venerdì 29 ottobre 2010

SALONE DEL GUSTO 2010- ATTO SECONDO

ALLO SLOW FOOD 2010

Inizia con un fatale malinteso la “due giorni” di quest’anno al Salone del Gusto di Torino, “Slow Food edizione 2010””. Per gli infaticabili redattori di “Crescere”, inviati speciali, la spedizione prevede una partenza con levataccia, alle ore cinque del mattino. Viaggio in auto, quattro persone, due giornalisti iscritti all’albo, tra i quali il Mega Direttore della rivista, un fotografo sommelier ed un “degustatore ufficiale”, qualifica quest’ultima meritatamente conseguita due anni fa, come si ricorderà, dopo alterne e difficili vicende.
Il quartetto ha appuntamento al casello autostradale di Mosciano S. Angelo. Ma già al momento del primo meeting si capisce che qualcosa non ha funzionato: il degustatore arriva indossando abiti super invernali: scarponi da “Camel Trophy” fino a metà stinco, pantaloni imbottiti, maglione bianco di lana di pecora con collo alla dolce vita, giaccone imbottito con piume d’oca, berretto di lana con paraorecchie e sottogola, guanti imbottiti. Troppo per un week end previsto con condizioni  meteorologiche “stazionarie”.  Gli chiediamo subito la ragione di una scelta così singolare e viene fuori un fatto che sta a metà tra  l’incredibile ed il grottesco: la sera precedente la partenza il degustatore transita per caso davanti al solito bar, dove incontra il solito amico, non al massimo della sobrietà, data l’ora tarda. E’ in corso l’incontro di calcio tra Juventus e Salisburgo. L’amico segnala al degustatore che la temperatura in campo è a -3 gradi. Il degustatore associa  la Juventus alla città di Torino, meta del suo servizio il giorno successivo. Il gioco è fatto. Torino a meno tre, abbigliamento alaskiano. Apprende solo l’indomani, alla partenza, che la Juve ha giocato in Austria, a Salisburgo, e che a Torino la temperatura media avvertita è di 13 gradi sopra lo zero. Ma ormai è troppo tardi. Il sottile malinteso lo costringerà a sopportare una temperatura corporea superiore ai 39 gradi centigradi  per tutta la durata della missione.
In auto, durante il viaggio, per comune utilità, ma soprattutto per rispetto della maggioranza e del Mega Direttore,  il climatizzatore viene impostato tassativamente  a gradi 22.  Alla prima sosta in Autogrill il degustatore scende completamente madido di sudore, ma poiché si va a lavorare e non a divertirsi, deve comunque abbozzare sorrisi a tutti e sopportare.
L’arrivo a Torino, alla ricerca dell’Hotel, è reso problematico dai capricci del navigatore che ripete in continuazione “ricalcolo percorso”, ritardando l’inizio dei lavori  giornalistici. Alla fine si decide di chiedere in giro, per fare prima. Dopo aver interpellato senza esito prima un rumeno e poi un albanese senza permesso di soggiorno, una prorompente prostituta che rientra dalle prestazioni notturne e che, fraintendendo,  con il dito ci fa segno di no, avendo completato il servizio, ed un non vedente in attesa dell’autobus, ci imbattiamo finalmente in un torinese purosangue. In realtà siamo davanti all’albergo da almeno tre quarti d’ora, ma la chioma di un albero di alto fusto rendeva impossibile  l’individuazione dell’insegna luminosa. Finalmente tranquilli disattiviamo il navigatore, scoprendo per caso che per errore era stata impostata come città di destinazione “Torino di Sangro”, forse per via dell’oscurità del mattino. Sistemati i bagagli nelle rispettive camere chiamiamo un taxi per andare a lavorare al glorioso “Lingotto”.
Forse per la stanchezza del viaggio, forse per via di una caratteriale serafica calma, il Mega Direttore si accosta all’auto con passo lento e cadenzato, tanto da suscitare una educata reazione del tassista che bonariamente ci fa notare che , a quei ritmi, in due giorni, potremo visitare al massimo solo un paio di stands dei 910 espositori del Salone.
Arriviamo al Lingotto Fiere alle ore 14,20 con circa due ore di ritardo sull’orario previsto. L’accumulo di stress,  la levataccia, la sobria colazione consumata in Autogrill, hanno accresciuto in ciascuno di noi un senso di languore che il degustatore non esita a definire vera e propria fame.




Per tale ragione, data anche l’ora tarda, aggrediamo il primo gazebo di formaggi spagnoli, precipitandoci sull’”assaggio” che viene venduto a Euro 2,50: si tratta di una minuscola fettina di formaggio di pecora nera che viene da tutti giudicato “ottimo”. Detto, fatto. I nostri zaini si riempiono di  quella prima leccornia, costi quel che costi. Segue una seconda degustazione, poi una terza. La fame impone anche  un’immediata sosta allo stand successivo ove ci viene servita una ridottissima porzione di riso allo zafferano con gamberi che consumiamo scomodamente in piedi, curvi  davanti ad un tavolo basso, tondo,  di 60 cm di diametro. Assumiamo una birra per ciascuno, anch’esse spagnole. Volati i primi 50 euro a testa proseguiamo la visita, scoprendo che quei gradevoli assaggini hanno notevolmente aumentato in ognuno di noi il senso di fame. Nello stand spagnolo ci tratteniamo ancora, anche perché il degustatore, padrone della lingua,  conversa animatamente in spagnolo con una graziosa senorita, la quale, in verità, parla e risponde in italiano fluente. 
Fronteggiati a malapena i morsi della fame, siamo comunque ormai pronti a  raccogliere appunti per il servizio giornalistico, vero scopo della nostra missione. Decidiamo così di iniziare a scattare qualche foto, per il doveroso corredo agli articoli che andremo a scrivere. Il fotografo ufficiale, uomo di grande stile e riconosciuto sommelier,  propone una prima foto a quattro, per informare i futuri lettori anche in merito alla composizione fisica del quartetto di inviati speciali. Chiede ad un passante, dal viso rubicondo e paonazzo,  che indossa un largo berretto a sombrero, di scattarci una foto. L’avventore, però, personaggio strano, dallo sguardo vitreo e perso, dal quale è lecito presumere che possa aver superato di diverse tacche il limite della sobrietà, barcollando, comprende tutt’altra cosa e si pone tra noi, abbracciandoci ed iniziando a cantare sguaiatamente,  per essere fotografato nel gruppo. Pazienza, una foto forse simpatica, ma inutile per il giornale.

Forse per via della crisi, forse per contenere i costi gravosi, a differenza degli anni precedenti questa volta gli assaggi si pagano. Non ne è a conoscenza il degustatore ufficiale che, memore delle passate esperienze, sempre sudatissimo, accede tranquillamente agli stands assaggiando qua e là, senza curarsi dei cartellini che indicano i prezzi . Lo fa senza malafede, ma con tale disinvoltura che i vari espositori non riescono ad ostacolarlo, tanto irretiti da quella baldanzosa impassibilità da temere una sua reazione incontrollata. Al cronista, al fotografo ed al Mega Direttore, davanti alla scena, non resta che fingere di non conoscerlo, evitando anche di rispondere alle sue domande  e voltando il viso dall’altra parte. Vedendosi rinnegato il degustatore intuisce che qualcosa non va  e si allontana velocemente in direzione della toilette, entro la quale rimane rinchiuso, in preda ad una crisi di pudore, per i venti minuti successivi.
Ci rincontriamo dopo circa mezz’ora tutti e quattro in uno stand molto caratteristico, presso il quale vengono serviti (a pagamento)  gustosi tranci di tonno bianco del Mar Cantabrico, rarissimo. Estasiato non poco dal piacere  generato dalla sapidità del prodotto il degustatore, forte della sua non comune esperienza, sostiene che si può tranquillamente mangiare anche il piccolo contenitore: una barchetta di plastica dura che a lui sembra di ostia bianca. Proviamo ad informarlo del contrario, ma si sa, in questi casi la parola di un degustatore diplomato vale più di quella di ogni altra persona. Dopo una lunga ed infruttuosa masticazione finalmente si convince e getta via imprecando la sua barchetta masticata che va ad aggiungersi ad altre migliaia di barchette, integre, in un cestino non lontano, all’uopo predisposto.
Arriviamo al momento clou del servizio: il laboratorio del gusto. Questa volta l’amico e collega fotografo, addetto alla prenotazione, ha  optato per una degustazione di vini francesi di altissima qualità.  Una scelta coraggiosa ed impegnativa. Appena seduti, indossate le cuffie per la simultanea, ci avvertono che si tratterà di una prova estremamente sofisticata, articolata su sottilissime distinzioni di sapore tra sette vini rossi barricati in legni diversi. La differenza sarà unicamente nel tipo di legname utilizzato per la barrique. Viene ribadito che il laboratorio è indirizzato solo a palati sensibilissimi. Stillano meticolosamente, con religiosa cura, il prezioso nettare nei sette calici posti davanti a ciascuno di noi ma, vuoi per la fatica accumulata, vuoi per la sete generata dalla continua e costante sudorazione, il degustatore ritiene opportuno procedere alla completa e totale bevuta dei sette vins de Bourgogne in un'unica ed esaustiva assunzione. Per non subire i ritorni deleteri dell’alcool, inoltre, consuma avidamente anche i bocconcini di pane sistemati nel cestino davanti a noi ed in quello del tavolo adiacente. Sicchè, dopo circa venticinque minuti, quando viene autorizzato l’assaggio ufficiale del primo calice, il degustatore appare annoiato e poco incline all’ascolto e  appoggiando il mento sulla mano, simula un profondissimo interesse, abbandonandosi ad un corroborante  sonnellino ristoratore.
Il Mega Direttore, dopo aver fatto pericolosamente tintinnare due volte i sette calici per via del fatto che c’è poco spazio tra la sua sedia e il ripiano del tavolo, non avendo seguìto da vicino l’originale iter di apprendimento attuato dal degustatore, si sorprende perché non ci sono i bocconcini di pane nel cestino e richiama con garbo ma con fermezza una delle hostess, ricordandole che in quel tavolo siedono esponenti della stampa  e che queste omissioni saranno oggetto di rilevazione quando saranno estese le recensioni per il giornale.
Il fotografo esegue il suo lavoro, ma si lamenta perché non riesce ad inquadrare bene i soggetti, per via di una continua lacrimazione, conseguenza di un’inopportuna crisi di riso che, iniziata per colpa del degustatore appena entrati,  non accenna a risolversi.
Trattandosi di un laboratorio per esperti viene richiesto ad un certo punto l’intervento dei partecipanti, al fine di raccogliere pareri sulle diverse sfumature di sapore rilevate assaggiando i
sette preziosi campioni  di Borgogna. Svegliandosi quasi di soprassalto il degustatore ha un sussulto
e fa per stirarsi, ma il suo gesto viene scambiato per una prenotazione di intervento, tanto che gli viene fatto cenno di attendere e viene messo in coda in attesa del suo turno. A questo punto il Mega Direttore, uomo di grande esperienza giornalistica, accertato con un semplice sguardo di intesa che nessuno di noi ha riscontrato nei campioni sottigliezze di sorta e che ognuno è fermamente convinto di aver bevuto sempre lo stesso vino, coglie al volo la necessità di abbandonare l’aula e con un segnale della mano destra, pacato ma inconfondibile, palesa la strategica esigenza  di guadagnare immediatamente l’uscita. Adducendo pretesti vari (aereo in partenza, necessità di correre in redazione etc.) abbandoniamo il consesso, tra il rinnovato tintinnio dei sette bicchieri che continuano  a barcollare perché il Mega Direttore ha sempre  poco spazio tra la sua sedia ed il ripiano del tavolo.
Il degustatore assapora le ultime gocce da uno dei bicchieri che ha il fondo ancora un po’ tinto di rosso e rapidamente, omettendo per comodità i commiati di rito, guardati con curioso stupore da tutti, usciamo dal padiglione prima del tempo.
La stanchezza, ora, è ai limiti storici. Solo per riposare un po’ e per stare qualche minuto seduti senza l’assillo di dover per forza esprimere pareri sulle caratteristiche organolettiche del vino, riteniamo opportuno proseguire il servizio giornalistico in un’enoteca megagalattica, assai vicina, per poter bere in piena libertà due bicchieri a testa di “grandi bianchi” del Trentino. Non troviamo posto a sedere. Il degustatore, innervosito, battibecca con due corposi tedeschi che gli negano la possibilità di usufruire di alcune sedie vuote. La scena si scalda quando uno dei due energumeni,
non lucidissimo,  blatera frasi sconnesse iniziando a ridere in modo sguaiato. Il degustatore, forse obnubilato dalla fumose fragranze dei vini di Borgogna, intenderebbe risolvere la questione in modo fisico e si volge verso di noi per chiedere sostegno. Ma ancora una volta ottiene in cambio un’ unanime diserzione, per cui si congeda controvoglia dal tedesco, non prima di avergli rivolto alcune per lui  indecifrabili  ma coloritissime espressioni di disgusto in dialetto rosetano.
Per completare il servizio giornalistico dobbiamo visitare il padiglione di “Eataly”, vero paradiso per chi ama prodotti di nicchia e cibi di italiani di alta qualità.  Qui ognuno trova il modo di accontentare il suo palato, quantunque esigente. Il degustatore ufficiale  sciorina la sua fantasia e riempie il carrello di prodotti di ogni tipo, senza guardare i prezzi.  In previsione di chissà quali futuri programmi  si accaparra quattro confezioni di zabaione torinese, di quelli corposi energici e vigorosi. Poi gianduiotti a volontà, piccoli, medi e grandi, torroni farciti, morbidi, duri e durissimi, caramelle allo zenzero, gelatine di ribes,  creme di nocciola e gianduia, similnutella, barattoli sette. Come in preda ad un raptus il degustatore accoglie nel capiente carrello tutto ciò che suscita il suo interesse senza freni inibitori. Proviamo a segnalargli che il totale in Euro degli articoli acquistati potrebbe superare i 300 Euro. Colpito ma non dissuaso totalmente dall’avvertimento toglie dal carrello una bustina di patatine al mais ma poi riprende  imperterrito la caccia al prodotto tipico, incamerando, nell’ordine, 8 chili di pasta De Cecco, in vendita anche presso il super market sotto casa, 2 chili di pasta al Kamut, un’improbabile salsa di  Chili Chipotle rosso Jalapeno venduta a 64 euro al chilo, due birre al cioccolato, cipolle sott’olio, cinque litri di vino Montepulciano abruzzese di Masciarelli.  Paga alla cassa con la carta di credito 425 euro. La commessa chiede se vogliamo la busta.  
Torniamo in albergo per trascorrere la notte, stanchi ed esausti.
Il giusto sonno ristoratore è tuttavia disturbato a causa di alcune comprensibili dimenticanze che il degustatore, preso dalla frenesia del lavoro, non ha potuto evitare. Così, in piena notte, alle 4,30 suona la sveglia del suo telefonino, non disattivata il giorno precedente. Ma non è tutto. Egli reca con sé anche un secondo cellulare, perché “non si sa mai”. E’ quello che usa correntemente e che ha
la sveglia programmata alle 6,30, per andare ogni mattina al lavoro. Squilla anche quella, all’orario previsto, ma con una suoneria più energica e decisa.
Inutile insistere. Temiamo che possa attivarsi anche la sveglia delle otto, quella della domenica. Perciò decidiamo di alzarci e di ripartire. In fondo quello che conta è avere raccolto  materiale per il servizio.
 Non siamo mica andati a divertirci.


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