giovedì 7 ottobre 2010

AFRICA

Demis Di Diodoro, ingegnere di 28 anni, nato a Giulianova, vive e lavora a Faenza. Lo scorso mese di agosto è stato in Tanzania come volontario dell’AMI. Questa la testimonianza della sua esperienza:

Numba Yetu


Africa, Tanzania, Numba Yetu, che vuol dire Casa Nostra. E’ proprio questa la sensazione che dopo pochi giorni si prova, quella di sentirsi a casa. E’ assolutamente sconvolgente. Si arriva in Africa con il timore di immergersi in una realtà nuova, straniera troppo lontana difficile da afferrare, e dopo poche ore da quando si atterra ci si accorge che il cuore si sente vicino come mai a tutto quello che l’occhio cattura attorno a sé.
Arriviamo a Dar Es Saalam, attraversiamo la città per dirigerci verso la missione Numba Yetu nel villaggio di Ismani, a 8 ore di jeep.  Povertà fatta di volti e colori nuovi, venditori ambulanti che sulla strada tentano la fortuna allungando la loro merce attraverso i finestrini di auto e pulmini spesso carichi di missionari o curiosi. Canna da zucchero, pomodori, patate, merce povera proposta come oro, e subito ci si accorge che in quel posto lo è a tutti gli effetti.  Città di case fatiscenti, negozi improbabili, prostitute, commercio ambulante e sguardi, sguardi nuovi, di occhi che cercano, reclamano, raccontano una realtà che non ci appartiene, esigenze che non comprendiamo. Dopo qualche giorno trascorso in Africa diventa chiaro, le esigenze sono mangiare, bere dormire. La gente vive la giornata cercando di soddisfarle ed è fortunato chi ci riesce. Dopo le 8 ore di jeep, la maggior parte delle quali percorse su quella che viene chiamata la “grattugia africana” di polvere e buche, arriviamo di notte nel villaggio di Ismani.
La prima cosa che colpisce è il buio pesto, come mai visto prima, dal quale arrivano i riflessi di fiaccole che illuminano le tante capanne di fango disperse in modo del tutto casuale. Dopo il primo giorno trascorso nel villaggio è evidente che la povertà vista in città era una forma di ricchezza : lì molti hanno qualcosa da commerciare, del bestiame, un’opportunità. Nel villaggio subito tanti bambini che appena ti vedono ti corrono incontro a braccia aperte, con abiti luridi, strappati, scalzi, piedi rotti dalla terra, sporchi, e l’immancabile candela al naso. Come ci è stato detto ci inginocchiamo quando ci avviciniamo a loro perché il loro saluto è quello di metterci le manine sulla testa e dire ‘Shikamoo’, noi rispondiamo ‘marhaba’. Il cuore si stringe. E’ un gesto che racconta la loro umiltà nei nostri confronti, la percepiamo in tanti altri episodi da parte di questo popolo ed è fuori luogo, imbarazzante e dolorosa.

In Numba Yetu ci sono circa 40 bambini dai 2 ai 10 anni, la maggior parte dei quali malati di HIV e orfani, facciamo la loro conoscenza e quello che travolge è il loro desiderio di affetto, ti saltano in braccio e non vogliono più scendere, ti prendono per mano e non la mollano, ti guardano fisso negli occhi e raccontano di loro, con ingenua curiosità bambina si chiedono di noi e colgono la nostra commozione. Impariamo a giocare con loro, ci divertiamo, ridiamo con loro come matti per un palloncino che scoppia mentre si gonfia, per un aeroplanino di carta che non vola, per un aquilone che viene rotto dal forte vento africano e in breve tempo non possiamo fare a meno di prenderceli in braccio tutti insieme, delle volte anche 4, 5 alla volta.

La mattina sveglia presto per lavorare duro, scartavetrare pali per poi dare l’antiruggine, svuotare e riempire container di scarpe e vestiti, turni in cucina, sempre la voglia di fare, canti e risate, la polvere e la ruggine nel naso, l’odore di muffa, le scarpe dei bambini da sistemare, mai la voglia di guardare il telefono e il computer. La serenità di assaporare un’esperienza unica attimo per attimo ci lega in mondo indissolubile, tra molti di noi si crea presto un rapporto fuori dalla abituale realtà, emozionante.
 
Un giorno ci uniamo a due ragazzi di Roma che passano per Ismani. Uno di loro, Gianluca, è clown terapeuta, andiamo con loro in giro per il villaggio per far giocare i bimbi.
Loro ci vedono da lontano, escono dalle capanne e ci corrono incontro gridando ‘pipi, pipi’ per chiedere una caramella. Poi li facciamo mettere in cerchio e Gianluca li riempie di giochi con palline e palloncini facendoli impazzire dalle risate. I loro volti, alcuni segnati da qualche malattia, sono riempiti da un sorriso che racconta un pezzetto di infinito.Esperienza unica quando assieme a Sheela, missionaria indiana dell’AMI con carisma più unico che raro, siamo andati ad un matrimonio di una donna di un villaggio vicino Ismani. In Africa l’ospite è trattato con estrema ospitalità, ma un ospite bianco è un onore, un motivo di vanto, perché egli rappresenta benessere, potenza, istruzione, cultura, denaro. Così dopo la messa di circa 3 ore tra suggestivi canti,  tamburi e danze, ci troviamo seduti nel gazebo assieme agli sposi ed ai parenti stretti. Tutti gli altri ospiti in piedi di fronte a noi. Siamo serviti per primi con aranciate e coca cola e siamo i primi ad accedere al banchetto nuziale, di riso fagioli e carne, tutto da mangiare con le mani. Ci sentiamo a disagio perché siamo i primi a mangiare e forse non ce ne sarà per tutti, ma non possiamo disonorare la loro ospitalità porgendo il nostro cibo ai bimbi che ci guardano. Mi permetto di dire alla sposa che è tutto molto buono ma subito Sheela mi fa notare che l’apprezzamento risulta per loro  offensivo, in quanto tutto ciò che viene offerto agli ospiti è per certo il meglio che c’è, ed è sicuro buono non c’è bisogno di rimarcarlo. Capisco che ci sono delle differenze di mentalità anche difficilmente intuibili quindi mi trattengo dal fare ulteriori commenti.

Una mattina Sheela ci permette di accompagnarla in uno dei suoi giri nei villaggi limitrofi, andiamo a trovare una signora in una capanna per prendere il certificato di morte della figlia. La donna sembra anziana ma la sua età è indefinibile, ci accoglie subito nella sua capanna e ci fa accomodare su sgabelli di legno. Uno spazio minuscolo, qualche utensile per la cucina e per rammendare appoggiato a terra, una tenda separa la stanza da letto composta da una brandina appoggiata a terra e niente più. Mi colpisce l’assenza di un calendario, di un orologio, di una qualche indicazione temporale. Imparo dopo che tutti vivono senza sapere che giorno è, che anno è, e molti, tra cui la donna nella capanna, non si preoccupano nemmeno di tenere a mente quanti anni hanno.
Il concetto del tempo, lontano anni luce dal nostro, mi sconvolge totalmente. Noi siamo schiavi del tempo, lo contiamo, siamo inseguiti dal tempo, ne siamo succubi e ne abbiamo grande paura. In Africa nessuno lo conta, e come scrive il giornalista Ryszard nel suo romanzo Ebano, il tempo non esiste se non quando un’azione avviene, si concretizza nel momento in cui l’azione prende luogo. Non ha senso chiedere quando parte l’autobus, parte quando è pieno.

Nel confronto che facciamo con i ragazzi dai 14 ai 18 anni della scuola secondaria di Ismani le loro domande ci colgono impreparati, ci chiedono del mondo in cui viviamo di quello che abbiamo in Europa, del perché da loro l’HIV è diffuso al 60% nei villaggi, del come possono fare per uscirne, per diventare anche loro ingegneri o fisici. Come fare a dire loro che da noi la maggior parte della gente con uno stipendio fisso e un tenore di vita più che ragguardevole, vive cercando di accumulare sempre più soldi e averi, e cercando carriera e potere? Che se non ha la macchina nuova non è nessuno, che argomenti di discussione sono se regalare al figlio l’Ipod o la psp? Come fare? Con le loro domande alla fine mi portano a dire tutto questo, ma il mio modo di raccontarlo e le conclusioni a cui arrivo li fanno sorridere, perché percepiscono la cosa come assurda.
La conclusione  che raccontavo loro è che molta gente arriva a 60, 70 anni stanca, senza aver apprezzato la vita davvero, avendo calpestato i rapporti con la falsità, avendo schivato le domande del cuore, schiava del tempo: arriva a volte ad ottenere quello che voleva ma è infelice e sola.  Cerco di convincerli di quanto in molte cose loro siano mille volte più ricchi di molti di noi. In Africa ciò che conta di più è l’unione, il gruppo, la famiglia, chi è solo è un dannato..come potrebbero apprezzare la nostra società individualista? Ma la domanda da farsi forse è : dovrebbero?

Già soltanto dopo circa un mese, ripartire dall’Africa, da Numba Yetu è stata dura. Le emozioni sono state molte e tutte si sono stampate dentro. I volti della gente, gli sguardi dei bambini, i tramonti e le stellate, i vestiti logori e sporchi, l’odore penetrante della povertà e della semplicità, ma sono forse anche le assenze che hanno colpito molto, quelle di falsità, di arrivismo e individualismo.

Il rientro in Italia è anche la bellezza di portarsi nel cuore un pezzetto di Africa, una volta colpiti da un posto è dura far finta che non sia avvenuto e forse è dura non pensare di tornarci.
 

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