domenica 10 ottobre 2010

22 aprile 1993

L’ALTRA FESTA
(pubblicato sull’Annuario “Madonna dello Splendore”  n. 12 del 22 aprile 1993
 
Sembrano due piccoli monelli, a Napoli direbbero “scugnizzi”.

S’aggirano con atteggiamento facinoroso tra la folla, ma non hanno in animo di combinare marachelle, né di far del male. Sono soli.
Me ne accorgo quando colgo sotto l’apparente serenità dei loro volti, un’ombra di malinconia, o forse un’angoscia latente che getta un velo di amarezza su ogni loro gesto, sulla presunta gioia che dovrebbero trarre da un gioco, da un innocente divertimento.
S’accostano agli stands, ai capannoni, ma restano sempre indietro, un passo più indietro degli altri.
Quasi come se di quella bella torta fossero riservate a loro solo le briciole, per voler del destino, della sorte inappellabile che li ha voluti, in certo senso, emarginati.

Ho visto in che modo guardano gli altri. Non c’è invidia in quegli sguardi che osservano attenti le cure di un padre al suo piccolo, l’attenzione che pone nel sistemano sul seggiolino della giostra volante, le cure nel tirargli su il bavero, ché se pure è primavera, c’è ancora aria di febbraio.
Non guardano con invidia. Cercano forse un’attenuante alla loro solitudine nell’imperscrutabile succedersi degli eventi, nell’ormai inalterabile stato delle cose, e lo accettano dignitosamente, senza subirlo.
Non colgono la veste esteriore della Festa, ne evidenziano l’intima essenza di fraternità e di pace.
Il povero vecchio, curvo e canuto, vestito di poche misere cose, s’aggira tra la folla all’imbrunire.
Attende il concerto della Banda in piazza Belvedere.

Il suo incedere è lento, quasi ritmato, tipico di chi procede senza meta.
Lo sguardo vaga incerto, poi si sofferma a fissare un palloncino colorato che si perde nel cielo.
Ma la mente è certo altrove. Insegue immagini d’altri tempi e di altre età, volti giovanili che la memoria riporta immacolati, non deturpati dai graffi del tempo e dal trascorrere degli anni.
A quel carosello di ricordi il vecchio s’abbandona, estraniandosi dal frenetico formicolio della folla, e saluta antichi amori, poggiando il bastone senza apparente logicità, ora da una parte ora dall’altra, e tira calci con rabbia a un barattolo di Coca che rotola giù tra i piedi dei passanti e che finisce poi chissà dove. “Chissà dove è finita ma non ricorda il nome, sa solo che vestiva di rosso e che insieme ballavano in piazza, alla festa d’aprile, quando suonavano le fisarmoniche.

E’ tutto diverso. Di immutato c’è solo il senso mistico della Festa, la sua sacralità.
Cammina spedito, come se vedesse. Lo guida un pastore tédesco.
Gli occhiali scuri del padrone, la croce rossa sul dorso del cane non lasciano dubbi.
Non vede.
Seguo questa nuova immagine ed abbandono il vecchio di prima. Non vede, ma sorride, come se luci, colori, musiche della Festa gli appartenessero e come se potesse coglierne appieno ogni sfumatura visiva.
La folla lo guarda, lo addita. Da quel volto traspare solo serenità. Non un velo di mestizia, nessun rancore.
Avverte la magica atmosfera del momento dal profumo che riempie l’aria, dal vociare continuo e indistinto nel quale individua il pianto di un bimbo, riconosce le risa di un gruppo di amici, una voce nota.
Sosta davanti ad uno stand e ascolta.
Costruisce nella mente un’immagine, un volto, una situazione. Poi lo vedo immobile davanti alla Banda che suona.
Il cane s’accuccia, il cieco segue le note dei meandri ultratemporali della sua mente, finalmente affrancato dalla fisicità delle cose.
Ora spazia libero, senza costrizioni.
Il tramonto avvolge nelle spire dei suoi colori ogni angolo della città. La Festa continua. Acquista, anzi, a quest’ora un aspetto più sacrale e suggestivo. Forse per via delle luminarie che conferiscono ad ogni via un senso mistico, quasi irreale.
Piccole, grandi storie vivono ai margini della Festa.
E’ grande il dramma di un bimbo che perde tra la folla il suo peluche.
Il senso della religiosità non si coglie nei particolari legati al succedersi dei piccoli eventi.
E’ nell’aria. Forse nell’animo di ciascuno. E’ nel volto malinconico e triste di due bambini soli, nei nostalgici rimpianti di un povero vecchio canuto, nella impenetrabile solitudine di un cieco che ascolta con incantevole serenità una musica lenta che si perde nell’aria quando scendono, sulla Festa, le ombre della sera.

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