Dipartimento della Senna marittima,
nell’alta Normandia. La Bouille. Gli anni dell’adolescenza.
A
Natale La Bouille era per me la meta del più bel viaggio dell’anno. Bambino,
poi adolescente, infine studentello diciottenne, andavo con i miei genitori a
far visita alla nonna che viveva sola in una piccola dimora del paesetto, sulle sponde della Senna.
Fu durante quegli indimenticabili soggiorni
oltralpe che iniziai a parlare anche francese ed a frequentare, per
diletto, i boulevards de la Seine.
C’erano
tanti clochards che vivevano ai bordi
del fiume.
Mi
incuriosiva e mi addolorava quell’ affliggente modo di essere al mondo. Uno di
loro, dall’aspetto laido e sgraziato e che era sicuramente piuttosto giovane,
ma che appariva comunque molto più
invecchiato di quanto in realtà non fosse, finì, col tempo, per diventare mio
amico.
Sempre
fasciato di cenci lisi, reperiti con fatica, ma con perizia, nei fondi mefitici
delle discariche di periferia, si cibava di avanzi e rimasugli, frutti di
un’accattoneria abitudinaria ma non indiscreta.
Sempre
lo vedevo aggirarsi con sussiego, non consono al suo stato, tra i bidoni dei
rifiuti, davanti alle cucine di qualche taverna o di qualche ristorante del
Lungosenna, mai triste, lo sguardo velato da ineffabile mistero. Dormiva,
coperto di cartoni, su un giaciglio che era ascoso alla vista di ogni passante
dai fronzuti rami di un cespuglioso leccio. Beveva acqua dalla fontana che
apparteneva a tutti.
Mai
lo vidi elemosinare, perché era d’animo mite,
ma altero e fiero.
Nobile
clochard, misero e indigente, celava
infatti dentro di sé un’indole eletta. Povero, poverissimo, viveva tuttavia ricco
di una fidente indipendenza e di una libertà beata.
Era
uno dei tanti peintres de la Seine.
Ma
diverso dagli altri.
Andavo sempre a trovarlo, ogni anno a Natale,
nel suo giaciglio lungo il fiume, per portargli in dono dolci natalizi tipici
dell’Abruzzo, e poi, in seguito, anche tele da dipingere e colori e pennelli.
Poi
come per tutte le vicende della vita, una volta fu l’ultima.
Morì
poco dopo pure la nonna.
La
casa di La Bouille fu venduta. Mi restò sempre nel cuore l’immagine del
clochard pittore e non dimenticai mai la nostra strana ed insolita, ma
meravigliosa amicizia, né quell’ultimo magico e funesto Natale trascorso in
Francia.
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Non
v’era luogo sulla terra così colmo di meravigliose evasioni come il verde e
fiorente prato sui cui il clochard- pittore della Senna, quando dipingeva, sembrava correre, a piedi nudi, affrancato da
ogni vincolo terreno. Con le sue astrazioni librava l’animo indipendente sopra
sconfinati vagheggiamenti di genialità. Luoghi di serena armonia interdetti ad
ognuno, tranne che a me che gli chiesi, una volta, con un timido sorriso, di
potervi accedere, in modo discreto, avendo cura che né un improvviso fremito né
un molesto fruscìo potessero alterarne, neanche in parte, la sublime
evanescenza. Le sue mani callose e rudi disegnavano tratteggi fievoli, vaporosi, e poi il
pennello, carezzando la tela, inventava paesaggi, scorci, vedute, mai turbati
dalla presenza umana, che sarebbe apparsa, in quell’ascetica figurazione,
inopportuna, ove non innaturale.
Mentre
stava dipingendo una di quelle tele che, attraverso gli impulsivi sfioramenti
delle tinte, tra loro amalgamate in modo seducente fino a sublimare in visuali
fantastiche, diventava un dono inestimabile a me destinato, volle un giorno che
mi avvicinassi a lui.
Mi
invitò ad accostarmi con un cenno della mano appena percettibile, con una
levità di movimento di cui mai l’avresti ritenuto capace, per mostrarmi un
angolo visuale che nessuno avrebbe mai notato: iniziò a raccontare a me,
imberbe studentello d’Accademia, particolari e ragguagli della sua policroma
esistenza di clochard, attardandosi
nella minuziosa descrizione degli episodi anche più banali, come stesse
dipingendo. Colorava ogni vicenda decorandola con eccentriche stranezze,
bagliori, credo, della sua mente sempre estasiata e vagheggiante, e mi
conduceva per mano lungo una scala di vetro, luminosa come l’oro.
Salivamo
allora insieme, con la fantasia, su quei fragili gradini lasciandoci alle spalle,
nelle seducenti evoluzioni del suo narrare, le ipocrisie del mondo, gli
inganni, le leggi inique, le regole infrante, gli omicidi, le rivoluzioni e le
guerre. Con le sue storie mi conduceva in volo in uno spazio senza tempo, oltre
le chiuse vessazioni della sorte che dispensa ciecamente le sue pene, oltre
tutti i dolori del mondo. Al termine della scala di luce, in mezzo ad un prato
verde di totale fulgore, Hervé, (così per celia avevo deciso di chiamarlo, come
un orsacchiotto di peluche che mi era stato donato a Natale, mio migliore amico
d’infanzia a la Bouille), spesso cantava in francese, ed appariva felice. Sul
terreno senza confini di incontenibili
scorrerie cerebrali rifiorivano i suoi ricordi e gli irrefrenabili
rimpianti. T’accorgevi che aveva il dono non comune di poter cogliere
l’infinito nel semplice gioco della normalità, nel succedersi routinario degli
eventi.
Mi
raccontò di Aline.
Gli
apparve, allora, in un subitaneo ed inatteso flash back l’episodio più bello
della sua vita trascorsa.
Mi
raccontò di Aline, e gli brillarono gli occhi umidi di lacrime, forse non solo
per il freddo pungente. E mi sembrò che la stringesse in un tenero abbraccio,
come quella volta del primo bacio, tanto tempo prima.
guidava,
tenendolo per mano, verso un sentiero di lucentezza e di non descrivibile
fulgore.
Poche
decine di metri più in là, a fianco del fiume, i passanti sembravano automi
senza nome e senza volto, imbacuccati nei loro giacconi invernali e nelle
sciarpe avvolte intorno al collo. L’aspetto mondano, frivolo, gaudente e
secolare del Natale degli altri strideva con il
mistico, disadorno e disperato mondo di Hervé, vittima sacrificale di un
crudele ed inesplicabile gioco del destino.
Ma
era proprio questa diversità che gli dava ampi margini di sopravvivenza.
Dove
altri avrebbero visto solo il giorno morire lui coglieva le eccentriche
fantasmagorie del più raro dei tramonti, trascendendo le ovvietà, ideando ogni
più diversa sfumatura e leggendo tra le righe di uno spartito note ed armonie
di cui nessuno, mai, avrebbe immaginato la presenza. Diventava poeta al
pensiero del pianto sconsolato di una giovane vedova o di una madre al
capezzale del figlio o davanti ad un indifeso pettirosso morente. Parlava
tenendo lo sguardo sempre fisso lontano e colorava di azzurro lo sfondo della
tela quando s’oscurava, alla sua narrazione, il cielo dei derelitti. Così il
mendico oltrepassava i visibili segni della vita reale e scriveva uno spartito
che solo alcuni eletti avrebbero saputo leggere, e forse eseguire.
Una
musica che intonava note discordi da quelle dei canti, dei ritornelli e delle
filastrocche di Natale che echeggiavano dai gruppi di musicanti, bandisti e
sonatori sulla strada ai lati della Senna.
E
forse proprio quella musica, a nulla comparabile e che accompagnava la sua
vita, dava senso e significato vero alla ricorrenza del Natale. Mi chiedevo
paradossalmente se non fosse davvero un privilegiato, un eletto, cui le ferme
convinzioni di una fede inattaccabile conferivano la possibilità di guardare
dall’alto ogni cosa, ogni persona, ogni pur infausto evento.
Mi
chiedevo se alla fine non fosse da leggere nella sua miserevole esistenza il
valore autentico del Natale, il momento del riscatto degli umili e dei
derelitti, il trionfo degli ultimi e
degli afflitti.
Per
sua volontà mi chiamò adepto, probabilmente per via di un comune sentire, anche
se in quei giorni speciali ed in quei momenti di serenità cristiana che lui
abbracciava, felice per la nascita del Redentore, io gli parlavo del morire
come momento di assoluta fine, e della morte come estremo compimento ed epilogo
fatale. E ciò contrastava con il clima natalizio, con il miracolo di quella
nascita che lui sentiva fortemente e che
lo riscattava da una vita d’inferno, sublimata solo dal pensiero di una
migliore esistenza post-terrena e dalla mistica atmosfera natalizia che
aleggiava
d’intorno
e che sembrava scaturire dagli effluvi del fiume e dal sapore salmastro
dell’aria circostante.
Ma
il pittore povero non voleva che di fronte al mistero della vita, e soprattutto
della morte, entrassero tra i possessi della sua mente le mie infedeli
elucubrazioni mentali, i miei dubbi, le mie professate perplessità, le
affliggenti angosce giovanili.
Con il capo ormai quasi completamente calvo e
seminascosto da un berretto nero di lana, lurido e lercio, tra i fetori di quel
suo sgradevole giaciglio, senza mai distogliere lo sguardo dalla tela che stava dipingendo, scuotendo la testa perché
contrariato e mai convinto dalle mie parole, mi portava con sé, tra immagini
dipinte e musiche che sembrava comporre, oltre la banalità del quotidiano, per
un percorso fulgente lungo il quale rivisitai sotto nuova luce i suoi desideri
infranti, i sogni mai avverati, le speranze svanite, le disillusioni e i
disincanti.
Hervé
governava da grande maestro quel regno di liberazione e di inossidabile fede,
senza nessuna afflizione, ma con tanta appagante letizia. M’accorsi, anno per
anno, nel corso dei nostri successivi e reiterati incontri, che da ogni patito
inganno aveva sempre tratto precetti per vivere ancora. Da ogni
sconfortante traversia liberava forza e
vigore per non cedere, giorno dopo giorno, alla ventura avversa che ne minava
il corpo, ma che non scalfiva, in nessun modo, la sua imperitura speranza in
ciò che sarebbe accaduto dopo. Aprés la
mort, come diceva.
Per il clochard
de la Sèine nella vita terrena non c’era sentiero, per quanto impervio ed erto,
che non fosse percorso da ciascuno con un preciso fine stabilito ed assegnato,
sulla base di un progetto a noi ignoto, ma sicuramente apportatore di felicità
futura.
Così
convinto credente, carismatico e seducente ammaliatore, parlava del Natale al
mio animo agnostico, eppure nondimeno in quel tempo inevitabilmente plagiato
dalle promesse della vita, e mi indicava come estremità della strada la fine di
una lucente scala di luce. Nel rassicurante silenzio di quell’ineffabile plaga
che s’era creato, il mio importante precettore francese, emarginato dagli
uomini, dipingeva sulle sue tele, illuminandole di speranza, albe e tramonti,
fiumi, monti e città e profondità del
mare, luoghi mai conosciuti, colorati, variopinti, sereni, limpidi e tersi, in
uno scenario serafico che lo portava lontano dalla gente e dal mondo, dalla
vita visibile.
Pochi
giorni prima del Natale di quell’anno, che fu l’ultimo, mi aveva voluto accanto
a sé in una di queste fantastiche divagazioni. Dalla tavolozza chiamò a
raccolta le tonalità dell’azzurro del mare più profondo ed io avvertii i
singulti della sua voce stanca, che ormai mi giungeva lieve. Dipinse sulla
tela, solo per me, il più ambito dei doni, una “Nativité” malinconica e triste sullo sfondo di un cielo plumbeo di
nuvole bigie e minacciose, foriere di un burrascoso fortunale, in arrivo per
lacerare forse ancor più quel suo logoro pastrano, per devastare il suo
giaciglio di cartoni. Un’imminente, ennesima, ineluttabile sciagura di cui
però, come sempre, non avrebbe avuto tema
alcuna, perché confidava nel miracolo di quella nascita soprannaturale.
Tutto
mentre al tepore delle diverse dimore
ubicate ai fianchi della Senna il mondo
degli
altri si colorava delle mille fantasmagorie di luci e del calore mistico che
entra nei cuori di ognuno durante le celebrazioni del Natale.
L’ULTIMO
NATALE
Ora
giaceva immobile, e lo sarebbe stato per sempre, rannicchiato all’interno di un
tubo di cartone che la pioggia battente aveva reso ormai fradicio e grondante.
Gli era servito per proteggersi, ahimé in modo non bastevole, dal freddo acuto
e pungente della gelida notte francese, sotto il pur confortevole abbraccio di
un cespuglio amico, preferito a tutti gli altri, chissà perché, sulla sponda
della Senna, quel mattino sontuosa come non mai nel suo silenzio sovrano. Né
poteva più essergli di conforto o giovamento il timido raggio di un sole
sbiadito che, insidiatosi tra le foglie, disegnava ghirigori di luci ed ombre
sul suo viso freddo, emaciato e stanco,
celato dalla fitta barba incolta, vuoto da tempo di ogni desiderio ed avvezzo
ormai alla disillusione non meno che ad una dignitosa rassegnazione.
Rannicchiato
all’interno della scatola di cartone, ormai zuppa per la neve che veniva giù
lenta e copiosa e che un generoso platano, con le sue foglie aperte, riusciva a
contenere solo in parte, Hervé passava dal sonno leggero al dormiveglia,
ruotando spesso su se stesso per lenire il dolore alle ossa, compresse sui
sassi del Lungosenna.
Aveva
le mani gelate ed il bavero del lacero e consunto cappotto tirato su fino alle
orecchie. Gli era di compagnia solo il ritmato e sinuoso sciabordio del fiume,
unica voce amica nell’ancora buia alba francese.
Ogni
tanto gli giungevano da lontano gli abbagli delle luci colorate e dei riflessi
argentei e dorati del Natale degli altri, di coloro che la sorte aveva trattato
in modo diverso, chissà perché.
Ma
Hervé non aveva astio né contro gli uomini né contro il suo iniquo destino.
L’irreversibilità del suo stato gli aveva sempre assicurato una sorta di
rassegnazione che gli permetteva di vivere in simbiosi anche con gli elementi
più ostili della natura: con il vento freddo, con la neve e con il gelo, con i
dolori alle ossa, i brividi, i tremori ed ogni altro disagio fisico e mentale
con cui conviveva da sempre.
Quella,
però, era una notte speciale.
La luce vaga della nebbioso mattino avviluppò
in un ultimo abbraccio il corpo esanime del clochard,
intriso degli umori e degli effluvi della rugiada, avvolto nel lurido pastrano
grigiastro, sulla panchina gocciolante, mentre l’umanità malvagia, che mai ne
conobbe l’indole candida e schietta, impattava la realtà del giorno nascente e
la mistica atmosfera del Natale, davanti all’evolversi dell’attività
quotidiana, come sempre, non diversamente da sempre, senza occuparsi di lui.
Se
ne occupavano invece, non volentieri in quel giorno particolare, gli addetti
del parco, infastiditi da quel cerimoniale fuori programma che alterava il metodico
procedere della routine abituale e che li costringeva, loro malgrado, al rito
inviso ed
ineludibile
dello sgombro di quel corpo inerte. Tutto avveniva con distacco ed indifferenza.
Sempre,
gli altri, erano stati indifferenti a quel peintre
de la Sèine, per loro uno dei tanti.
Nel
tascapane di pezza che Hervé portava sempre a tracolla, logoro e consunto, gli
svogliati necrofori, avvolti dalla nebbia uggiosa di quel giorno esiziale,
rinvennero forse un’ampolla con le sue lacrime versate guardando un pettirosso
morire, o un uomo piangere di solitudine infinita. Uno di loro raccolse da
terra la ciotola di latta del cane Rouge, nutrito con l’affetto, e solo con
l’affetto, e poi trasse da quella misera sacca i colori che il mendico suggeva
dai suoi paradisi mentali e che mescolava sulla tavolozza per aleggiare sulle isole incantate di una
sfavillante fantasia. Suo unico, reale, immacolato possesso.
Era
l’alba di quell’ultimo Natale.
Oggi,
dopo tanti anni, a la Bouille, cammino ancora su una delle sponde della Senna e
respiro l’aria gelida di una fredda serata invernale.
Mi
incammino ancora, come tanto tempo fa, lungo quell’umido viottolo che
fiancheggia il fiume.
Non
c’è più il cespuglio di leccio.
C’è
ancora qualche vecchio clochard.
Un
cane, accanto al suo padrone, col pelo arruffato guaisce davanti ad una ciotola
apparentemente vuota, ma ricolma di affetto.
Nel
brumoso crepuscolo decembrino un rozzo pittore, incurante del freddo, avvolto
nel suo vecchio pastrano e nel diafano velo della nebbia, vestito di stracci,
dipinge paesaggi su una tela, stringendo
goffamente il pennello tra le dita della mano ruvida e callosa.
Come
quella di Hervé.
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