VIA QUARNARO
Borgo di giovanili memorie
Racconto breve di Sergio Di Diodoro
Il
cancello della casa di nonna
Gaetanella si apriva nel cuore di via
Quarnaro. Era proprio a metà tra la Scuola elementare ed il lungomare. Nel
piccolo giardino, a ridosso della via, una pergola non grande, ma antica,
regalava in settembre meravigliosi grappoli di uva. Era il “moscato”. I chicchi
erano sodi, grandi, dolcissimi. In mezzo ai
raspi spesso trovavi una piccola ragnatela col suo ragno, ma questo in
nessun modo poteva alterare il piacere di mangiare quel “nettare” che veniva consumato direttamente, appena colto,
senza neanche essere lavato. I rami della vite sporgevano a ridosso della
strada e i corposi grappoli rappresentavano per i passanti un piacevole ristoro.
Correvano
gli anni sessanta.
Quando
imbruniva, nei pomeriggi primaverili, tutto il borgo assumeva i colori della
primavera stessa. E la strada diventava odorosa
perché l’aria s’ impregnava degli aromi di ogni pietanza. I peperoni
fritti di Loreta, le alici alla brace di Maria “La Barcapersa” , le polpette di
nonna Gaetanella. Appena terminati i compiti di scuola noi ci riversavamo per
la via, come le lumache quando spiove. Si respirava un dolcissimo nettare di
primavera: il clima era mite, segnale
precursore dell’estate ventura, già annunciata dalle prime fogge audacemente
leggere, dall’abbandono dei pullover di lana, lasciati cadere per terra mentre
si approntava un improvvisato campo di calcio in mezzo alla strada.
E
la strada era poco trafficata. Solo qualche auto, ogni tanto, ci costringeva a
rimuovere le “porte” sul terreno sbrecciato, i quattro mattoni disposti a
cinque passi l’uno dall’altro. Quella era la distanza giusta con riferimento
alle dimensioni del terreno di gioco. Il
pallone, di cuoio, aveva un taglio dal
quale veniva inserita internamente la camera d’aria rossa, poi richiusa dentro
per essere gonfiata. Il lembo attaccato alla pompa veniva rigirato su se stesso
e sistemato nella feritoia, richiusa a sua volta con un cordone di cuoio annodato
e nascosto all’interno. Un processo lungo e riservato ad esperti che riuscivano
a non far vedere null’altro che la strettissima fessura dopo aver gonfiato la
camera d’aria.
Poi
sulla superficie liscia del pallone veniva spalmato grasso animale a volontà,
per ammorbidire il cuoio irrigidito dal continuo contatto con la polvere e con
le pietre del terreno.
Il
profumo del sugo di pomodoro di nonna Gaetana si spandeva nell’aria e nelle
case della via fin dalle prime ore del mattino. Era una sinfonia di aromi,
quasi un elemento naturale di quel quadro dipinto sullo sfondo del mare, che si
intravedeva alla fine della strada, dopo la pineta, e dal quale giungevano
continui effluvi di salsedine, quando si era sotto vento, e il rumore sordo e
dolcissimo della risacca. A pranzo mangiavamo polpette di carne e pane fresco
profumato, profumatissimo, caldo di forno, perché si comprava alle undici, dopo
la seconda uscita, affinchè giungesse in tavola ancora fumante.
Via
Quarnaro era come un luogo di ritrovo naturale. Non occorreva darsi
appuntamenti, né c’era bisogno di fissare orari. Non c’erano regole, se non
quella, non scritta, di essere lì, tutti i giorni, dopo aver terminato i
compiti di scuola. Poi si restava fino a che non fosse scesa la prima oscurità
della sera, quando l’aria cominciava ad impregnarsi dei diversi profumi della
cena imminente. Allora si rientrava a casa. La serata trascorreva senza
televisione, senza telefonini, senza computer, senza stereo. A volte ci si
addormentava, dopo cena, con la testa reclinata sul tavolo, per poi
trasferirsi, assonnati, sotto le fredde lenzuola del letto. I termosifoni non
c’erano e dalla stufa a legna della cucina arrivava nelle camere solo un
tiepido calore. Rispetto agli adolescenti di oggi non avevamo nulla. Vivevamo
di fantasia, di semplicità, di sentimenti vari e genuini, di piccole cose.
Ognuno era felice di niente, ma quel niente era tanto.
Passavano
poche auto in via Quarnaro: in media una ogni trenta o quaranta minuti. Qualche
bici, a volte il carrettino del pescivendolo, qualche scooter. Ma raramente. In
realtà tutta la strada era a nostra disposizione, tanto che i libri di scuola
diventavano i “pali” delle porte di un improvvisato campo di calcio dove si
svolgevano incontri di grande intensità agonistica. Le squadre venivano
definite col sistema della scelta diretta. Due “capitani” improvvisati (in
genere coloro che per primi avevano proposto lo svolgimento dell’incontro)
procedevano ad una “conta” con la quale si stabiliva chi dovesse iniziare a
scegliere, tra i presenti, il primo componente della propria squadra. Poi si
andava avanti così fino alla fine. Naturalmente coloro che venivano scelti
subito erano quelli considerati migliori. Chi veniva scelto per ultimo era il
più “brocco” o, come talora accade, il più “antipatico”. Definite le formazioni
si iniziava a giocare una sorta di partita “a dieci”, ossia senza limiti di
tempo, ma con la regola che la squadra che avesse per prima realizzato dieci
goals sarebbe stata dichiarata vincitrice. L’incontro era sospeso solo nel
rarissimo caso che transitasse un’auto. Diversamente il passaggio di una
bicicletta o di uno scooter non era considerato motivo valido per interrompere
un’azione di gioco. Non esisteva fallo laterale, ma si giocava “di sponda” cioè
potendo utilizzare il rimpallo del pallone su una parete laterale, fosse stato
il muro di una casa, o un cancello, o un marciapiede. Non c’era arbitro. Ogni
decisione in merito a qualche presunto fallo di gioco scaturiva da una specie
di improvvisata ed estemporanea discussione , a volte anche molto vivace, tra i
giocatori coinvolti nello scontro. Allora intervenivano gli altri, e si
ripeteva un rituale sempre identico: un acceso scambio di opinioni, qualche
parola di troppo, qualche spintone. Alla fine emergeva sempre un verdetto
emesso a “furor di popolo”. In genere era molto importante avere in squadra,
oltre a gente capace di giocare a calcio, anche qualcuno in grado di negoziare
bene e capace di gestire le situazioni di criticità. Se poi questi fosse stato
anche fisicamente ben messo e più massiccio degli altri, quindi in grado di far
valere bene le sue ragioni, tanto di guadagnato. Alla fine della partita,
sudati e lerci (la strada non era asfaltata, ma sterrata), si andava a bere
alla fontanella pubblica di viale Orsini, davanti alla Scuola Elementare. E qui
partiva sempre un coro di sbeffeggiamenti indirizzato alla squadra uscita
sconfitta. A volte qualcuno dei perdenti, insofferente davanti alla spietata
volgarità degli sfottò, andava fuori di testa e reagiva con violenza, assalendo
fisicamente qualcuno degli avversari. Nasceva così la classica zuffa tra i due
litiganti che iniziavano a darsele di santa ragione. In luogo di
intervenire per separarli , quasi sempre
gli altri facevano cerchio intorno e assistevano al combattimento incitando
l’uno o l’altro, al grido selvaggio di “match, match” o “botte, botte” . Il
passaggio dal dopo partita al pugilato aveva termine quando qualche passante
adulto si intrometteva nella mischia ed interveniva a separare i due avversari.
A questo punto il gruppo si disperdeva naturalmente, per ricomporsi il giorno
dopo, nello stesso posto, alla stessa ora.
La
domenica mattina tutto il borgo era impregnato di profumi e di fragranze che, mescolandosi tra loro, diventavano il simbolo della giornata. Le
casalinghe di allora, le vere massaie di un tempo, trascorrevano l’intera
mattinata in casa per approntare l’impasto che sarebbe servito per stendere la
sfoglia per poi ottenere la pasta all’uovo, tipico piatto domenicale. Quando
nonna Gaetanella preparava “li maccarì tutt’ove”, cantava ritornelli dei suoi tempi con voce
dolcissima ed argentina ed era un quadro
d’autore. Il profumo del suo sugo di carne e pomodori si spandeva per
l’intera via e l’aveva resa famosa in tutto il quartiere. È impossibile non
ricordare le sensazioni diverse che si provavano quando ci si trovava in
strada, in genere dopo la Messa delle 9,30, per trascorrere la mattinata
inventando qualche diversivo, immersi nella magica atmosfera di quegli aromi,
che preannunciavano il pranzo della domenica, un rito al quale nessuno avrebbe
voluto rinunciare. Un desinare diverso da quello di oggi perché molte pietanze
erano tipiche dei giorni di festa e non sarebbero più transitate sulla tavola
per tutto il resto della settimana. L’attesa, come sempre avviene, era ancora
più bella dell’evento. Così quelle due ore trascorse in strada a fare
nulla, aspettando solo che quelle
suggestive sensazioni si traducessero in realtà, erano momenti magici della
giornata. Il preludio ad un periodo di
ritrovo, di serenità, di pace familiare, ad un pomeriggio di libertà dai
compiti di scuola.
In
genere ci si trovava, intorno alle 14 davanti al cinema Ideal, alla fine di via
Quarnaro. Dopo il pranzo non si poteva
fare altro. O l’incontro di calcio al
Fadini o, se Il Giulianova giocava in
trasferta, pomeriggio al cinema Ideal o
al cinema Ariston. C’era tuttavia un
paletto da superare. Tutte le domeniche, dopo la Messa, occorreva
prendere visione di un avviso esposto ai fedeli sul fondo della Chiesa, nel
quale si fornivano indicazioni sui film
in programmazione: T per tutti, S sconsigliato, V vietato. A volte forzando un
po’ la mano si riusciva ad andare a vedere qualche S, ma per la categoria V non
c’era speranza. Non erano sempre film
scollacciati, anzi, non lo erano quasi mai a quell’ora, ma spesso le
limitazioni riguardavano scene di violenza, immoralità, atteggiamenti corrotti, depravati, ingiusti. La morale era
un’altra. Diverso era anche il rapporto genitori figli, almeno in gran parte
delle famiglie di allora. Non ancora delineata la contestazione sessantottina,
esisteva il rispetto per i genitori, si osservavano scrupolosamente gli
insegnamenti paterni e materni. In altre parole se veniva proibita la visione
del film non c’era verso di ottenere poi
il consenso. Si rinunciava e basta. E così qualche rara volta in cui
nelle due sale si programmavano film vietati si finiva per trascorrere l’intero
pomeriggio in strada, in via Quarnaro, inventando modi diversi per trascorrere
il tempo.
Quello
che chiamavamo “spiazzale” altro non era che un cortile interno, confinante con
casa nostra e con altre case vicine, una
piazzetta di cemento alla quale si accedeva da un grande cancello di ferro che
dava su una piccola via, una traversa
che collegava via Quarnaro con via Nazario Sauro. Era il luogo di ritrovo post
prandiale. Appena terminato il pranzo, infatti, prima di iniziare i compiti di
scuola, si andava “allo spiazzale”,
anche qui per giocare ridotte partite di calcio, spesso tre contro tre, a volte interrotte da qualche adulto che
aveva la sfortuna di avere la finestra della camera prospiciente al cortile e
che, quindi, specie d’estate, protestava per il rumore e gli schiamazzi che gli
impedivano di riposare. A quei tempi non c’era l’impudenza di oggi. Bastava
un rimprovero appena velato e si andava
tutti via. Nessuno osava reagire ad un adulto, fosse stato anche un estraneo.
C’era rispetto per gli anziani. la
discrezione e l’educazione spesso funzionavano in modo tale da reprimere ogni
pur giustificato desiderio di manifestare il proprio dissenso. Correvano
turpiloqui e volgarità, ma solo tra coetanei. Nessuno si sarebbe mai sognato di
rivolgersi con parole inopportune ad una
persona adulta, e tanto meno ad una persona anziana. Eravamo così.
Lo
spiazzale era anche il luogo in cui ci si intratteneva per lavare la bici, per
lavare a volte le radici di liquirizia
riportate a casa ancora interrate. C’era anche, su uno dei muri
laterali, un vecchio anello arrugginito che simulava il canestro del basket. Ma
era riservato a pochi intimi, che,
peraltro assai raramente, organizzavano qualche breve incontro .
Un
fenomeno curioso accadeva spesso: poiché il cancello di ingresso allo spiazzale
rappresentava anche una delle porte del
mini campo di calcio, e restava sempre
aperto perché era assai difficoltoso chiudere le due pesanti ante di
ferro, il pallone finiva sempre per
andare contro una rete di filo spinato che era al di là della
strada. E regolarmente si bucava.
Provammo a risolvere il problema usando il
pallone di cuoio ricucito da un lato e cosparso di grasso animale.
L’effetto era che il cuoio finiva per rovinarsi e
consumarsi sul cemento e il grasso sporcava scarpe, vestiti, mani, gambe e
tutto il resto. Si rientrava in casa completamente luridi e insudiciati. Non
c’era l’uso frequente della doccia e il bagno in vasca era programmato, in genere, per il sabato
sera. Al rientro nessun rimprovero da
parte dei genitori, per quanto
quotidiano, poteva toglierci il piacere accumulato in quella mezz’ora di
libertà, in quell’ovattato microcosmo che era lo spiazzale, ogni giorno.
Di
quei momenti magici ricordo il profumo di mandarino che ci restava sulle mani dopo pranzo per tanto tempo e che poi si
mescolava in una fragranza di aromi con il sapore del grasso del pallone,
intriso di terra e di polvere. Era un contatto diretto, reso ancor più unico
dal cielo plumbeo, da quel freddo secco ma non lancinante che ti spingeva a
muoverti, a correre. Era come se l’aria fosse impregnata di ineffabile
sapidità, un misto di percezioni piacevoli oggi divenute struggente rimpianto.
La
finestra della cucina della casa di via Quarnaro dava proprio sullo spiazzale.
All’imbrunire, durante le serate estive, prima che la luce del giorno lasciasse
spazio all’oscurità incombente, mentre erano in corso le nostre partite
pomeridiane di calcio “a tre”, da quella finestra illuminata si spargeva per
l’aria il profumo della cena: era un dolce e rassicurante richiamo, una sorta
di segnale che preannunciava l’imminente abbandono nel batuffolo degli affetti
familiari. Era quasi un rito la cena in tutto il borgo, perché gli odori che si
spargevano nell’aria dalle finestre aperte creavano una specie di melodia, una
musica meravigliosa fatta di straordinarie ed indicibili sensazioni. E’
difficile descrivere, narrando, quale fantastica commistione si creasse tra gli
aromi delle pietanze pronte per essere servite sulle tavole apparecchiate e la
fragranza degli effluvi presenti nella leggera brezza che s’alzava dal mare
vicino, recando pungenti sentori di
salsedine.
In
quel paradiso vivevamo, negli anni sessanta, noi di via Quarnaro.
Tutto vero... io c'ero... Sono contento di aver fatto parte di quel piccolo, meraviglioso e irripetibile mondo dell'infanzia. Ci vorrebbe una macchina del tempo, per potersi riaffacciare anche solo per un'ora in quello spiazzale invaso dal profumo della cena che si stava preparando, per giocare ancora una volta a pallone sulla strada...
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