...Tra le scene abitudinarie una, in particolare, è sempre rimasta impressa
nella mia mente e nel mio cuore in modo indelebile, non so perché. Credo per
via del fatto che il personaggio di cui andrò a narrare tra breve, nella sua
semplicità e nella sua naturalezza, mi pareva celare, dietro l’apparente umiltà
dei modi e dietro una dimessa gestualità una sorta di fiera nobiltà, quasi come
se avesse subito un incantesimo e fosse stata maledetta e trasformata da una
strega cattiva. Una regina, una principessa,
un personaggio d’altri tempi condannato a vivere una vita diversa, in un
ambiente non suo. Un sortilegio che l’avrebbe resa per sempre malinconica e
triste, offuscando il suo meraviglioso sorriso e la lucentezza dei suoi occhi
azzurri sotto il velo di una
impenetrabile afflizione.
D’estate
ogni giovedì mattina, sul presto, in via Quarnaro transitava Maria “la
vongolara”. Era costei una donna sulla quarantina ma, per via di una sconsolata
mestizia che ne alterava le fattezze del
volto, mostrava più della sua età anagrafica. Indossava sempre una lunga
gonna che arrivava ben oltre i pedali della bici sulla quale viaggiava e che
era attrezzata in modo tale da ospitare, nella parte posteriore, sopra al
parafango, due cassette di legno sovrapposte, coperte da un panno, e contenenti
vongole da vendere. Il suo arrivo era annunciato da un grido squillante ed
inconfondibile, che rintronava nel quartiere come la sirena di una nave. Maria
gridava a squarciagola “Voncoleeeeeee”
(con la “c”) e le massaie spuntavano dagli usci delle case come lumache
quando spiove. Avveniva, quindi, la fase di negoziazione e di vendita. Non so
quanto riuscissero a tirare sul prezzo, che era sempre oggetto di coreografica
trattazione, ma certo si otteneva qualche agevolazione in fase di pesatura, con
qualche pugno più o meno generoso di vongole che Maria aggiungeva dopo aver già
riempito e pesato il foglio di giornale. Le vongole, infatti, venivano raccolte
in un semplice foglio di giornale (non esistevano o perlomeno lei non ne era in
possesso) buste di plastica per alimenti” o tanto meno “biodegradabili” come
quelle di oggi. Un foglio di giornale vecchio che serviva giusto per arrivare a
casa e depositare le vongole nel lavandino dove venivano lavate per essere poi
aperte sul fuoco del fornello. Spesso,
perciò, il govedì, d'estate, a pranzo si cucinavano spaghetti con le vongole e sauté di vongole aperte con un delizioso sughetto nel quale tutti inzuppavano il pane
sfornato di fresco al mattino.
Maria
la vongolara attirava il mio interesse e la mia attenzione per quel suo fare
distaccato che ne faceva un personaggio immutabile ed enigmatico al tempo
stesso. Era un’icona dell’estate. Quando compariva, in fondo alla via,
preceduta da quel suo perentorio grido di richiamo io correvo a guardarla,
quasi per cogliere nei routinari movimenti del suo corpo un gesto diverso che
la rendesse più umana, e simile a tutti gli altri. Ma lei era diversa dagli
altri. Sempre impassibile, quasi un
tutt’uno con quella bici sgangherata e sempre barcollante, per via del peso
delle cassette. Il suo dire era essenziale, dagli occhi trapelava una rassegnata malinconia,
come se si fosse adattata alle vicende della vita suo malgrado, pur anelando
nell’animo sorti diverse e certamente più gloriose. Perché era molto
bella. Aveva gli occhi azzurri come il
mare cristallino dal quale provenivano le
vongole che vendeva, ed un portamento austero che strideva non poco con
la sua immagine di umile indigenza. Piuttosto alta, nascondeva sotto le vesti un fisico che
ognuno avrebbe immaginato armonico e ben proporzionato. Lo si intuiva dai
movimenti coordinati e flessuosi delle
braccia e delle gambe e dall’elegante ruotare del capo, che a volte sembrava
accompagnare una musica di sottofondo che solo lei riusciva ad ascoltare.
Certo,
Maria la vongolara avrebbe potuto essere un’altra persona. Questa convinzione
era radicata in me e si alimentava ogni volta che mi fissavo a guardarla.
Quando
transitava per la via interrompeva i nostri giochi di strada. In quel momento
io mi avvicinavo timidamente ed ogni volta scoprivo particolari nuovi e diversi
sulla sua persona, sugli abiti, sulla bici. Mi incuriosiva il sistema così
elementare e pratico che le permetteva
il trasporto delle due cassette senza che una sola vongola finisse per terra
durante il tragitto. Ma più di ogni altra cosa mi colpiva la manualità e la
gestualità con cui lei preparava i cartocci, incassava il denaro, porgeva
rapidamente il resto senza altro proferire. Immaginavo che Maria avesse il
cuore altrove e che stesse vivendo forzosamente una realtà tanto tormentosa
quanto ineludibile. E partiva, allora,
la mia fantasia di tredicenne innamorato della vita a fantasticare per lei una
favola bella: l’avrei portata via con me, lontano lontano, in un paese di sogno
dove il rifiorire della sua bellezza ascosa, ma non trascorsa, le avrebbe
permesso di sorridere finalmente serena e lieta senza costrizioni nel suo vero
mondo fatto di fulgore e di luce.
Ma
tutto durava un attimo. Terminata la
fase di consegna e tornata in sella alla bici disperdeva nel vuoto le mie
fantasie, con quel suo grido adamantino e possente, una sorta di brutale e
prosaico ritorno alla vita che riconsegnava al suo misero stato ed ai
coraggiosi giochi della mia mente la crudezza della realtà quotidiana,
immutabile e definitiva...
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