L’erba brinata davanti all’uscio dell’aula di
campagna, il freddo novembrino. Dentro, improvviso, l’odore acuto e pungente del
legno dei banchi. Giornata di pioggia e di nevischio: il fango davanti alla
porta, quando entriamo, si attacca alle scarpe e vi resta per tanto tempo, per
tutta la mattina. Con gli occhi seguo i piccoli rivoli d’acqua che all’interno fuggono
per terra e corrono, si inseguono sul pavimento dissestato e poi s’infiltrano
tra le mattonelle umide e sconnesse.
Un timido calore emana dalla
vecchia stufa a legna, di terracotta, giallastra e fumosa, vicina alla lavagna.
Miscuglio di percezioni
diverse.
I grembiuli neri con i
colletti bianchi ed i nastri azzurri. Le barrette di cotone bianco cucite sulle
maniche o sul petto. Orizzontali o verticali. Una, due, tre, quelli di prima, di
seconda, di terza. Oppure una verticale con una sgangherata V accanto. Sono
quelli di quarta. Pochi. E ancor più pochi quelli di quinta. Ma qualcuno è
senza grembiule, qualcuno ha le scarpe con il fondo aperto. Il viso sporco. Le
mani sporche. Siamo in campagna. Io vedo, guardo, osservo, fisso nella memoria.
Una sola classe. Tutti
insieme. Ci si alza in piedi per il “buon
giorno” corale quando entra la maestra. Una sola maestra, cinque classi. Poi
la preghiera. Sempre in piedi. Capisco, non capisco, una cantilena, ogni
mattina è uguale, ogni mattina. Io non recito ma mi guardo intorno. Fisso ora
l’uno ora l’altro. Loro mi sbirciano di tanto in tanto, ma non possono
distrarsi, non possono. Io invece non ho l’età, io ascolto, incuriosito,
cadenze e cantilene. Qualcuno a volte non segue e si distrae. Va per conto suo, è in
ritardo. E’ quasi sempre quello dell’ultimo banco. Mia madre dalla cattedra lo
fissa, io mi giro per vedere. Lui smette di recitare, poi riprende, a voce più bassa,
timido, volge gli occhi per terra.
L’appello. Io so i nomi,
tutti, li ripeto nella mente ad uno ad uno prima che li dica mia madre, li
distinguo e li riconosco, i maschi, le femmine. Sono seduto tra di loro, siamo tre
o quattro in ogni banco di legno, io sto tutti i giorni in un posto diverso,
ognuno vuole che sieda vicino a lui. Come fossi una mascotte, un giocattolo.
Presente… presente… presente… Cosa vuol dire, perché
tutti i giorni, sempre uguale? Sempre uguale. Capisco, non capisco, ma è quella
regolarità che mi dà sicurezza, è un
batuffolo di sensazioni note, non ho da temere, nulla di diverso può accadere,
è il mio mondo, è la mia seconda casa, c’è mia madre, non devo imparare come
gli altri, posso, se voglio, se non voglio non importa, non ho l’età, sono il figlio della maestra.
Scorrono le ore del
mattino. La poesia a memoria, tutti recitano a turno, chiamati davanti alla
cattedra, “O cavallina cavallina storna
che portavi colui che non ritorna …”
Io so. Ho imparato, ogni giorno ascoltando, quando loro non ricordano sarei
capace di proseguire, ma non posso, devo stare in silenzio, fermo, al mio
posto.
La ricreazione. Ognuno
scarta qualcosa. Odori diversi, fragranze forti: fette di pane spesse ed unte,
salsicce spalmate, formaggi. Un pezzo qua, un pezzo là, le briciole sui banchi.
Tutti mi offrono. Guardo mia madre, un cenno, non posso, solo un pezzettino,
solo da uno, poi basta. Sulla piastra della stufa il caffè della maestra,
l’aroma che invade l’aula, un profumo quotidiano, amico, rassicurante.
Poi la voce calda di mia
madre che parla, parla forte, nitida, poi velata, ovattata, lontana. Si perde.
La mia testa si reclina sul banco e gli odori acri del legno e dell’inchiostro
del calamaio penetrano nelle narici.
Dormo, non dormo, sento un vocìo, un brusìo,
poi più forte un richiamo a voce alta, mi sveglio, sonnicchio, ridormo, mi risveglio.
La lavagna, i disegni solo
per quelli di “prima”, la casa, l’albero, il dado. La A, la B, tutte le
riconosco, le leggo, saprei come scriverle, ma non devo, se non voglio non devo.
Guardo, osservo, ma potrei non guardare, non osservare, non ho l’età, sono
libero, sono il figlio della maestra…
L’aria è greve dentro
l’aula ormai calda, troppo calda. I grembiuli neri odorano di fango e di
campagna. Si lavano solo il sabato perché la domenica non c’è scuola.
Qualcuno non segue col
dito la lettura, mio madre lo sgrida, io non vorrei, mi dispiace, è mio amico.
La regola non perdona, l’ordine è rigido e rigoroso, nessuno è escluso, nessuno
deve distrarsi, li chiama a sbalzo, li richiama subito dopo perché continuino a
leggere di seguito, non possono alzare gli occhi dal libro. Mi sembra una
tortura. Perché?
La bacchetta sulla
cattedra. Severina la chiamano. Non la usa mia madre, non ne ha mai bisogno. Ma
il fatto che stia lì mi incute grande timore. Temo per loro.
Vado direttamente in
seconda classe. Non frequento la prima, so già leggere e scrivere, so contare
fino a cento. Compagni nuovi, un’aula diversa, non siamo più in campagna, c’è
un bidello, così viene chiamato, ma il suo vero nome è Pietro. Sembra severo,
tutti in fila per due, bisogna tenersi per mano. Non conosco, ho molta ansia
dentro, forse paura. Non sono più un privilegiato, regole uguali per tutti.
Primo giorno, compagno di banco, Francesco, è profumato. Il banco è pulito, non
c’è inchiostro nel calamaio, non useremo penne, solo matite e gomma. La
maestra. E’ alta, ha gli occhiali, ha anche lei la bacchetta sulla cattedra, ma
parla in modo dolce, come una mamma. I capelli raccolti a cipolla, un po’ bianchi
e un po’ neri, scrive sulla lavagna, poi cancella, sale in cattedra, siede, si
alza. Guardo tutto con attenzione, scruto ogni movimento, ne va della mia
serenità. Devo capire. E’ buona, è cattiva, ha l’aria di una che perdona, ma
meglio non rischiare. In piedi, la preghiera, ora devo recitare in coro con
tutti, seguire, non posso distrarmi, non sono più uno che può fare o non fare.
Qualcosa sta cambiando.
Si apre una nuova pagina, come nel sussidiario. Ora non ho più privilegi di
sorta.
Il copiato, la lettura, dieci
caramelle acquistate e quattro perse per strada, quanto fa, lo so, imparo a
calcolarlo.
Le poesie di Rodari, il
libro Cuore, gli eroi del Risorgimento, il dettato, il riassunto.
Per quanto tempo sono
scolaro, per una folata di vento, apprensioni, paure, tutti comandano,
chiedono, dolcemente, ma chiedono, bisogna rispondere, imparare, crescere.
Bisogna crescere.
Devo imparare
che la cavallina che portava colui che
non ritorna può essere storia vera. Perché la felicità è effimera ed è vulnerabile
dalla storia, dagli eventi, dal tempo che trascorre e scivola via come sabbia
dalle dita…
Imparare che Severina è comunque
la forza dei tiranni e dei dittatori, e che ogni ordine democratico si può
ottenere anche con il dialogo e con giusta condivisione.
Quindici anni. Gli
amoretti liceali.
Da adolescente inseguo i
sogni. Il prodigio degli innamoramenti, gli sguardi d’intesa rubati dai banchi durante
le lezioni, le mezze frasi fatte di parole importanti. Ascolto, la sera,
nell’invulnerabile guscio della mia cameretta, le note di un disco, sempre
quello, e volo via verso le impulsive illusioni giovanili, sempre turbato dalle
mie incertezze.
Oggi sono per me lontane,
antiche, ineffabili memorie:
la gita a Sorrento, la
prima volta da solo con Annalisa. Domani sarò interrogato, poi c’è il tema in
classe, non so cosa scrivere. Le ansie, le efferate delusioni, le vittorie e le
sconfitte, le prime lacrime per amore. Come sarà nella vita, gioie e dolori che
durano un attimo soltanto, un fantastico gioco di improvvise indecisioni e
fulminanti batticuori.
Malori adolescenziali. Passare
dalla mestizia sconsolata alla felicità schietta e incontrollata. Dall’una
all’altra in un baleno, senza alcun
apparente riferimento a ciò che accade intorno.
Giovane studente quindicenne, col cuore ebbro
di vita, fuggo nel mio microcosmo di
miraggi e di lusinghe, allucinato dai colori e dalle luci che vedo intorno,
dappertutto, ovunque volga lo sguardo.
Chi comprende le mie
malinconie, quando la sera a tavola non parlo, quando non ho voglia di
raccontare, quando sorrido per compiacimento,
eppure penso ad altro?
La dea dei quindici anni
è bella e veste d’azzurro. A lei sorrido, seppure sempre turbato dalle
irresolutezze dell’età, e inevitabilmente sedotto dai suoi incantamenti fuggo
verso i fulminei bagliori che mi regala.
Adolescente, sessantottino
(ma quanto presto sono diventato “grande”) contesto come gli altri, per
cambiare le leggi, per modificare le regole, in nome della libertà,
dell’emancipazione, dell’indipendenza.
Ma sono ancora, come gli
altri, fragile dentro.
Chiedo consensi e consigli, eppure non vorrei, ho bisogno di sicurezze per i miei dubbi e di
consolazione per il mio pianto.
Liceo, scuola di sogni, incertezze
e turbamenti, di titubanze ed indecisioni, e di vagheggiamenti giovanili.
Ormai maggiorenne,
scelte importanti, decisive, irreversibili. Il futuro, la carriera, la
professione. Banchi ad anfiteatro. Compagni di Corso, non più di scuola, amicizie diverse, più eteree, di quelle
che passano, che si ricorderanno a fatica, che non resteranno impresse
nell’animo come marchi indelebili o come il profumo acre del legno dei banchi
di un tempo.
Adesso i giochi sono
fatti, è tracciata la via maestra da
percorrere fino in fondo.
Ora è tempo di
affrontare la vita a viso aperto. Un modo diverso di approcciare gli eventi, la
realtà che incombe in un contesto di progressiva immutabilità. Ora ho in mano
tela e pennelli per dipingere in modo definitivo l’immagine del mio futuro. A tinte fosche, o colorate e
vivaci. Dipende dalla mia volontà, ma anche dalla sorte, dalle scelte, dal caso
e dalla ventura.
“Quisque faber fortunae suae” sentenziava di continuo
il prof al Liceo, quando l’ebbrezza giovanile, l’euforia e la spensieratezza di
quegli anni offuscavano l’immagine del futuro, mostrandolo lontano, tanto
lontano, e così remoto da sembrare proiettato in una dimensione irreale. Come
se dovesse appartenere solo agli altri. Come se la gioventù avesse durata
illimitata e fosse un nostro possesso inalterabile ed inespugnabile.
Oggi inutilmente vorrei
rivivere il momento di qualche scelta del passato, modificare in dubbio qualche
antica certezza, cambiare in certezza qualche vecchio dubbio. Forse il presente
sarebbe diverso, in meglio o in peggio, nessuno potrà mai dire.
O forse siamo solo
personaggi designati di un quadro già dipinto. Forse è già raffigurata dal
destino la tela di ognuno e già scritta è per ciascuno la vicenda della propria
vita.
Forse nessuno, per
quanto possa fare, potrà mai cambiare i colori della tavolozza, né modificare
l’ordito del disegno originario.
Ma alla fine sarà
comunque il tempo a scrivere l’ultimo capitolo della storia.
Venti anni sui banchi di
scuola e la vita che scorre a braccetto: oggi tante cose ho imparato: so che i
poeti soffrono. Che la dea vestita d’azzurro all’improvviso scompare e non
torna più. Che la Cavallina storna è storia vera perché i
padri possono morire all’improvviso. So
che i compagni più cari possono ferirti, che i piccoli grandi amori puoi
perderli per strada e ti resta dentro la
rabbia, e poi il rimpianto.
So che un mistero
infinito incombe su di noi, e che non brilla sempre il sole sulle illusioni dell’adolescenza.
Ho imparato che quando
diventi uomo trovi ostacoli posti dagli uomini: barriere, tranelli, trappole,
insidie, cattiverie, inganni.
Perchè va via la
giovinezza e ti lascia a poco a poco dentro un corpo che a te non pare più il tuo,
ti aggiunge anno per anno il peso di un’età che sembrava appartenere solo agli altri, la canizie che mai avresti
pensato di avere, una pelle diversa, e ti disegna con crudeltà rugosi ghirigori
sul viso…
Così passò la mia
giovinezza.
Allora scopri che la
vera scuola è per sempre, e che sei ancora seduto nel tuo banco, perché sempre
hai da imparare, prima dalla scuola, poi dalla vita.
Ma con il ricordo, se
voglio, in un momento di totale ed
assoluta diserzione mentale, posso fuggire lontano.
Modellare la memoria,
usando tela e pennello per rivivere una realtà di mio unico, personale e prezioso possesso. E se per un attimo
soltanto col pensiero fuggo lontano, rivedo al mio fianco Annalisa e tutti i
miei compagni, e l’incanto degli anni di scuola che il ricordo incornicia nel
più bello dei quadri d’autore che nessuno ora, davvero, può modificare.
Con coraggioso cimento lascio spazio ad audaci
fantasie e mi rifugio nel mio caro mondo antico: solo il tempo di estraniarmi dal reale per poi
tornare, inevitabilmente, nel reale.
Il tempo di tornare
scolaro, e poi studente, il tempo di vivere ancora, libero come un gabbiano in
cielo, mirabili e illusorie chimere, opponendo strenua difesa alla dura
razionalità ed alle fredde apostasie
della mente.
Il tempo di subire
ancora un ineffabile inganno.
Come quando sembrava
tutto facile, possibile, concesso, lecito, non obbligatorio. Come quando ero
libero di fare o non fare, di dire o non
dire, di imparare o non imparare.
Come quando nell’aula
della scuola di campagna io ero il figlio della maestra.
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