martedì 12 ottobre 2010

1557: IL SACCO DI GIULIA

       Fu celebrata a Teramo, per la prima volta, nel marzo dell’anno 1559 una festa cittadina che aveva lo scopo di ricordare in modo solenne la fine delle uccisioni violente che seguivano agli scontri  tra fazioni e quartieri della città.
La “Festa della Pace” istituita quel giorno sarebbe stata ripetuta in seguito, ogni domenica, per ancora due secoli.
Fautori e creatori della cerimonia, su invito del Viceré, furono il Governatore della Città, Cristobal Santo Stefano e il Governatore della Provincia, Ferdinando Figueron, presenti il popolo tutto e alte autorità, tra le quali il Vescovo Giacomo Silverio Piccolomini.
In occasione della ricorrenza due uomini e due donne, eletti dall’Università e denominati rispettivamente “Pacieri” e “Paciere” si adoperavano visitando personalmente le abitazioni delle famiglie in discordia tra loro, per cercare di riappacificarle prospettando possibili soluzioni ai motivi della lite che era insorta.

Questo bisogno di intervenire, oltre che legato a motivazioni di carattere etico, era anche determinato da esigenze connesse alla vita di tutti i giorni, spesso funestata da omicidi che avvenivano per strada, talora per futili motivi, e comunque sempre per cause di contrasti insorti tra famiglie della città entrate in conflitto per qualche ragione.
Col passare del tempo s’era sentita la necessità di intervenire, magnificando e benedicendo il giorno in cui finalmente era stato posto il termine ai lutti e alle uccisioni che angustiavano la città.
D’altro canto solo qualche anno prima era ripresa, in tutto il territorio italiano, la lunga guerra tra Francesi e Spagnoli, i primi sostenuti da papa Paolo IV Carafa, i secondi dal Viceré Don Ferdinando Alvarez di Toledo che presiedeva, nel periodo, il Ducato di Alba.
Era, insomma, un periodo di grandi contrasti e di guerre fratricide da cui molti paesi del teramano finivano per essere direttamente o indirettamente interessati.

S. Egidio, Torano, S. Omero e Controguerra subirono il sacco da parte di truppe pontificie guidate da Antonio Carafa, nipote del Pontefice.
Solo qualche tempo dopo, nelle campagne dell’agro giuliese, la Vergine appariva a Bertolino, quasi a testimoniare il bisogno di pace che era nell’animo di molti.
Era il mese di aprile del 1557.
Nello stesso anno, però, altri lutti si sarebbero abbattuti sulla città, dopo l’occupazione di Teramo da parte delle milizie francesi.
Il procedere della guerra tra questi ultimi e gli Spagnoli generava repentini cambi di scenario: a Giulianova era ancora viva l’impressione che l’apparizione della Vergine a Bertolino, quando alla periferia del paese si scatenò il putiferio.
Truppe francesi e spagnole si scontrarono con violenza.
Alla guida delle prime era il capitano Sipiero, gli Spagnoli seguivano con impeto e manie devastatrici che il toro comandante Garzya di Toledo cercava invano di smorzare.
A nulla valse l’intermediazione dell’ufficiale che tentò più volte di dissuadere i suoi uomini: in preda a raptus distruttivo questi ultimi entrarono in massa entro le mura cittadine e iniziarono la loro opera devastatrice attaccando all’impazzata e saccheggiando ogni luogo.
Era il maggio del 1557, meno di un mese prima Bertolino aveva avuto la sua meravigliosa visione nelle campagne giuliesi.

Ma Giulianova avrebbe subito ancora devastazioni e stavolta proprio nelle zone periferiche, nel periodo della mietitura.
Erano ascolani uniti ad ancaranesi gli uomini che componevano lo scellerato manipolo colpevole di aver seminato sangue tra i contadini intenti alla lavorazione dei campi. Il paese di Ancarano era stato saccheggiato solo qualche mese prima e tredici suoi abitanti erano stati impiccati in pubblica piazza.
I superstiti di quell’eccidio s’erano poi uniti agli ascolani e avevano invaso l’agro giuliese.
Quel che si racconta a proposito del saccheggio è a dir poco sconcertante: piombati improvvisamente addosso ai contadini che stavano mietendo gli assalitori uccidevano senza scrupoli, e senza pietà alcuna, chiunque fosse capitato loro a tiro.
Ad alcuni che prendevano prigionieri tagliavano con un fendente le mani, deridendoli nel compiere il gesto che non avrebbe più permesso loro di “triturare i grani nelle campagne”.
Portavano via i cavalli, e rubavano di tutto all’interno dei casolari, cibo e attrezzi, e quello che non riuscivano a portare via davano alle fiamme.

Dopo l’orrendo massacro sulla terra giacevano accanto ai covoni di grano arti mutilati e cadaveri di innocenti in un macabro scenario di polvere e di sangue.
Si comprende bene come la “Festa della Pace” celebrata a Teramo qualche anno dopo, potesse assumere i connotati di una vera e propria cerimonia liberatrice e propiziatoria di tempi migliori, non funestati da guerre fratricide o da contrasti tra popoli e famiglie.

Atti di disumana violenza che si ritrovano in alcuni episodi di cronaca recente, nell’intolleranza di gruppi e di facinorosi, nella barbara incoscienza di menti allucinate che concepiscono ancora oggi idee e progetti bellicosi.


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