandole, antiche storie leggendarie, romanzesche e favolose,
che impressione straordinaria dovevano aver suscitato in passato sui lettori. I
diversi racconti, dai quali l’autore trae materia di analisi e motivi
ispiratori di scrittura, presentano un linguaggio nuovo, affatto diverso da
quello rozzo ma spontaneo delle leggende popolari tramandate oralmente e dal
successivo poetico verseggio delle composizioni in rima da cui essi traggono
origine.
Una continua e metodica ricerca di
elaborazione del testo ha infatti lo scopo di elevare termini ed espressioni al
fine di conferire alla scrittura una parvenza di veste letteraria, senza
tuttavia alterare il senso e la sostanza delle storie originali.
La metamorfosi è graduale e si manifesta
tempo per tempo. L’antica poesia popolare religiosa, tramandata oralmente o per
mezzo di manoscritti, con il suo fantastico bagaglio di leggende e di
meraviglia a poco a poco affina così la sua rozza veste e sotto l’incalzare
della nuova civiltà assurge ad opera letteraria. Il processo di mutamento
avviene tra i secoli XIV e XVI in modo lento e graduale, e consente tuttavia di
conservare nel tempo la memoria di eventi che non è facile oggi far risalire a
fatti storici realmente accaduti o invece leggendari, o anche semplicemente frutto
della fervida fantasia popolare.
Il Magnanelli attinge a questa fonte
raccogliendo nel suo volume i diversi
canti narrativi religiosi del popolo italiano. Nella parte prima (si
prevedeva un seguito ma in realtà l’opera rimase unica e non fu mai stampata
una seconda parte) si narrano eventi e vicende relativi alla vita di s.
Alessio, s. Barbara, s. Caterina martire, s. Caterina peccatrice, s. Giuliano e
s. Lucia.
Pur nella narrazione di natura
favolistica l’autore non perde mai di vista la ricerca della verità, ricorrendo
quanto meno alla sistematica analisi di ciascun avvenimento, cercando sempre di
fare affiorare particolari che abbiano un addentellato con contemporanei accadimenti
storici, cercando quindi di sfrondare per quanto possibile ciò che attiene
presumibilmente alla leggenda o che si suppone sia frutto della fantasia
popolare. È un lavoro di lima, un po’ come cercare di far riemergere storie che
si prestano comunque ad essere credute o non credute e che pertanto possono
apparire vere o non vere, lasciando sempre un margine di discrezionalità e di
giudizio a chi legge.
Uno dei personaggi citati nel volume, s. Giuliano,
in una delle versioni rimaneggiate, entra in qualche modo in contatto con la
città di Giulianova.
Anche qui non è agevole dipanare la
matassa dell’ingarbugliato coacervo di notizie raccolte dal Magnanelli sulla
vita del santo. Diverse nella forma, ma non nella sostanza, tutte le vicissitudini
oggetto di narrazione concordano comunque nella descrizione della tragica
fatalità che portò Giuliano al terribile omicidio dei genitori.
Uno dei canti popolari che avevano per
oggetto la biografia di Giuliano fu ripreso ed elaborato in provincia di Arezzo
da Giulio Salvadori e pubblicato nel 1896 nel primo numero del periodico “Vita popolare marchigiana”, un altro
nei Canti popolari umbri di Giuseppe
Mazzatinti un altro ancora, di stampa marchigiana, nei Dispetti, canzoni, stornelli, indovinelli senigalliesi pubblicato
nel 1898 da Augusto Agapiti. Ciò ad ulteriore riprova del fatto che la storia
veniva raccontata in modo dissimile ed era ambientata in luoghi diversi.
Il testo che collega s. Giuliano alla
città di Giulianova fu pubblicato a Firenze nel 1887 nell’opera di Antonio De
Nino Usi e costumi abruzzesi, nel
quarto volume dal titolo Sacre leggende.
Si narra la vita di Giuliano di Urbino. Il
canto popolare di riferimento, in versi, già nell’introduzione dà conto della
buona dose di dubbio che si insinuava tra il popolo in merito alla veridicità
degli eventi che si andavano narrando: “Se è verità o bugia io non lo so: disse
la donna che me lo raccontò”. È evidente il richiamo alla trasmissione orale “di
bocca in bocca” che, in quanto tale, era evidentemente soggetta a successivi
tagli o a arbitrarie aggiunte che andavano tempo per tempo ad arricchire o a
depauperare il racconto originario rendendolo non sempre del tutto attendibile.
Giuliano sarebbe nato dai conti Gioffredo
ed Anna d’Angiò e sarebbe venuto alla luce dopo che i genitori con molte
preghiere avevano chiesto a Dio il dono di un figlio. La madre, prima del
parto, avrebbe avuto in sogno la visione di una bestia in figura umana che
divorava lei e suo marito. E Giuliano, giovincello, appassionato cacciatore, un
giorno sul punto di uccidere una bestia, avrebbe ricevuto da essa questa
sconcertante profezia “Non mi uccidere, io ti dirò il tuo destino; con un sol
colpo ucciderai tuo padre e tua madre”.
La reazione del giovane sarebbe stata
quindi quella di evitare in tutti i modi l’avverarsi della predizione.
Per tale ragione egli decide di
abbandonare la casa e la famiglia, fugge a Roma, poi si trasferisce prima ad
Acri e quindi a Gerusalemme e poi ancora in Galizia per incontrare l’apostolo Giacomo.
Qui vaga per dieci giorni. Si trova coinvolto nello scontro tra due fazioni
rivali mostrandosi forte ed impavido e pertanto uno dei conti belligeranti gli
offre di tenerlo al suo servizio in guerra. Giuliano accetta e dà prova di coraggio
e di grande audacia, tanto da meritare il riconoscimento di cavaliere. Il
conte, ferito gravemente in battaglia, muore. I vassalli colpiti dall’ardimento
e dal valore dimostrati da Giuliano in battaglia propongono alla contessa
vedova di unirsi in matrimonio con lui. I due si sposano. Giuliano prima riesce
a sopraffare completamente i nemici, costringendoli alla resa, poi li perdona
ed ottiene la pace per tutti. Per cinque anni vive tranquillo ed in serenità,
signore della città, e può così felicemente tornare alla sua grande passione:
la caccia.
A questo punto l’antica profezia comincia
ad avverarsi: Gioffredo ed Anna, ancora sconvolti per la scomparsa di Guliano,
seguendo le sue tracce arrivano nella città di cui egli è ora signore. Una
vedova li ospita e fornisce notizie di lui. Dalla descrizione che ne fa sono
sicuri di aver ritrovato il figlio. La mattina seguente alla messa incontrano
la moglie di Giuliano che li accoglie lietamente in casa, dice che il marito è
a caccia ed offre loro vitto ed alloggio, mettendoli a riposare nel proprio
letto.
Fin qui la storia è abbastanza
coincidente e corrisponde in tutte le diverse versioni.
Il passaggio che nel testo del Magnanelli
riprende l’antico canto popolare abruzzese e nel quale si fa riferimento a
Giulianova inizia dal momento in cui Giuliano riceve dalla zingara la profezia
del suo tragico destino: “Apri
la mano; voglio indovinarti la pianeta [la sorte]. Giuliano mostrò la palma
della mano e la zingara disse: tu ucciderai il padre e la madre! La vecchia
fuggì, se no l’avrebbe accoppata. Da quel giorno Giuliano si fece mesto. E per
togliere ogni occasione pensò d’andarsene fuori paese. Si fermò a Giulianova [l’autore
introduce una chiosa a piè di pagina specificando che trattasi di ‘città
abruzzese sull’Adriatico’] e vi prese moglie. I genitori si erano fatti vecchi.
Prima di morire dissero: perché non cerchiamo di rivedere Giuliano? … A
Giulianova picchiarono a una casa: ‘Conoscete un certo Giuliano?’ Risposero ‘Questa
è la casa sua e la mia, io sono la moglie.’ ‘E noi – risposero i forestieri –
siamo i suoi genitori’ ‘Favoriscano, benvenuti’. La nuora li abbracciò e li
baciò, e diede loro da mangiare, e poi li premurò anche a mettersi a letto per
farli riposare. Giuliano era ito a caccia: nel tornare sentì una voce tra un
cespuglio ‘Giuliano, Giuliano! Tua moglie ti tradisce!’ Era la voce del
demonio. Giuliano corse a casa. La moglie era in cantina. Salì nella stanza e
vide la finestra socchiusa; vide due teste… ‘Ci siamo!’ E ammazzò i due che
dormivano. La moglie corse al rumore e vide il marito con l’arma insanguinata. ‘Oh
Dio! Che hai fatto! Hai ucciso madre e padre!’ Giuliano perdé la parola;
rientrò nella stanza, s’inginocchiò alla sponda del letto; baciò quei cadaveri
venerandi e partì per non farsi più vedere”.
Così nel testo in versi il momento fatidico: “Quando se ne fu sulla porta della camera / Vide due nel letto ariposava / Piia la spada che aveva da lato / A padre e madre ie va taià ‘l capo. / Poi s’affacciò alla finestra / Vidde alla moglie che venia da l’acqua: / - De dove sorti te falsa cattiva? / Credeva fosti morta e ancor sei viva?”.
Così nel testo in versi il momento fatidico: “Quando se ne fu sulla porta della camera / Vide due nel letto ariposava / Piia la spada che aveva da lato / A padre e madre ie va taià ‘l capo. / Poi s’affacciò alla finestra / Vidde alla moglie che venia da l’acqua: / - De dove sorti te falsa cattiva? / Credeva fosti morta e ancor sei viva?”.
“Andò quindi prima a lavarsi nel fiume Giordano,
e poi entrò nel deserto. Fece penitenza fino a tarda vecchiaia e non tornò alla
moglie se non quando Iddio l’ebbe perdonato. Era dunque vecchio, barbuto,
canuto, lacero. Tornò a rivedere la moglie: ‘aprimi chè sono tuo marito!’ – ‘Io
non ti conosco, e poi tu sei dannato’ – ‘Per carità conservami almeno questo
bastone fino a domattina’ – ‘Lascialo dietro la porta’ – Alla mattina la moglie
a andò a vedere il bastone e lo trovò tutto fiorito. ‘Dunque’ disse ‘questo è
il segno che Dio lo ha perdonato!’ Poco dopo tornò il marito e la moglie subito
l’abbracciò con allegrezza. E quando poi Giuliano morì fu adorato come santo”.
Naturalmente si fa fatica a far emergere
la realtà dalla manipolazione che la vicenda, così sospesa tra leggenda e
fantasia, ha subìto dopo tanti successivi passaggi che hanno modificato
l’originaria stesura.
Quello che è certo è che comunque nella
diversità dei particolari e dei riferimenti ambientali rimane condiviso un fil rouge comune a tutte le versioni: il
fatto che Giuliano si sarebbe macchiato dell’abominevole crimine di parricidio
e matricidio.
D’altro canto, oltre il frutto
dell’immaginazione, una base di verità deve comunque sostenere l’impalcatura
delle favole e delle novelle che venivano recitate o cantate e che costituivano
il prezioso bagaglio della letteratura religiosa popolare.
È probabile che intorno ad una vicenda
reale e nota venissero inventati ed intrecciati ad arte aneddoti più o meno curiosi
e bizzarri allo scopo di arricchire la narrazione per renderla più
interessante. Ma è anche abbastanza suggestiva la tesi secondo la quale queste
storie sarebbero scaturite dalla fantasia popolare con un preciso fine
catartico e con lo scopo di purificare l’animo dalle passioni per sublimare in
una contemplazione comprensiva e superatrice della colpa o del peccato, in una
parola, nella santità.
Anche sulla storicità del santo le
difficoltà sono molte, non fosse altro che per il fatto che non è menzionato in
nessun martirologio né trova riscontro nella Patrologia latina. Difficile pure comprendere
perché sia stata ambientata proprio a Giulianova la scena madre di tutta la
tragica storia e difficile altresì arrivare ad una convincente collocazione
temporale che abbia credibili agganci cronologici. Possibile forse arrivare a giustificare
il passaggio dallo stato di peccato a quello di grazia fino al culmine della
santificazione. Contestualizzare insomma tutta la produzione letteraria
popolare religiosa alla riconosciuta predisposizione della narrativa medievale
a voler dimostrare la vivifica potenza del destino che consente, a chi si
pente, di superare ogni peccato: Quod
omne peccatum, quamvis predestinatorie gravissimum, nisi desperationis baratro
subjaceat, sit remissibile.
Pur nella non agevole e nebulosa ricerca
di un riferimento storico e di una collocazione territoriale delle vicende
narrate nel testo del Magnanelli, è possibile far emergere quindi una chiave di
lettura, una sorta di motivo ispiratore, comune a tutte le storie, vere o
inventate, relative ai santi di cui si fa menzione nel libro.
Gli originari canti narrativi religiosi,
così come le antiche leggende dalle quali essi trassero origine, sempre a metà tra fantasia individuale e
collettiva, potrebbero essere accomunati da un unico preciso e nobilissimo fine,
quello di dimostrare come ogni atto di crudeltà umana, anche se gravissimo,
anche se inevitabile perché predestinato, non deve perdersi nel baratro della
disperazione e dello sconforto perché, per grazia di Dio, ogni più efferato
delitto, se c’è vera contrizione, può essere perdonato.