lunedì 4 ottobre 2010

LA STORIA



LA BATTAGLIA DI OTRANTO E  LE EROICHE GESTA DI GIULIO ANTONIO ACQUAVIVA D’ARAGONA (pubblicato sull’Annuario “Madonna dello Splendore” di  aprile 2010)

Un evento naturale, come un forte vento di tramontana, può diventare l’elemento determinante di un fatto storico,  risultandone la causa scatenante, con esiti a volte catastrofici, quasi a voler seguire una linea fatale scritta nelle pagine della storia e, forse, per sua stessa natura immodificabile. Fu un vento impetuoso di tramontana, la notte del 28 luglio del 1480,  a decidere le sorti di più di diecimila uomini vittime delle atrocità  commesse da una flotta ottomana che si era concentrata a Valona per poi dirigersi verso Brindisi, ma la cui rotta di navigazione fu  forzosamente deviata dalle avverse condizioni atmosferiche all’interno del canale di Otranto, per poi concludersi nei pressi di una  spiaggia a nord della cittadina, allora possesso degli Aragonesi (l’odierna “baia dei turchi”).  L’infausto evento, del tutto occasionale e fatalmente disastroso, provocò l’immediata reazione degli abitanti i quali tentarono una eroica quanto vana reazione, travolti dai colpi di scimitarra e dalla furia devastatrice dei turchi invasori.

 Nella loro marcia di morte gli aggressori operarono ogni sorta di malvagità umana, mutilando orribilmente i corpi dei bambini, violentando ed uccidendo le donne, facendo prigionieri molti otrantini che,  essendosi rifiutati di rinnegare la religione cristiana, furono condannati ad essere deportati in Turchia per  diventare schiavi.  La cittadina di Otranto, per questa fatale casualità, fu cinta di assedio. Opulenta e fiorente quale era, pagava tuttavia il prezzo della sua assoluta impreparazione di fronte ad un eventuale ed improvviso attacco da parte di nemici provenienti dal mare.  Il porto era facile da espugnare, le fortificazioni scarse, il numero degli abitanti decisamente inferiore a quello della flotta turca. Condizioni che favorirono l’operazione dell’esercito ottomano guidato da Gedik Ahmet Pascià, di origine albanese, cui era stata affidato già in precedenza l’incarico di insegnare ai turchi l’arte della navigazione e di formarli fino a crearne dei provetti marinai. Per questa  ragione  il borgo marino fu presto abbandonato dai residenti i quali ritennero più opportuno ritirarsi nel castello situato nell’entroterra, aprendo la via alle razzie e alle scorribande degli invasori. Questi ultimi, avuto sentore della risibile resistenza che avrebbero opposto gli abitanti (non più di quattrocento uomini) si divisero poi in due reparti, uno incaricato dell’uso dei cannoni e l’altro mandato a  compiere massacri sul territorio.
Tutti i soggetti maschi di età superiore a quindici anni furono barbaramente sterminati in questa seconda fase dell’assedio mentre donne e bambini furono fatti prigionieri. Erano trascorse solo due settimane dall’inizio delle ostilità quando il  castello di Otranto cedette infine sotto i colpi dei turchi invasori che lo espugnarono annoverando tra i numeri del loro macabro bottino di guerra l’uccisione di più di diecimila nemici.
Orrenda la sorte di coloro che riuscirono a sopravvivere a quegli orridi scempi. Ahmet ordinò, infatti, che ogni superstite fosse decapitato in pubblico, disponendo la presenza di tutti i parenti alle esecuzioni.
In questo generale quadro di macabra carneficina  la situazione si aggravò ulteriormente poiché nessun aiuto giungeva da parte degli altri Stati italiani,  la cui totale indifferenza consentì ai Turchi di fortificare Otranto e di farne la loro base per ulteriori razzie nei territori vicini  del Salento e del Gargano.

Quando, finalmente, la gravità della situazione cominciò a delinearsi e ad apparire in tutta la sua reale pericolosità,  fu  tratteggiata una linea di intervento e fu organizzata una crociata che però non raccolse proseliti e che rimase, pertanto, nelle sole mani del pontefice Sisto IV e del re di Napoli. Costoro, comunque determinati a non cedere,  si avvalsero, per la fase di pianificazione strategica, unicamente del pur prezioso apporto fornito da Ciro di Castel Durante e Pietro d’Orfeo, il primo inviato dal duca di Urbino ed il secondo proveniente dalla Francia. Nel quadro generale delle operazioni previste per arginare, ma ancor più per scardinare le roccaforti create dai turchi, fu fissato anche un quartiere generale in località Sternatia, al comando di Alfonso d’Aragona.

 In questo delicato incarico il futuro re di Napoli era affiancato dal duca di Atri e conte di Giulianova e Conversano, Giulio Antonio Acquaviva.
Giulio Antonio stava per vivere l’episodio  più importante (e purtroppo anche  quello esiziale) che gli avrebbe conferito imperitura fama tra i posteri. La sua gloriosa morte avrebbe concluso il ciclo di quelle epiche imprese belliche che lo avrebbero condotto a diventare Capitano generale di ottomila cavalieri , luogotenente dell’esercito e persona di fiducia di Don Alfonso d’Aragona, Duca di Calabria e primogenito del re di Napoli Don Fernando.  I suoi successi sui campi di battaglia , la conquista della città di Bari, le operazioni condotte in Toscana, (vicino Firenze fu ferito gravemente ad un piede) e tutti gli eroici episodi annoverati nella sua storia militare ne fanno uno dei condottieri italiani più famosi del tempo. Le  gesta e le imprese di Giulio Antonio Acquaviva diventarono argomento delle “istorie” locali e lo resero famoso ed illustre tra i contemporanei per il ruolo di primaria importanza  che sempre ebbe nella storia del Regno.

Ma cosa accadde davvero quel  fatidico  7 febbraio dell’anno 1481?

Dalla notte dello sbarco dei turchi nel canale di Otranto sono ormai passati sette mesi .
Nel quartier generale di Sternatia, nell’ambito delle operazioni programmate per scardinare l’assedio turco, vengono spesso organizzate perlustrazioni notturne che hanno lo scopo di fornire notizie attendibili riguardo alla dislocazione dei nemici, ai loro movimenti, alle loro azioni, in modo da poterne intercettare per tempo i futuri intenti, sempre al fine di poter delineare opportune strategie di intervento.


Quella notte Giulio Antonio si pone a capo di un manipolo di dodici volontari, per compiere una di quelle sortite per  le quali sono indispensabili coraggio e dedizione, disprezzo della paura, forte
personalità, doti che già hanno trovato in lui ampia conferma in analoghe situazioni vissute in precedenti azioni militari. Al comando del gruppetto dei dodici  Giulio Antonio si incammina per i sentieri malamente illuminati dalla flebile luminosità di una pallida luna, con pochi cavalli,  in direzione di Serrano, per nulla dissuaso dai consigli dell’altro comandante Andrea Capodiferro. Ma quella notte qualcosa non funziona. Come fatale era stato il vento di tramontana che sette mesi prima aveva deviato la rotta della flotta turca verso l’ingresso del canale di Otranto, così quella notte  un tragico destino cade come una mannaia  ad infrangere sogni e speranze del generale Acquaviva.

Una vile imboscata tesa dai turchi, i quali hanno ormai  bene imparato a conoscere alla perfezione ogni più remoto anfratto di quelle vallate, costerà la vita al prode condottiero. Giulio Antonio  viene sorpreso da una schiera di oltre duecento turchi a cavallo  nei pressi di Minervino di Lecce. Il clima è afoso, l’aria quasi bollente. Giulio Antonio combatte senza elmetto e viene colpito al collo da un colpo di scimitarra. Prova a ripiegare  mentre sgorga sangue vivo dalla ferita aperta ma nei pressi della località Giuggianello cade da cavallo, ormai  debolissimo ed in preda  a dolori allucinanti. Tutti gli uomini del suo piccolo drappello sono stati uccisi. Esanime, subisce l’ultima sfregio e gli viene mozzata di netto la testa.
Secondo un’altra versione il suo corpo, decapitato, non viene  disarcionato dal cavallo il quale ripercorre all’incontrario tutta la strada in direzione di  Sternatia  ove  Giulio Antonio giunge infine così orrendamente mutilato.


Per la dedizione ed il coraggio mostrati da Giulio Antonio Acquaviva, il quale oltre che uomo di armi fu anche persona coltissima e dai molteplici interessi artistici e letterari, tutte le generazioni future, da lui discendenti, per privilegio concesso dal re di Napoli, modificarono poi il loro cognome in “Acquaviva d’Aragona”.
Un caso, una circostanza, un avvenimento apparentemente insignificante possono a volte determinare il corso degli eventi storici.
Così un forte vento di tramontana ed una terribile tempesta di mare furono, all’origine,  la causa
scatenante di tutte quelle vicende che posero fine alla gloriosa carriera militare di uno dei più valenti condottieri del tempo, la cui tragica sorte fu condivisa, per volontà del destino, con quella di oltre diecimila abitanti di Otranto.

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