”Il mare non ha paese ed è di tutti quelli
che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là, dove nasce e muore il sole..”
Come reso irreale dal
silenzio, interrotto solo dal lento e ritmato riflusso dell’onda sugli scogli e
dal planato volo dei gabbiani, alcuni a tratti quasi immobili nel cielo, il
porto appariva, quella sera, simile ad un quadro d’autore, dipinto con cura, e
tuttavia non concluso, forse perché l’ultimo
tocco di pennello, definendone in modo immutabile forme e contorni,
avrebbe potuto alterarne la virtualità e la portata espressiva, ineffabili
nella loro evanescenza.
Quasi per tener dietro ad un antico rituale anche
quella sera, lentamente, i pescherecci volgevano le prue verso il lontano
orizzonte, uno dietro l’altro, sollevando nell’acqua vortici di schiuma e
riverberi sbiaditi dell’ultimo sole del giorno, immenso disco di fuoco che il
Gran Sasso, a poco a poco, traeva a sé in un richiamo eterno e naturale.
Si allontanavano e scolorivano le luci del porto e,
da bordo, Giulianova spariva in lontananza con le sue case, le voci, i colori
della sera ormai tarda.
Vincenzo di solito restava a lungo con lo sguardo
fisso in direzione del campanile del Santuario, ora illuminato per l’ormai
prossima Festività del 22 aprile. Quello era il punto di riferimento che
avrebbe potuto vedere ancora per un po’ di tempo mentre il peschereccio si
allontanava in mare aperto. E questa sua peculiarità gli consentiva di avere,
nei confronti dei compagni di viaggio e di lavoro, ormai già dediti alle
incombenze di bordo, un intimo colloquio con la sua terra, col paese, con
Lucia. Era questa l’ultima uscita in mare prima del matrimonio. Dopo il ritorno
avrebbe prelevato in Banca quanto messo da parte in duri anni di sacrifici e di
rinunce e avrebbe sposato Lucia.
- Quattro soldi Peppì - confidava mentre insieme
preparavano le reti nelle ceste – ma per sposarsi bastano. Poi ci
accontenteremo.-
-Un mestiere così è già molto se ti fa campare –
sentenziava Tonino, il cuoco, e mentre il profumo delle sarde arrostite si
mescolava a quello pungente della salsedine e delle gomene inzuppate d’acqua,
Vincenzo rifletteva sull’immutabile realtà di quella vita, non diversa da
quella vissuta da suo nonno e da suo padre, marinai, con famiglie e figli che
avevano sempre avuto gli stessi problemi.
Questo pensiero, in parte, lo rincuorava, né del
resto egli avrebbe mai potuto immaginare per sé occupazione diversa o altro
lavoro che quello di marinaio.
Il mare, le sue voci, la fragranza asprigna della
salsedine, quello spazio azzurro infinito che lo circondava , tutto gli era da
sempre naturale, consueto, solito ed usuale, tutto da sempre era parte
inscindibile della sua vita.
La brezza della sera, prima leggera e gradevole,
s’era fatta, al sopravvenire della notte, prima più tesa, per poi trasformarsi,
a poco a poco, in vento forte. Stava arrivando l’ennesima tempesta. Nel buio
che ora avviluppava da ogni parte l’imbarcazione Vincenzo, come altre volte era
capitato, individuava distintamente il bianco latteo e vorticoso delle onde. Ma
gli parve, quella notte, come di udire nel vuoto l’eco di voci lontane, arcani
e indefiniti, ma suggestivi richiami del mare. Anche il mugghiare delle onde
gli sembrava quella notte diverso, sicchè si pose, per la prima volta, come non
aveva mai fatto prima, neutrale e distaccato di fronte a tutto. Diventò un osservatore
esterno. E mentre non v’era fenditura né pertugio ove il vento freddo non
filtrasse, per uscirne poi sibilando, e mentre tra le alte onde il piccolo
“Vincenzo Padre” era diventato poco più di un fuscello alla deriva in uno
stagno, Vincenzo guardò fisso verso gli altri suoi tre compagni. Quando i lampi
li illuminavano a giorno coglieva su quei volti scuri e grinzosi un’espressione
rude ma mai impaurita, e li vedeva preoccupati, ma non disperati, sempre forti
e tenaci, come le genti d’Abruzzo.
Le reti distrutte, gli ingenti danni alle
imbarcazioni, la perdita totale del pescato, tutto era parte di una storia
scritta da sempre, ogni volta riletta e mai ripudiata.
Vincenzo quella notte colse e valutò l’ineluttabilità
di quella vita, la sua obiettiva imprevedibilità, ma anche il legame
inestricabile che congiungendola a quegli uomini e alle loro famiglie ne
avrebbe distrutto, se mai si fosse spezzato, l’esistenza.
Burrasche simili Vincenzo ne aveva viste e
conosciute. Quella notte, però, aveva deciso di recitare una parte: voleva
essere lì per caso, a guardare da fuori, a giudicare. Mentre egli stesso, non
diversamente dagli altri lavorava freneticamente, vedeva tutti correre, affannarsi, sfidare il mare,
quel mare padrone, maestoso e forte, giudice di ogni evento, arbitro e sovrano
della sorte di ognuno. Tutti correvano, bagnati, lerci, incappucciati, sotto le
continue sferzate del vento gelido e delle onde, ma nessuno si chiedeva in cuor
suo perché, quasi in ossequio ad un atavico istinto.
Vincenzo quella notte non era tra loro. Li udiva
strillare, scambiarsi mezze frasi, mezze parole gridate più forte del vento, e
poi udiva invocazioni, preghiere, maledizioni, bestemmie: contrasti di
sensazioni e di sentimenti da cui
scaturiva forte la ferma determinazione a non cedere, a non sottostare alla
terribile ira del mare di quella notte d’aprile.
Si sarebbe sposato Vincenzo, e suo figlio si sarebbe
chiamato Ezio, come suo padre. L’aveva sempre pensato perché così usava tra la
gente di mare, tra i marinai ed i pescatori. E pensò a suo figlio quella notte
d’aprile, a come mai avrebbe acconsentito a farne un marinaio, per non saperlo
mai in balia delle onde, malvestito come lui, col maglione ruvido di lana e con
i pantaloni sempre sudici e bagnati. E, tutto sommato, povero. Questi
pensieri gli vorticavano nella mente
mentre guardava fisso la sua borsa con i manici di corda , inzuppata d’acqua,
abbandonata in un angolo del ponte. Quella borsa che, pure, sarebbe ancora
servita la prossima volta, e chissà per quante altre volte ancora.
L’alba ormai prossima tingeva l’orizzonte dei tenui
colori di un mattino che ognuno, a bordo, prevedeva radioso.
Si parlava ora solo dei giorni futuri, di come e
quando si sarebbe provveduto a rammendare le reti, a sistemare o a sostituire
le scotte. Si azzardava una valutazione approssimativa dei danni subiti e si
guardava dappertutto per essere certi che nessun attrezzo fosse diventato del
tutto inutilizzabile al punto da rendere difficoltosa o addirittura impossibile
la successiva uscita in mare.
S’era sopito, ora, quel mare. Il tumultuoso ruggito
della notte s’era fatto prima lamento, poi amabile sussurro. Erano ormai chete
le acque e l’aurora si stagliava sullo sfondo di un cielo allegrato dal volo
maestoso dei gabbiani che seguivano il “Vincenzo Padre”, messaggeri essi stessi
di nuova vita e di rinnovata serenità.
Vincenzo, sul ponte, aspettava ansioso il primo
raggio di sole: si tornava in porto.
- Per chi vive come noi – disse Giovanni – non
dovrebbe mai essere mare brutto. Una notte sprecata, lontano da casa senza
motivo, e senza guadagno..-
Vincenzo, sul ponte, aspettava ansioso il primo
raggio di sole, mentre si tornava in
porto. Guardava le reti quasi completamente distrutte e le sartie spezzate ed inservibili, mentre
le pompe della sentina funzionavano senza interruzione per estrarre acqua dalla
stiva allagata. Il porto, in lontananza, apparve a lui prima che agli altri, in
un ovattato silenzio che ora regnava sovrano, mentre la prua del peschereccio
fendeva il mare ancora grigio, ma ormai calmo. Solo qualche cresta d’onda,
imbiancando, ricordava ancora i burrascosi vortici della notte.
Vincenzo pensò a Lucia quando ormai gli apparve
nitida l’immagine del campanile del Santuario, la Chiesa nella quale la
domenica successiva si sarebbe sposato. E pensò ad Ezio, suo figlio.
L’avrebbero chiamato così, ne era certo. Poi, come aveva sempre fatto prima
dell’attracco, ricompose la sua borsa di corda con ciò che restava di quanto
s’era portato.
Era pace fatta col mare. Tutti ora a bordo parlavano
tra loro e ridevano. Vincenzo pure era tornato se stesso, elemento naturale di quella vita e di
quel mondo. Ora, ravvedendosi, pensava che pure Ezio, se mai un giorno fosse
nato per volere di Dio, sarebbe partito con la sua borsa di corda. Perchè era
giusto così, e perchè quel mare era da sempre vero padre di tutti loro.
E capì, mentre il “Vincenzo Padre” superava
l’imboccatura del porto per trovare in esso rifugio, come un bimbo cerca il
seno della mamma, che pescatore e marinaio sarebbe stato suo figlio, come lo
erano stati suo padre e suo nonno.
Perché il mare è unica fonte di sostentamento e di
vita per chi, come lui, riesce ad amarlo e ad odiarlo in una notte sola.
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