martedì 12 ottobre 2010

PERSONAGGI DI ALTRI TEMPI

LA MENTE ECLETTICA DI GUSTAVO SILVINO
 
 
Mentre guardo le sue ditta saltellare, come agili ed esuberanti puledri, sui tasti del piccolo “ddu botte” e mentre ascolto rapito il coinvolgente ritmo di quelle note che si susseguono in un frenetico gioco di accordi e di assonanze, incrocio per un attimo lo sguardo magnetico di quest’uomo così particolare, direi a prima vista schivo, quasi distaccato. Il continuo e ripetuto cadenzare del piede sinistro sul pavimento e il movimento rotatorio del corpo che accompagna la musica, come per esserne parte integrante, tradiscono la sua intima fuga dalla realtà, quantunque temporanea, e il completo compiacimento all’estasi di quei suoni variopinti. Una specie di abbandono mistico. Così ho conosciuto Gustavo, ottantaquattro anni compiuti il 4 febbraio scorso mentre, la notte dell’ultimo capodanno, intratteneva noi astanti con il suo piccolo ma prezioso organetto (ne possiede quindici) rievocando canzoni popolari e tradizionali.

Mi colpì la sua straordinaria vitalità. L’energia positiva che emanava dalla sua persona si diffondeva nell’aria in maniera insolitamente contagiosa. Ebbi la sensazione, poi suffragata da successivi approfondimenti, che fosse un uomo eccezionale, capace di fare tante altre cose, che non fosse, insomma, solo un bravo musicista. Dovevo indagare.
Trascorso capodanno, una domenica di gennaio 2006, Gustavo Silvino mi accoglie, in compagnia di un amico comune, nel suo laboratorio poco fuori Teramo. E’ un luogo strano, ove si respira aria di altri tempi. Il locale è ampio, ma c’è poco spazio tra l’infinità di oggetti, macchine, aggeggi, arnesi, attrezzi di ogni genere e misura, scatole, lampade situate in posizioni strategiche perché illuminino in modo opportuno un tavolo di lavoro non grande, situato al centro. “Questo è il mio trono” esordisce Gustavo invitandomi a sedere al suo posto, per la durata dell’incontro, mentre lui si muove con estrema agilità nel ridottissimo spazio che resta. Poi apre un vecchio armadio di legno e mi mostra i suoi quindici organetti, ognuno diverso dall’altro, custoditi con religiosa cura all’interno, e mi spiega che ciascuno di essi è utilizzato a seconda della circostanza che viene a crearsi. C’è quello più sofisticato, per le serate importanti, quello andante per impartire lezioni, quello da collegare all’impianto stereo che lui ha arricchito creando un gioco di luci con dei fari di una vecchia auto riesumati per l’occasione, e così via. Mentre mi mostra alcune sue ingegnose creazioni (l’elegante scultura in legno di un carabiniere in divisa anni cinquanta, tre “picchi”, uccelletti di legno che salgono e scendono alternativamente beccando su un asse verticale di metallo — oggetto non utilissimo, ma bellissimo, frutto di pura fantasia — un gioco di prestigio con le carte che si avvale di una ingegnosa intelaiatura di ferro da lui inventata e costruita), con dovizia di particolari e con una punta di mesto rimpianto che traspare dagli occhi improvvisamente lucidi, inizia a raccontarmi della sua infanzia.

 Mi parla della scuola elementare di Putignano, del maestro Michelino Fioravanti, mai dimenticato, del disegno del motociclista con gli occhiali e con la pipa che gli valse un 9 agli esami di ammissione, del saluto romano che fece uscendo dall’aula, del primo premio che vinse alla gara federale, come fossero eventi di qualche mese fa, tanto sono vivi ancora nella sua mente e fissi nella memoria. Mentre parla, in perfetto italiano, con eleganza discorsiva e senza inflessioni dialettali, si schernisce ogni tanto perché ritiene eccessivo e non giustificato il mio interesse nei suoi confronti ed esagerato il mio proposito di pubblicare un servizio sul suo multiforme ingegno. Convinto del contrario capisco che c’è dell’altro, che la storia di Gustavo riserva continue sorprese e che scoprirò tante cose. Passano pochi minuti e intanto viene fuori che la sua straordinaria capacità di modellare, creare, modificare, inventare, riparare trae antica e primitiva origine dalla costante frequentazione dell’officina del padre fabbro, conduttore di macchine a vapore, e che pure il fratello, che in Venezuela costruiva canne di fucile, aveva acquisito analoga, ma non superiore, manualità. Ogni cosa incuriosiva il piccolo Gustavo, destando i vivaci folletti della sua fantasia.

 Riportava sulla carta, ignorando ancora le regole calligrafiche, le scritte che vedeva sulle insegne delle botteghe, e creava lettere tanto eleganti ed armoniose che il professore Daniele Saverio, calligrafo, non tardò a scoprire e ad evidenziare le sue straordinarie potenzialità. Ancora oggi, in occasione di importanti appuntamenti che prevedono la compilazione ed il rilascio di pergamene ad autorità o personalità in visita alla città, a Teramo, si ricorre alla preziosa opera di Gustavo per la stesura dei testi, in virtù delle sue ormai celebri capacità artistiche nell’arte grafica. Doti rimaste intatte nel tempo, come mi dimostra prendendo tra le dita due matite della stessa lunghezza e vergando su un foglio occasionale il mio nome ed il mio cognome che sembrano così usciti dalla rotativa di una macchina stampatrice. I caratteri sono elaborati, di dimensioni identiche, presentano eleganti ghirigori, sono perfettamente allineati alla base del foglio, sembrano dipinti lentamente ed accuratamente con un paziente e lungo lavoro certosino, tipico dei miniaturisti medioevali, e invece tutto è frutto di un rapidissimo tocco di mano, in piedi, con il foglio nella mano sinistra appoggiato ad una panca e le matite nella mano destra. Davvero strabiliante, penso, infilando il souvenir nella tasca della giacca a futuro ricordo. Così, tra le righe, mi dice che a scuola disegnava il volto del duce con soli quattro tratti di penna e che i compagni di classe provavano invidia nei suoi confronti. “Si è vero, in disegno ed in calligrafia non avevo rivali ma compenso - precisa quasi a scusarsi - in chimica non andavo bene!”

Mentre mi mostra le modifiche che ha apportato ad un’apparecchiatura agricola che serve per separare le olive dalle foglie e dei rami, e mentre mi spiega che spesso i motori utilizzati per la costruzione di attrezzi simili li recupera da vecchie lavatrici o da macchine dello stesso tipo, vola col ricordo al periodo in cui frequentava a Firenze la scuola d’arte “Porta Romana”. Aveva quindici anni ed eccelleva negli studi.
Dopo la caduta del fascismo il giovane Gustavo era disoccupato. Ma con una punta di malcelato orgoglio mi racconta di quando e come riuscì a trovare un’occupazione definitiva, che avrebbe svolto dal 1 aprile 1944 al 10 settembre 1984, assentandosi dal lavoro solo tre giorni in quaranta anni, per un abbassamento di voce.

Fu il Preside dell’Istituto Tecnico Comi, Giuseppe Zozza, che volle rendere tributo a questo giovane che, con la sua attività artistica, aveva dato lustro alla scuola negli anni precedenti. Lo convocò con una lettera, gli fece dattiloscrivere, a mo’ di esame, un foglio di nomina che altro non era se non la sua stessa assunzione ufficiale all’incarico di segretario, in sostituzione di tale Antonio Candelori, richiamato alla armi. Fu la svolta della sua vita. Quel lavoro Gustavo avrebbe svolto con estrema serietà e competenza per quattro decenni.

Comprendo che quest’uomo poliedrico potrebbe raccontarmi migliaia di episodi e affascinarmi sempre più con le sue doti di narratore e di affabulatore. Faccio fatica a ricondurlo allo scopo della mia intervista che è quello di aprire uno spaccato sulla sua molteplice attività di artista, artigiano, musicista, poeta, grafologo, disegnatore, pittore, scultore, inventore, abile riparatore. Mi cita ancora tale professoressa Lupi di Campli, che lo ebbe allievo al Liceo Musicale “Braga” di Teramo e un professor Di Sabatino che era insegnante di tromba. Nella sua mente riemergono immagini del passato che la sua fervida memoria rimodella in piccoli quadretti. Mi guardo ancora intorno nel composto ed irreale disordine del laboratorio ove ogni cosa, per quanto appaia posizionata a caso, non potrebbe trovarsi in luogo che le sia più adatto. E in quel disciplinato marasma Gustavo si muove con elegante agilità, con la delicatezza di un ragno sulla tela, trovando facili passaggi in spazi strettissimi. Mentre sfiora con la spalla un fragilissimo contenitore di vetro, senza urtarlo minimamente, mi porge tra le mani un mirabile monocolo completo di treppiede, opera sua, in legno e metallo, e poi mi indica con il dito un quadro appeso al muro che avevo scambiato per una foto. E’ un suo disegno a matita di un vecchio cane scomparso in passato, cui lo legava incommensurabile affetto. Ogni piccolo aggeggio, in quel locale, ha una sua storia, una vita che lo lega indissolubilmente al suo artefice.

Uomo schivo, mente eclettica, personaggio d’altri tempi, Gustavo vive nel suo microcosmo senza eludere gli altri, tuttavia con un’autonomia che lo rende completamente libero ed affrancato, come ogni artista, da costrizioni o scelte obbligate. Percorre la sua strada, che iniziò a tracciare a mani nude quando suonava la fisarmonica traendone due lire e mezza di compenso, con coerenza e modestia, consapevole delle proprie qualità, ma sempre pronto a metterle al servizio degli altri.
Con un po’ di mestizia esco dal laboratorio, ma mille altre cose avrei voluto vedere, mille altre domande gli avrei voluto rivolgere. Mi accompagna sull’uscio e mi invita a tornare. So che ho potuto conoscere solo una piccola parte del suo mondo così particolare ed insolito del quale mi ha mostrato, a tratti, alcune peculiarità. Ma mi resta dentro la consapevolezza di aver conosciuto un uomo diverso, capace di spaziare con la mente e con la fantasia in diversi campi dell’arte in piena autonomia intellettuale, una sorta di Michelangelo dei nostri tempi, artigiano di antica e rara manualità, difficile da incontrare nella fredda e raziocinante società moderna, culla della mostruosa tecnologia imperante.
 

Gustavo, purtroppo oggi scomparso, non volle, all’epoca,  per suo espresso desiderio, rileggere questo articolo prima della pubblicazione, fidandosi completamente di ciò che avrei scritto. Mi auguro di avere in qualche modo rappresentato i caratteri essenziali della sua versatile e polimorfa figura, rendendo fruibile, almeno in parte, al lettore, il senso di grande meraviglia e stupefazione che l’incontro suscitò nel mio animo.

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