venerdì 29 ottobre 2010

SALONE DEL GUSTO 2010- ATTO SECONDO

ALLO SLOW FOOD 2010

Inizia con un fatale malinteso la “due giorni” di quest’anno al Salone del Gusto di Torino, “Slow Food edizione 2010””. Per gli infaticabili redattori di “Crescere”, inviati speciali, la spedizione prevede una partenza con levataccia, alle ore cinque del mattino. Viaggio in auto, quattro persone, due giornalisti iscritti all’albo, tra i quali il Mega Direttore della rivista, un fotografo sommelier ed un “degustatore ufficiale”, qualifica quest’ultima meritatamente conseguita due anni fa, come si ricorderà, dopo alterne e difficili vicende.
Il quartetto ha appuntamento al casello autostradale di Mosciano S. Angelo. Ma già al momento del primo meeting si capisce che qualcosa non ha funzionato: il degustatore arriva indossando abiti super invernali: scarponi da “Camel Trophy” fino a metà stinco, pantaloni imbottiti, maglione bianco di lana di pecora con collo alla dolce vita, giaccone imbottito con piume d’oca, berretto di lana con paraorecchie e sottogola, guanti imbottiti. Troppo per un week end previsto con condizioni  meteorologiche “stazionarie”.  Gli chiediamo subito la ragione di una scelta così singolare e viene fuori un fatto che sta a metà tra  l’incredibile ed il grottesco: la sera precedente la partenza il degustatore transita per caso davanti al solito bar, dove incontra il solito amico, non al massimo della sobrietà, data l’ora tarda. E’ in corso l’incontro di calcio tra Juventus e Salisburgo. L’amico segnala al degustatore che la temperatura in campo è a -3 gradi. Il degustatore associa  la Juventus alla città di Torino, meta del suo servizio il giorno successivo. Il gioco è fatto. Torino a meno tre, abbigliamento alaskiano. Apprende solo l’indomani, alla partenza, che la Juve ha giocato in Austria, a Salisburgo, e che a Torino la temperatura media avvertita è di 13 gradi sopra lo zero. Ma ormai è troppo tardi. Il sottile malinteso lo costringerà a sopportare una temperatura corporea superiore ai 39 gradi centigradi  per tutta la durata della missione.
In auto, durante il viaggio, per comune utilità, ma soprattutto per rispetto della maggioranza e del Mega Direttore,  il climatizzatore viene impostato tassativamente  a gradi 22.  Alla prima sosta in Autogrill il degustatore scende completamente madido di sudore, ma poiché si va a lavorare e non a divertirsi, deve comunque abbozzare sorrisi a tutti e sopportare.
L’arrivo a Torino, alla ricerca dell’Hotel, è reso problematico dai capricci del navigatore che ripete in continuazione “ricalcolo percorso”, ritardando l’inizio dei lavori  giornalistici. Alla fine si decide di chiedere in giro, per fare prima. Dopo aver interpellato senza esito prima un rumeno e poi un albanese senza permesso di soggiorno, una prorompente prostituta che rientra dalle prestazioni notturne e che, fraintendendo,  con il dito ci fa segno di no, avendo completato il servizio, ed un non vedente in attesa dell’autobus, ci imbattiamo finalmente in un torinese purosangue. In realtà siamo davanti all’albergo da almeno tre quarti d’ora, ma la chioma di un albero di alto fusto rendeva impossibile  l’individuazione dell’insegna luminosa. Finalmente tranquilli disattiviamo il navigatore, scoprendo per caso che per errore era stata impostata come città di destinazione “Torino di Sangro”, forse per via dell’oscurità del mattino. Sistemati i bagagli nelle rispettive camere chiamiamo un taxi per andare a lavorare al glorioso “Lingotto”.
Forse per la stanchezza del viaggio, forse per via di una caratteriale serafica calma, il Mega Direttore si accosta all’auto con passo lento e cadenzato, tanto da suscitare una educata reazione del tassista che bonariamente ci fa notare che , a quei ritmi, in due giorni, potremo visitare al massimo solo un paio di stands dei 910 espositori del Salone.
Arriviamo al Lingotto Fiere alle ore 14,20 con circa due ore di ritardo sull’orario previsto. L’accumulo di stress,  la levataccia, la sobria colazione consumata in Autogrill, hanno accresciuto in ciascuno di noi un senso di languore che il degustatore non esita a definire vera e propria fame.




Per tale ragione, data anche l’ora tarda, aggrediamo il primo gazebo di formaggi spagnoli, precipitandoci sull’”assaggio” che viene venduto a Euro 2,50: si tratta di una minuscola fettina di formaggio di pecora nera che viene da tutti giudicato “ottimo”. Detto, fatto. I nostri zaini si riempiono di  quella prima leccornia, costi quel che costi. Segue una seconda degustazione, poi una terza. La fame impone anche  un’immediata sosta allo stand successivo ove ci viene servita una ridottissima porzione di riso allo zafferano con gamberi che consumiamo scomodamente in piedi, curvi  davanti ad un tavolo basso, tondo,  di 60 cm di diametro. Assumiamo una birra per ciascuno, anch’esse spagnole. Volati i primi 50 euro a testa proseguiamo la visita, scoprendo che quei gradevoli assaggini hanno notevolmente aumentato in ognuno di noi il senso di fame. Nello stand spagnolo ci tratteniamo ancora, anche perché il degustatore, padrone della lingua,  conversa animatamente in spagnolo con una graziosa senorita, la quale, in verità, parla e risponde in italiano fluente. 
Fronteggiati a malapena i morsi della fame, siamo comunque ormai pronti a  raccogliere appunti per il servizio giornalistico, vero scopo della nostra missione. Decidiamo così di iniziare a scattare qualche foto, per il doveroso corredo agli articoli che andremo a scrivere. Il fotografo ufficiale, uomo di grande stile e riconosciuto sommelier,  propone una prima foto a quattro, per informare i futuri lettori anche in merito alla composizione fisica del quartetto di inviati speciali. Chiede ad un passante, dal viso rubicondo e paonazzo,  che indossa un largo berretto a sombrero, di scattarci una foto. L’avventore, però, personaggio strano, dallo sguardo vitreo e perso, dal quale è lecito presumere che possa aver superato di diverse tacche il limite della sobrietà, barcollando, comprende tutt’altra cosa e si pone tra noi, abbracciandoci ed iniziando a cantare sguaiatamente,  per essere fotografato nel gruppo. Pazienza, una foto forse simpatica, ma inutile per il giornale.

Forse per via della crisi, forse per contenere i costi gravosi, a differenza degli anni precedenti questa volta gli assaggi si pagano. Non ne è a conoscenza il degustatore ufficiale che, memore delle passate esperienze, sempre sudatissimo, accede tranquillamente agli stands assaggiando qua e là, senza curarsi dei cartellini che indicano i prezzi . Lo fa senza malafede, ma con tale disinvoltura che i vari espositori non riescono ad ostacolarlo, tanto irretiti da quella baldanzosa impassibilità da temere una sua reazione incontrollata. Al cronista, al fotografo ed al Mega Direttore, davanti alla scena, non resta che fingere di non conoscerlo, evitando anche di rispondere alle sue domande  e voltando il viso dall’altra parte. Vedendosi rinnegato il degustatore intuisce che qualcosa non va  e si allontana velocemente in direzione della toilette, entro la quale rimane rinchiuso, in preda ad una crisi di pudore, per i venti minuti successivi.
Ci rincontriamo dopo circa mezz’ora tutti e quattro in uno stand molto caratteristico, presso il quale vengono serviti (a pagamento)  gustosi tranci di tonno bianco del Mar Cantabrico, rarissimo. Estasiato non poco dal piacere  generato dalla sapidità del prodotto il degustatore, forte della sua non comune esperienza, sostiene che si può tranquillamente mangiare anche il piccolo contenitore: una barchetta di plastica dura che a lui sembra di ostia bianca. Proviamo ad informarlo del contrario, ma si sa, in questi casi la parola di un degustatore diplomato vale più di quella di ogni altra persona. Dopo una lunga ed infruttuosa masticazione finalmente si convince e getta via imprecando la sua barchetta masticata che va ad aggiungersi ad altre migliaia di barchette, integre, in un cestino non lontano, all’uopo predisposto.
Arriviamo al momento clou del servizio: il laboratorio del gusto. Questa volta l’amico e collega fotografo, addetto alla prenotazione, ha  optato per una degustazione di vini francesi di altissima qualità.  Una scelta coraggiosa ed impegnativa. Appena seduti, indossate le cuffie per la simultanea, ci avvertono che si tratterà di una prova estremamente sofisticata, articolata su sottilissime distinzioni di sapore tra sette vini rossi barricati in legni diversi. La differenza sarà unicamente nel tipo di legname utilizzato per la barrique. Viene ribadito che il laboratorio è indirizzato solo a palati sensibilissimi. Stillano meticolosamente, con religiosa cura, il prezioso nettare nei sette calici posti davanti a ciascuno di noi ma, vuoi per la fatica accumulata, vuoi per la sete generata dalla continua e costante sudorazione, il degustatore ritiene opportuno procedere alla completa e totale bevuta dei sette vins de Bourgogne in un'unica ed esaustiva assunzione. Per non subire i ritorni deleteri dell’alcool, inoltre, consuma avidamente anche i bocconcini di pane sistemati nel cestino davanti a noi ed in quello del tavolo adiacente. Sicchè, dopo circa venticinque minuti, quando viene autorizzato l’assaggio ufficiale del primo calice, il degustatore appare annoiato e poco incline all’ascolto e  appoggiando il mento sulla mano, simula un profondissimo interesse, abbandonandosi ad un corroborante  sonnellino ristoratore.
Il Mega Direttore, dopo aver fatto pericolosamente tintinnare due volte i sette calici per via del fatto che c’è poco spazio tra la sua sedia e il ripiano del tavolo, non avendo seguìto da vicino l’originale iter di apprendimento attuato dal degustatore, si sorprende perché non ci sono i bocconcini di pane nel cestino e richiama con garbo ma con fermezza una delle hostess, ricordandole che in quel tavolo siedono esponenti della stampa  e che queste omissioni saranno oggetto di rilevazione quando saranno estese le recensioni per il giornale.
Il fotografo esegue il suo lavoro, ma si lamenta perché non riesce ad inquadrare bene i soggetti, per via di una continua lacrimazione, conseguenza di un’inopportuna crisi di riso che, iniziata per colpa del degustatore appena entrati,  non accenna a risolversi.
Trattandosi di un laboratorio per esperti viene richiesto ad un certo punto l’intervento dei partecipanti, al fine di raccogliere pareri sulle diverse sfumature di sapore rilevate assaggiando i
sette preziosi campioni  di Borgogna. Svegliandosi quasi di soprassalto il degustatore ha un sussulto
e fa per stirarsi, ma il suo gesto viene scambiato per una prenotazione di intervento, tanto che gli viene fatto cenno di attendere e viene messo in coda in attesa del suo turno. A questo punto il Mega Direttore, uomo di grande esperienza giornalistica, accertato con un semplice sguardo di intesa che nessuno di noi ha riscontrato nei campioni sottigliezze di sorta e che ognuno è fermamente convinto di aver bevuto sempre lo stesso vino, coglie al volo la necessità di abbandonare l’aula e con un segnale della mano destra, pacato ma inconfondibile, palesa la strategica esigenza  di guadagnare immediatamente l’uscita. Adducendo pretesti vari (aereo in partenza, necessità di correre in redazione etc.) abbandoniamo il consesso, tra il rinnovato tintinnio dei sette bicchieri che continuano  a barcollare perché il Mega Direttore ha sempre  poco spazio tra la sua sedia ed il ripiano del tavolo.
Il degustatore assapora le ultime gocce da uno dei bicchieri che ha il fondo ancora un po’ tinto di rosso e rapidamente, omettendo per comodità i commiati di rito, guardati con curioso stupore da tutti, usciamo dal padiglione prima del tempo.
La stanchezza, ora, è ai limiti storici. Solo per riposare un po’ e per stare qualche minuto seduti senza l’assillo di dover per forza esprimere pareri sulle caratteristiche organolettiche del vino, riteniamo opportuno proseguire il servizio giornalistico in un’enoteca megagalattica, assai vicina, per poter bere in piena libertà due bicchieri a testa di “grandi bianchi” del Trentino. Non troviamo posto a sedere. Il degustatore, innervosito, battibecca con due corposi tedeschi che gli negano la possibilità di usufruire di alcune sedie vuote. La scena si scalda quando uno dei due energumeni,
non lucidissimo,  blatera frasi sconnesse iniziando a ridere in modo sguaiato. Il degustatore, forse obnubilato dalla fumose fragranze dei vini di Borgogna, intenderebbe risolvere la questione in modo fisico e si volge verso di noi per chiedere sostegno. Ma ancora una volta ottiene in cambio un’ unanime diserzione, per cui si congeda controvoglia dal tedesco, non prima di avergli rivolto alcune per lui  indecifrabili  ma coloritissime espressioni di disgusto in dialetto rosetano.
Per completare il servizio giornalistico dobbiamo visitare il padiglione di “Eataly”, vero paradiso per chi ama prodotti di nicchia e cibi di italiani di alta qualità.  Qui ognuno trova il modo di accontentare il suo palato, quantunque esigente. Il degustatore ufficiale  sciorina la sua fantasia e riempie il carrello di prodotti di ogni tipo, senza guardare i prezzi.  In previsione di chissà quali futuri programmi  si accaparra quattro confezioni di zabaione torinese, di quelli corposi energici e vigorosi. Poi gianduiotti a volontà, piccoli, medi e grandi, torroni farciti, morbidi, duri e durissimi, caramelle allo zenzero, gelatine di ribes,  creme di nocciola e gianduia, similnutella, barattoli sette. Come in preda ad un raptus il degustatore accoglie nel capiente carrello tutto ciò che suscita il suo interesse senza freni inibitori. Proviamo a segnalargli che il totale in Euro degli articoli acquistati potrebbe superare i 300 Euro. Colpito ma non dissuaso totalmente dall’avvertimento toglie dal carrello una bustina di patatine al mais ma poi riprende  imperterrito la caccia al prodotto tipico, incamerando, nell’ordine, 8 chili di pasta De Cecco, in vendita anche presso il super market sotto casa, 2 chili di pasta al Kamut, un’improbabile salsa di  Chili Chipotle rosso Jalapeno venduta a 64 euro al chilo, due birre al cioccolato, cipolle sott’olio, cinque litri di vino Montepulciano abruzzese di Masciarelli.  Paga alla cassa con la carta di credito 425 euro. La commessa chiede se vogliamo la busta.  
Torniamo in albergo per trascorrere la notte, stanchi ed esausti.
Il giusto sonno ristoratore è tuttavia disturbato a causa di alcune comprensibili dimenticanze che il degustatore, preso dalla frenesia del lavoro, non ha potuto evitare. Così, in piena notte, alle 4,30 suona la sveglia del suo telefonino, non disattivata il giorno precedente. Ma non è tutto. Egli reca con sé anche un secondo cellulare, perché “non si sa mai”. E’ quello che usa correntemente e che ha
la sveglia programmata alle 6,30, per andare ogni mattina al lavoro. Squilla anche quella, all’orario previsto, ma con una suoneria più energica e decisa.
Inutile insistere. Temiamo che possa attivarsi anche la sveglia delle otto, quella della domenica. Perciò decidiamo di alzarci e di ripartire. In fondo quello che conta è avere raccolto  materiale per il servizio.
 Non siamo mica andati a divertirci.


martedì 12 ottobre 2010

1557: IL SACCO DI GIULIA

       Fu celebrata a Teramo, per la prima volta, nel marzo dell’anno 1559 una festa cittadina che aveva lo scopo di ricordare in modo solenne la fine delle uccisioni violente che seguivano agli scontri  tra fazioni e quartieri della città.
La “Festa della Pace” istituita quel giorno sarebbe stata ripetuta in seguito, ogni domenica, per ancora due secoli.
Fautori e creatori della cerimonia, su invito del Viceré, furono il Governatore della Città, Cristobal Santo Stefano e il Governatore della Provincia, Ferdinando Figueron, presenti il popolo tutto e alte autorità, tra le quali il Vescovo Giacomo Silverio Piccolomini.
In occasione della ricorrenza due uomini e due donne, eletti dall’Università e denominati rispettivamente “Pacieri” e “Paciere” si adoperavano visitando personalmente le abitazioni delle famiglie in discordia tra loro, per cercare di riappacificarle prospettando possibili soluzioni ai motivi della lite che era insorta.

Questo bisogno di intervenire, oltre che legato a motivazioni di carattere etico, era anche determinato da esigenze connesse alla vita di tutti i giorni, spesso funestata da omicidi che avvenivano per strada, talora per futili motivi, e comunque sempre per cause di contrasti insorti tra famiglie della città entrate in conflitto per qualche ragione.
Col passare del tempo s’era sentita la necessità di intervenire, magnificando e benedicendo il giorno in cui finalmente era stato posto il termine ai lutti e alle uccisioni che angustiavano la città.
D’altro canto solo qualche anno prima era ripresa, in tutto il territorio italiano, la lunga guerra tra Francesi e Spagnoli, i primi sostenuti da papa Paolo IV Carafa, i secondi dal Viceré Don Ferdinando Alvarez di Toledo che presiedeva, nel periodo, il Ducato di Alba.
Era, insomma, un periodo di grandi contrasti e di guerre fratricide da cui molti paesi del teramano finivano per essere direttamente o indirettamente interessati.

S. Egidio, Torano, S. Omero e Controguerra subirono il sacco da parte di truppe pontificie guidate da Antonio Carafa, nipote del Pontefice.
Solo qualche tempo dopo, nelle campagne dell’agro giuliese, la Vergine appariva a Bertolino, quasi a testimoniare il bisogno di pace che era nell’animo di molti.
Era il mese di aprile del 1557.
Nello stesso anno, però, altri lutti si sarebbero abbattuti sulla città, dopo l’occupazione di Teramo da parte delle milizie francesi.
Il procedere della guerra tra questi ultimi e gli Spagnoli generava repentini cambi di scenario: a Giulianova era ancora viva l’impressione che l’apparizione della Vergine a Bertolino, quando alla periferia del paese si scatenò il putiferio.
Truppe francesi e spagnole si scontrarono con violenza.
Alla guida delle prime era il capitano Sipiero, gli Spagnoli seguivano con impeto e manie devastatrici che il toro comandante Garzya di Toledo cercava invano di smorzare.
A nulla valse l’intermediazione dell’ufficiale che tentò più volte di dissuadere i suoi uomini: in preda a raptus distruttivo questi ultimi entrarono in massa entro le mura cittadine e iniziarono la loro opera devastatrice attaccando all’impazzata e saccheggiando ogni luogo.
Era il maggio del 1557, meno di un mese prima Bertolino aveva avuto la sua meravigliosa visione nelle campagne giuliesi.

Ma Giulianova avrebbe subito ancora devastazioni e stavolta proprio nelle zone periferiche, nel periodo della mietitura.
Erano ascolani uniti ad ancaranesi gli uomini che componevano lo scellerato manipolo colpevole di aver seminato sangue tra i contadini intenti alla lavorazione dei campi. Il paese di Ancarano era stato saccheggiato solo qualche mese prima e tredici suoi abitanti erano stati impiccati in pubblica piazza.
I superstiti di quell’eccidio s’erano poi uniti agli ascolani e avevano invaso l’agro giuliese.
Quel che si racconta a proposito del saccheggio è a dir poco sconcertante: piombati improvvisamente addosso ai contadini che stavano mietendo gli assalitori uccidevano senza scrupoli, e senza pietà alcuna, chiunque fosse capitato loro a tiro.
Ad alcuni che prendevano prigionieri tagliavano con un fendente le mani, deridendoli nel compiere il gesto che non avrebbe più permesso loro di “triturare i grani nelle campagne”.
Portavano via i cavalli, e rubavano di tutto all’interno dei casolari, cibo e attrezzi, e quello che non riuscivano a portare via davano alle fiamme.

Dopo l’orrendo massacro sulla terra giacevano accanto ai covoni di grano arti mutilati e cadaveri di innocenti in un macabro scenario di polvere e di sangue.
Si comprende bene come la “Festa della Pace” celebrata a Teramo qualche anno dopo, potesse assumere i connotati di una vera e propria cerimonia liberatrice e propiziatoria di tempi migliori, non funestati da guerre fratricide o da contrasti tra popoli e famiglie.

Atti di disumana violenza che si ritrovano in alcuni episodi di cronaca recente, nell’intolleranza di gruppi e di facinorosi, nella barbara incoscienza di menti allucinate che concepiscono ancora oggi idee e progetti bellicosi.


PERSONAGGI DI ALTRI TEMPI

LA MENTE ECLETTICA DI GUSTAVO SILVINO
 
 
Mentre guardo le sue ditta saltellare, come agili ed esuberanti puledri, sui tasti del piccolo “ddu botte” e mentre ascolto rapito il coinvolgente ritmo di quelle note che si susseguono in un frenetico gioco di accordi e di assonanze, incrocio per un attimo lo sguardo magnetico di quest’uomo così particolare, direi a prima vista schivo, quasi distaccato. Il continuo e ripetuto cadenzare del piede sinistro sul pavimento e il movimento rotatorio del corpo che accompagna la musica, come per esserne parte integrante, tradiscono la sua intima fuga dalla realtà, quantunque temporanea, e il completo compiacimento all’estasi di quei suoni variopinti. Una specie di abbandono mistico. Così ho conosciuto Gustavo, ottantaquattro anni compiuti il 4 febbraio scorso mentre, la notte dell’ultimo capodanno, intratteneva noi astanti con il suo piccolo ma prezioso organetto (ne possiede quindici) rievocando canzoni popolari e tradizionali.

Mi colpì la sua straordinaria vitalità. L’energia positiva che emanava dalla sua persona si diffondeva nell’aria in maniera insolitamente contagiosa. Ebbi la sensazione, poi suffragata da successivi approfondimenti, che fosse un uomo eccezionale, capace di fare tante altre cose, che non fosse, insomma, solo un bravo musicista. Dovevo indagare.
Trascorso capodanno, una domenica di gennaio 2006, Gustavo Silvino mi accoglie, in compagnia di un amico comune, nel suo laboratorio poco fuori Teramo. E’ un luogo strano, ove si respira aria di altri tempi. Il locale è ampio, ma c’è poco spazio tra l’infinità di oggetti, macchine, aggeggi, arnesi, attrezzi di ogni genere e misura, scatole, lampade situate in posizioni strategiche perché illuminino in modo opportuno un tavolo di lavoro non grande, situato al centro. “Questo è il mio trono” esordisce Gustavo invitandomi a sedere al suo posto, per la durata dell’incontro, mentre lui si muove con estrema agilità nel ridottissimo spazio che resta. Poi apre un vecchio armadio di legno e mi mostra i suoi quindici organetti, ognuno diverso dall’altro, custoditi con religiosa cura all’interno, e mi spiega che ciascuno di essi è utilizzato a seconda della circostanza che viene a crearsi. C’è quello più sofisticato, per le serate importanti, quello andante per impartire lezioni, quello da collegare all’impianto stereo che lui ha arricchito creando un gioco di luci con dei fari di una vecchia auto riesumati per l’occasione, e così via. Mentre mi mostra alcune sue ingegnose creazioni (l’elegante scultura in legno di un carabiniere in divisa anni cinquanta, tre “picchi”, uccelletti di legno che salgono e scendono alternativamente beccando su un asse verticale di metallo — oggetto non utilissimo, ma bellissimo, frutto di pura fantasia — un gioco di prestigio con le carte che si avvale di una ingegnosa intelaiatura di ferro da lui inventata e costruita), con dovizia di particolari e con una punta di mesto rimpianto che traspare dagli occhi improvvisamente lucidi, inizia a raccontarmi della sua infanzia.

 Mi parla della scuola elementare di Putignano, del maestro Michelino Fioravanti, mai dimenticato, del disegno del motociclista con gli occhiali e con la pipa che gli valse un 9 agli esami di ammissione, del saluto romano che fece uscendo dall’aula, del primo premio che vinse alla gara federale, come fossero eventi di qualche mese fa, tanto sono vivi ancora nella sua mente e fissi nella memoria. Mentre parla, in perfetto italiano, con eleganza discorsiva e senza inflessioni dialettali, si schernisce ogni tanto perché ritiene eccessivo e non giustificato il mio interesse nei suoi confronti ed esagerato il mio proposito di pubblicare un servizio sul suo multiforme ingegno. Convinto del contrario capisco che c’è dell’altro, che la storia di Gustavo riserva continue sorprese e che scoprirò tante cose. Passano pochi minuti e intanto viene fuori che la sua straordinaria capacità di modellare, creare, modificare, inventare, riparare trae antica e primitiva origine dalla costante frequentazione dell’officina del padre fabbro, conduttore di macchine a vapore, e che pure il fratello, che in Venezuela costruiva canne di fucile, aveva acquisito analoga, ma non superiore, manualità. Ogni cosa incuriosiva il piccolo Gustavo, destando i vivaci folletti della sua fantasia.

 Riportava sulla carta, ignorando ancora le regole calligrafiche, le scritte che vedeva sulle insegne delle botteghe, e creava lettere tanto eleganti ed armoniose che il professore Daniele Saverio, calligrafo, non tardò a scoprire e ad evidenziare le sue straordinarie potenzialità. Ancora oggi, in occasione di importanti appuntamenti che prevedono la compilazione ed il rilascio di pergamene ad autorità o personalità in visita alla città, a Teramo, si ricorre alla preziosa opera di Gustavo per la stesura dei testi, in virtù delle sue ormai celebri capacità artistiche nell’arte grafica. Doti rimaste intatte nel tempo, come mi dimostra prendendo tra le dita due matite della stessa lunghezza e vergando su un foglio occasionale il mio nome ed il mio cognome che sembrano così usciti dalla rotativa di una macchina stampatrice. I caratteri sono elaborati, di dimensioni identiche, presentano eleganti ghirigori, sono perfettamente allineati alla base del foglio, sembrano dipinti lentamente ed accuratamente con un paziente e lungo lavoro certosino, tipico dei miniaturisti medioevali, e invece tutto è frutto di un rapidissimo tocco di mano, in piedi, con il foglio nella mano sinistra appoggiato ad una panca e le matite nella mano destra. Davvero strabiliante, penso, infilando il souvenir nella tasca della giacca a futuro ricordo. Così, tra le righe, mi dice che a scuola disegnava il volto del duce con soli quattro tratti di penna e che i compagni di classe provavano invidia nei suoi confronti. “Si è vero, in disegno ed in calligrafia non avevo rivali ma compenso - precisa quasi a scusarsi - in chimica non andavo bene!”

Mentre mi mostra le modifiche che ha apportato ad un’apparecchiatura agricola che serve per separare le olive dalle foglie e dei rami, e mentre mi spiega che spesso i motori utilizzati per la costruzione di attrezzi simili li recupera da vecchie lavatrici o da macchine dello stesso tipo, vola col ricordo al periodo in cui frequentava a Firenze la scuola d’arte “Porta Romana”. Aveva quindici anni ed eccelleva negli studi.
Dopo la caduta del fascismo il giovane Gustavo era disoccupato. Ma con una punta di malcelato orgoglio mi racconta di quando e come riuscì a trovare un’occupazione definitiva, che avrebbe svolto dal 1 aprile 1944 al 10 settembre 1984, assentandosi dal lavoro solo tre giorni in quaranta anni, per un abbassamento di voce.

Fu il Preside dell’Istituto Tecnico Comi, Giuseppe Zozza, che volle rendere tributo a questo giovane che, con la sua attività artistica, aveva dato lustro alla scuola negli anni precedenti. Lo convocò con una lettera, gli fece dattiloscrivere, a mo’ di esame, un foglio di nomina che altro non era se non la sua stessa assunzione ufficiale all’incarico di segretario, in sostituzione di tale Antonio Candelori, richiamato alla armi. Fu la svolta della sua vita. Quel lavoro Gustavo avrebbe svolto con estrema serietà e competenza per quattro decenni.

Comprendo che quest’uomo poliedrico potrebbe raccontarmi migliaia di episodi e affascinarmi sempre più con le sue doti di narratore e di affabulatore. Faccio fatica a ricondurlo allo scopo della mia intervista che è quello di aprire uno spaccato sulla sua molteplice attività di artista, artigiano, musicista, poeta, grafologo, disegnatore, pittore, scultore, inventore, abile riparatore. Mi cita ancora tale professoressa Lupi di Campli, che lo ebbe allievo al Liceo Musicale “Braga” di Teramo e un professor Di Sabatino che era insegnante di tromba. Nella sua mente riemergono immagini del passato che la sua fervida memoria rimodella in piccoli quadretti. Mi guardo ancora intorno nel composto ed irreale disordine del laboratorio ove ogni cosa, per quanto appaia posizionata a caso, non potrebbe trovarsi in luogo che le sia più adatto. E in quel disciplinato marasma Gustavo si muove con elegante agilità, con la delicatezza di un ragno sulla tela, trovando facili passaggi in spazi strettissimi. Mentre sfiora con la spalla un fragilissimo contenitore di vetro, senza urtarlo minimamente, mi porge tra le mani un mirabile monocolo completo di treppiede, opera sua, in legno e metallo, e poi mi indica con il dito un quadro appeso al muro che avevo scambiato per una foto. E’ un suo disegno a matita di un vecchio cane scomparso in passato, cui lo legava incommensurabile affetto. Ogni piccolo aggeggio, in quel locale, ha una sua storia, una vita che lo lega indissolubilmente al suo artefice.

Uomo schivo, mente eclettica, personaggio d’altri tempi, Gustavo vive nel suo microcosmo senza eludere gli altri, tuttavia con un’autonomia che lo rende completamente libero ed affrancato, come ogni artista, da costrizioni o scelte obbligate. Percorre la sua strada, che iniziò a tracciare a mani nude quando suonava la fisarmonica traendone due lire e mezza di compenso, con coerenza e modestia, consapevole delle proprie qualità, ma sempre pronto a metterle al servizio degli altri.
Con un po’ di mestizia esco dal laboratorio, ma mille altre cose avrei voluto vedere, mille altre domande gli avrei voluto rivolgere. Mi accompagna sull’uscio e mi invita a tornare. So che ho potuto conoscere solo una piccola parte del suo mondo così particolare ed insolito del quale mi ha mostrato, a tratti, alcune peculiarità. Ma mi resta dentro la consapevolezza di aver conosciuto un uomo diverso, capace di spaziare con la mente e con la fantasia in diversi campi dell’arte in piena autonomia intellettuale, una sorta di Michelangelo dei nostri tempi, artigiano di antica e rara manualità, difficile da incontrare nella fredda e raziocinante società moderna, culla della mostruosa tecnologia imperante.
 

Gustavo, purtroppo oggi scomparso, non volle, all’epoca,  per suo espresso desiderio, rileggere questo articolo prima della pubblicazione, fidandosi completamente di ciò che avrei scritto. Mi auguro di avere in qualche modo rappresentato i caratteri essenziali della sua versatile e polimorfa figura, rendendo fruibile, almeno in parte, al lettore, il senso di grande meraviglia e stupefazione che l’incontro suscitò nel mio animo.

domenica 10 ottobre 2010

22 aprile 1993

L’ALTRA FESTA
(pubblicato sull’Annuario “Madonna dello Splendore”  n. 12 del 22 aprile 1993
 
Sembrano due piccoli monelli, a Napoli direbbero “scugnizzi”.

S’aggirano con atteggiamento facinoroso tra la folla, ma non hanno in animo di combinare marachelle, né di far del male. Sono soli.
Me ne accorgo quando colgo sotto l’apparente serenità dei loro volti, un’ombra di malinconia, o forse un’angoscia latente che getta un velo di amarezza su ogni loro gesto, sulla presunta gioia che dovrebbero trarre da un gioco, da un innocente divertimento.
S’accostano agli stands, ai capannoni, ma restano sempre indietro, un passo più indietro degli altri.
Quasi come se di quella bella torta fossero riservate a loro solo le briciole, per voler del destino, della sorte inappellabile che li ha voluti, in certo senso, emarginati.

Ho visto in che modo guardano gli altri. Non c’è invidia in quegli sguardi che osservano attenti le cure di un padre al suo piccolo, l’attenzione che pone nel sistemano sul seggiolino della giostra volante, le cure nel tirargli su il bavero, ché se pure è primavera, c’è ancora aria di febbraio.
Non guardano con invidia. Cercano forse un’attenuante alla loro solitudine nell’imperscrutabile succedersi degli eventi, nell’ormai inalterabile stato delle cose, e lo accettano dignitosamente, senza subirlo.
Non colgono la veste esteriore della Festa, ne evidenziano l’intima essenza di fraternità e di pace.
Il povero vecchio, curvo e canuto, vestito di poche misere cose, s’aggira tra la folla all’imbrunire.
Attende il concerto della Banda in piazza Belvedere.

Il suo incedere è lento, quasi ritmato, tipico di chi procede senza meta.
Lo sguardo vaga incerto, poi si sofferma a fissare un palloncino colorato che si perde nel cielo.
Ma la mente è certo altrove. Insegue immagini d’altri tempi e di altre età, volti giovanili che la memoria riporta immacolati, non deturpati dai graffi del tempo e dal trascorrere degli anni.
A quel carosello di ricordi il vecchio s’abbandona, estraniandosi dal frenetico formicolio della folla, e saluta antichi amori, poggiando il bastone senza apparente logicità, ora da una parte ora dall’altra, e tira calci con rabbia a un barattolo di Coca che rotola giù tra i piedi dei passanti e che finisce poi chissà dove. “Chissà dove è finita ma non ricorda il nome, sa solo che vestiva di rosso e che insieme ballavano in piazza, alla festa d’aprile, quando suonavano le fisarmoniche.

E’ tutto diverso. Di immutato c’è solo il senso mistico della Festa, la sua sacralità.
Cammina spedito, come se vedesse. Lo guida un pastore tédesco.
Gli occhiali scuri del padrone, la croce rossa sul dorso del cane non lasciano dubbi.
Non vede.
Seguo questa nuova immagine ed abbandono il vecchio di prima. Non vede, ma sorride, come se luci, colori, musiche della Festa gli appartenessero e come se potesse coglierne appieno ogni sfumatura visiva.
La folla lo guarda, lo addita. Da quel volto traspare solo serenità. Non un velo di mestizia, nessun rancore.
Avverte la magica atmosfera del momento dal profumo che riempie l’aria, dal vociare continuo e indistinto nel quale individua il pianto di un bimbo, riconosce le risa di un gruppo di amici, una voce nota.
Sosta davanti ad uno stand e ascolta.
Costruisce nella mente un’immagine, un volto, una situazione. Poi lo vedo immobile davanti alla Banda che suona.
Il cane s’accuccia, il cieco segue le note dei meandri ultratemporali della sua mente, finalmente affrancato dalla fisicità delle cose.
Ora spazia libero, senza costrizioni.
Il tramonto avvolge nelle spire dei suoi colori ogni angolo della città. La Festa continua. Acquista, anzi, a quest’ora un aspetto più sacrale e suggestivo. Forse per via delle luminarie che conferiscono ad ogni via un senso mistico, quasi irreale.
Piccole, grandi storie vivono ai margini della Festa.
E’ grande il dramma di un bimbo che perde tra la folla il suo peluche.
Il senso della religiosità non si coglie nei particolari legati al succedersi dei piccoli eventi.
E’ nell’aria. Forse nell’animo di ciascuno. E’ nel volto malinconico e triste di due bambini soli, nei nostalgici rimpianti di un povero vecchio canuto, nella impenetrabile solitudine di un cieco che ascolta con incantevole serenità una musica lenta che si perde nell’aria quando scendono, sulla Festa, le ombre della sera.

giovedì 7 ottobre 2010

AFRICA

Demis Di Diodoro, ingegnere di 28 anni, nato a Giulianova, vive e lavora a Faenza. Lo scorso mese di agosto è stato in Tanzania come volontario dell’AMI. Questa la testimonianza della sua esperienza:

Numba Yetu


Africa, Tanzania, Numba Yetu, che vuol dire Casa Nostra. E’ proprio questa la sensazione che dopo pochi giorni si prova, quella di sentirsi a casa. E’ assolutamente sconvolgente. Si arriva in Africa con il timore di immergersi in una realtà nuova, straniera troppo lontana difficile da afferrare, e dopo poche ore da quando si atterra ci si accorge che il cuore si sente vicino come mai a tutto quello che l’occhio cattura attorno a sé.
Arriviamo a Dar Es Saalam, attraversiamo la città per dirigerci verso la missione Numba Yetu nel villaggio di Ismani, a 8 ore di jeep.  Povertà fatta di volti e colori nuovi, venditori ambulanti che sulla strada tentano la fortuna allungando la loro merce attraverso i finestrini di auto e pulmini spesso carichi di missionari o curiosi. Canna da zucchero, pomodori, patate, merce povera proposta come oro, e subito ci si accorge che in quel posto lo è a tutti gli effetti.  Città di case fatiscenti, negozi improbabili, prostitute, commercio ambulante e sguardi, sguardi nuovi, di occhi che cercano, reclamano, raccontano una realtà che non ci appartiene, esigenze che non comprendiamo. Dopo qualche giorno trascorso in Africa diventa chiaro, le esigenze sono mangiare, bere dormire. La gente vive la giornata cercando di soddisfarle ed è fortunato chi ci riesce. Dopo le 8 ore di jeep, la maggior parte delle quali percorse su quella che viene chiamata la “grattugia africana” di polvere e buche, arriviamo di notte nel villaggio di Ismani.
La prima cosa che colpisce è il buio pesto, come mai visto prima, dal quale arrivano i riflessi di fiaccole che illuminano le tante capanne di fango disperse in modo del tutto casuale. Dopo il primo giorno trascorso nel villaggio è evidente che la povertà vista in città era una forma di ricchezza : lì molti hanno qualcosa da commerciare, del bestiame, un’opportunità. Nel villaggio subito tanti bambini che appena ti vedono ti corrono incontro a braccia aperte, con abiti luridi, strappati, scalzi, piedi rotti dalla terra, sporchi, e l’immancabile candela al naso. Come ci è stato detto ci inginocchiamo quando ci avviciniamo a loro perché il loro saluto è quello di metterci le manine sulla testa e dire ‘Shikamoo’, noi rispondiamo ‘marhaba’. Il cuore si stringe. E’ un gesto che racconta la loro umiltà nei nostri confronti, la percepiamo in tanti altri episodi da parte di questo popolo ed è fuori luogo, imbarazzante e dolorosa.

In Numba Yetu ci sono circa 40 bambini dai 2 ai 10 anni, la maggior parte dei quali malati di HIV e orfani, facciamo la loro conoscenza e quello che travolge è il loro desiderio di affetto, ti saltano in braccio e non vogliono più scendere, ti prendono per mano e non la mollano, ti guardano fisso negli occhi e raccontano di loro, con ingenua curiosità bambina si chiedono di noi e colgono la nostra commozione. Impariamo a giocare con loro, ci divertiamo, ridiamo con loro come matti per un palloncino che scoppia mentre si gonfia, per un aeroplanino di carta che non vola, per un aquilone che viene rotto dal forte vento africano e in breve tempo non possiamo fare a meno di prenderceli in braccio tutti insieme, delle volte anche 4, 5 alla volta.

La mattina sveglia presto per lavorare duro, scartavetrare pali per poi dare l’antiruggine, svuotare e riempire container di scarpe e vestiti, turni in cucina, sempre la voglia di fare, canti e risate, la polvere e la ruggine nel naso, l’odore di muffa, le scarpe dei bambini da sistemare, mai la voglia di guardare il telefono e il computer. La serenità di assaporare un’esperienza unica attimo per attimo ci lega in mondo indissolubile, tra molti di noi si crea presto un rapporto fuori dalla abituale realtà, emozionante.
 
Un giorno ci uniamo a due ragazzi di Roma che passano per Ismani. Uno di loro, Gianluca, è clown terapeuta, andiamo con loro in giro per il villaggio per far giocare i bimbi.
Loro ci vedono da lontano, escono dalle capanne e ci corrono incontro gridando ‘pipi, pipi’ per chiedere una caramella. Poi li facciamo mettere in cerchio e Gianluca li riempie di giochi con palline e palloncini facendoli impazzire dalle risate. I loro volti, alcuni segnati da qualche malattia, sono riempiti da un sorriso che racconta un pezzetto di infinito.Esperienza unica quando assieme a Sheela, missionaria indiana dell’AMI con carisma più unico che raro, siamo andati ad un matrimonio di una donna di un villaggio vicino Ismani. In Africa l’ospite è trattato con estrema ospitalità, ma un ospite bianco è un onore, un motivo di vanto, perché egli rappresenta benessere, potenza, istruzione, cultura, denaro. Così dopo la messa di circa 3 ore tra suggestivi canti,  tamburi e danze, ci troviamo seduti nel gazebo assieme agli sposi ed ai parenti stretti. Tutti gli altri ospiti in piedi di fronte a noi. Siamo serviti per primi con aranciate e coca cola e siamo i primi ad accedere al banchetto nuziale, di riso fagioli e carne, tutto da mangiare con le mani. Ci sentiamo a disagio perché siamo i primi a mangiare e forse non ce ne sarà per tutti, ma non possiamo disonorare la loro ospitalità porgendo il nostro cibo ai bimbi che ci guardano. Mi permetto di dire alla sposa che è tutto molto buono ma subito Sheela mi fa notare che l’apprezzamento risulta per loro  offensivo, in quanto tutto ciò che viene offerto agli ospiti è per certo il meglio che c’è, ed è sicuro buono non c’è bisogno di rimarcarlo. Capisco che ci sono delle differenze di mentalità anche difficilmente intuibili quindi mi trattengo dal fare ulteriori commenti.

Una mattina Sheela ci permette di accompagnarla in uno dei suoi giri nei villaggi limitrofi, andiamo a trovare una signora in una capanna per prendere il certificato di morte della figlia. La donna sembra anziana ma la sua età è indefinibile, ci accoglie subito nella sua capanna e ci fa accomodare su sgabelli di legno. Uno spazio minuscolo, qualche utensile per la cucina e per rammendare appoggiato a terra, una tenda separa la stanza da letto composta da una brandina appoggiata a terra e niente più. Mi colpisce l’assenza di un calendario, di un orologio, di una qualche indicazione temporale. Imparo dopo che tutti vivono senza sapere che giorno è, che anno è, e molti, tra cui la donna nella capanna, non si preoccupano nemmeno di tenere a mente quanti anni hanno.
Il concetto del tempo, lontano anni luce dal nostro, mi sconvolge totalmente. Noi siamo schiavi del tempo, lo contiamo, siamo inseguiti dal tempo, ne siamo succubi e ne abbiamo grande paura. In Africa nessuno lo conta, e come scrive il giornalista Ryszard nel suo romanzo Ebano, il tempo non esiste se non quando un’azione avviene, si concretizza nel momento in cui l’azione prende luogo. Non ha senso chiedere quando parte l’autobus, parte quando è pieno.

Nel confronto che facciamo con i ragazzi dai 14 ai 18 anni della scuola secondaria di Ismani le loro domande ci colgono impreparati, ci chiedono del mondo in cui viviamo di quello che abbiamo in Europa, del perché da loro l’HIV è diffuso al 60% nei villaggi, del come possono fare per uscirne, per diventare anche loro ingegneri o fisici. Come fare a dire loro che da noi la maggior parte della gente con uno stipendio fisso e un tenore di vita più che ragguardevole, vive cercando di accumulare sempre più soldi e averi, e cercando carriera e potere? Che se non ha la macchina nuova non è nessuno, che argomenti di discussione sono se regalare al figlio l’Ipod o la psp? Come fare? Con le loro domande alla fine mi portano a dire tutto questo, ma il mio modo di raccontarlo e le conclusioni a cui arrivo li fanno sorridere, perché percepiscono la cosa come assurda.
La conclusione  che raccontavo loro è che molta gente arriva a 60, 70 anni stanca, senza aver apprezzato la vita davvero, avendo calpestato i rapporti con la falsità, avendo schivato le domande del cuore, schiava del tempo: arriva a volte ad ottenere quello che voleva ma è infelice e sola.  Cerco di convincerli di quanto in molte cose loro siano mille volte più ricchi di molti di noi. In Africa ciò che conta di più è l’unione, il gruppo, la famiglia, chi è solo è un dannato..come potrebbero apprezzare la nostra società individualista? Ma la domanda da farsi forse è : dovrebbero?

Già soltanto dopo circa un mese, ripartire dall’Africa, da Numba Yetu è stata dura. Le emozioni sono state molte e tutte si sono stampate dentro. I volti della gente, gli sguardi dei bambini, i tramonti e le stellate, i vestiti logori e sporchi, l’odore penetrante della povertà e della semplicità, ma sono forse anche le assenze che hanno colpito molto, quelle di falsità, di arrivismo e individualismo.

Il rientro in Italia è anche la bellezza di portarsi nel cuore un pezzetto di Africa, una volta colpiti da un posto è dura far finta che non sia avvenuto e forse è dura non pensare di tornarci.
 

martedì 5 ottobre 2010

IO CHECCO E PUTTI
(Brano tratto dal romanzo autobiografico “Abitavamo in via Quarnaro” di prossima pubblicazione)



Giovedì, 19 luglio dell’anno 1951 io entrai in contatto con il mondo dei vivi. 

Avvenne tutto in casa, come usava allora. In una casa di via Thaon de Revel , a poco più di venti metri dal mare. Proprio nel punto che corrisponde alla stanza in cui io vidi la luce, giungono nitidi, da sempre, trasportati dalla brezza, il sentore della salsedine ed il profumo delle gomene abbandonate sulla sabbia.  Forse per questo, o forse anche per questo, da sempre nel mio animo palpitano sensazioni di emotività e di appassionato attaccamento al mare ed alle sue creature, all’acqua in genere, agli spazi immensi ed infiniti, alle distese senza limiti .

Nacqui a Giulianova, ridente località costiera, soggiorno estivo balneare già famoso nel primo novecento, luogo di salubrità e di benessere, meta di villeggianti e di colonie marine, perla d’Abruzzo per l’amenità del suo clima e per il chiarore limpido delle sue notti estive, per la meravigliosa sinfonia che emana dai pescherecci attraccati nel porto.
Al porto andavamo spesso io Checco e Putti.

Checco e Putti (si chiamava e si chiama Angelo, ma lo chiamavamo per cognome) sono le prime due persone alle quali la mia mente fa riferimento tornando a ritroso nel tempo, fino ai banchi di legno della prima elementare, frequentata insieme in via Quarnaro, a Giulianova lido, non lontano dal mare e dal quotidiano profumo della salsedine. Checco e Putti sono le prime due persone che hanno rappresentato un parametro fisso dell’infanzia e dell’adolescenza, uno specchio, un termine di paragone, un complice rifugio. Due compagni di cordata nell’ascesa del monte, alla conquista della vetta.
Non so se e quanto ricorderanno.

Al porto andavamo, spesso con le bici e con le canne, a pescare le “bavose”, orrendo pesce di scoglio, non commestibile, che dopo pescato eruttava bava appiccicosa dalla bocca ancora per lungo tempo. Ne riempivamo spesso anche un intero  secchio, che poi vuotavamo in mare, alla fine della giornata,  con la sua schiuma bianca.
Eravamo studenti della Scuola Media V. Bindi, per la prima volta una classe mista.  Le ragazze indossavano grembiuli neri con i colletti bianchi, ma di fogge e di modelli diversi. Il profumo di quel pesce, sulle dita, restava fino a sera  e le scaglie biancastre si attaccavano ai polpastrelli.

A volte ci si organizzava per una breve scampagnata. Lo scopo era quello di estirpare dalla terra le radici della liquirizia, per poi succhiarne l’umore, fino a renderle poltiglia in bocca. Difficile individuare le piante, ma non per noi.
C’era una zona incolta, a nord del paese, oggi riempita di case e di villini, ma un tempo oasi di silenzio, di verde, di profumi e di colori…………………

lunedì 4 ottobre 2010

LA FEBBRE DEI POTENTI

Secondo un amico, dalla cui spicciola filosofia ho sempre tratto utili insegnamenti esistenziali, la forza, intesa come concentramento di energie fisiche, servirebbe solo per espletare l’atto fisiologico dell’evacuazione corporale, atto che accomuna uomini ed animali.
  Nei rapporti interpersonali l’uso della forza, fisica o psicologica,  diventa uno strumento di offesa che, per sua natura, trascende il meraviglioso limbo della “buona educazione”  per  tracimare nell’uso di un’arma impropria , ma facile da usare anche da parte degli inetti: la celeberrima “cazziata”. Ovunque esista gerarchia di gradi, di ruoli, di cariche, di posizioni, dalle officine ai Ministeri, la cazziata è presente nei suoi molteplici aspetti, tutti sommariamente riconducibili a tre tipologie di base, bene individuate e distinte:

-         cazziata istintiva: forse la più genuina, immediata, espressione incontrollata di istinti altrove repressi e che in tale circostanza, in grazia del grado ricoperto, prorompono nella loro corposità e violenza, investendo come un vento di bufera il soggetto ricevente. Di solito è collegata as un motivo reale e non fittizio che giustifica, nella sostanza e non nella forma,  colui che parla, il quale trae da questa “legittimità” del proprio intervento le motivazioni che lo mettono in pace con se stesso in merito ai metodi inurbani che sta usando.

-         cazziata di comodo: assai più frequente, basata sul principio del “capro espiatorio”. Consiste nel dare proditoriamente colpa immediata a chi è presente in quel momento attribuendogli azioni che non ha fatto o imputandogli errori che non ha commesso, trincerandosi dietro la possibilità di poter parlare senza essere interrotto;


-         cazziata di esibizione: caratteristico  esempio di megalomania tipica nel soggetto complessato. E’ peculiare in  chi vuole dare prova del proprio potere ad un terzo presente, a scapito di un incolpevole dipendente,  interlocutore occasionale in quel momento.

Delle tre  solo la prima appare afferente il principio della giustizia, ma, ahimè, non quello del corretto vivere civile e dell’educazione. Comunque tutte e tre sono abusi di potere e come tali esempi di mobbing.

In nessun rapporto sociale, ove non esista un sistema gerarchico riconosciuto e formalizzato, sarebbe tollerata tale forma di aggressione  verbale. Essa genererebbe contestazioni legali, citazioni, querele. E’ quindi il sistema gerarchico che legittima tale forma di violenza , brutalizzando la personalità e la dignità del soggetto ricevente. Quest’ultimo, poiché teme ritorsioni sul lavoro da parte di chi conta di più (in quel contesto), non reagisce, deve subire passivamente, imponendosi un silenzio che mette a dura prova le sue coronarie.

La cazziata è quindi  un mezzo vigliacco per esercitare l’abuso di potere.

Si diceva poi dell’educazione. Esistono leader di successo, dotati di grande carisma, tanto diversi da quei poveri complessati che urlano e sbraitano in modo scortese e selvaggio, che riescono ad ottenere grande rispetto rimanendo tuttavia decorosamente educati e senza  intaccare la dignità degli altri. Ma sono casi. E per lo più riferibili a manager di successo che gestiscono il potere con tanta intelligenza da riuscire a dominarlo, senza subirne i deleteri fumi inebrianti  che spingono a travalicare  i limiti della creanza e dell’urbanità.

La cazziata è direttamente proporzionale al crescere della febbre del potere, il cui virus non perdona. Hai voglia a dire che i risultati si ottengono solo così.. In realtà è possibile instaurare un rapporto di civile collaborazione che non preveda strilli, urla, male parole, improperi, prevaricazioni, bestemmie ( e se si offende la mia fede?)
Certo a non dar prova della propria potenza il prestigio di fronte agli occhi degli altri ci rimette.. Nessuno dei potenti vorrebbe rinunciarvi, non fosse altro che per una questione di immagine  pubblica.

Io ho sempre parlato ai miei figli senza mai aggredirli verbalmente. Ho ottenuto di più. Perché prima che padre mi hanno sempre considerato un amico.

La forza la uso in una sola stanza di casa, quando sono solo.
 Lì davvero, a volte, può servire.

LA STORIA



LA BATTAGLIA DI OTRANTO E  LE EROICHE GESTA DI GIULIO ANTONIO ACQUAVIVA D’ARAGONA (pubblicato sull’Annuario “Madonna dello Splendore” di  aprile 2010)

Un evento naturale, come un forte vento di tramontana, può diventare l’elemento determinante di un fatto storico,  risultandone la causa scatenante, con esiti a volte catastrofici, quasi a voler seguire una linea fatale scritta nelle pagine della storia e, forse, per sua stessa natura immodificabile. Fu un vento impetuoso di tramontana, la notte del 28 luglio del 1480,  a decidere le sorti di più di diecimila uomini vittime delle atrocità  commesse da una flotta ottomana che si era concentrata a Valona per poi dirigersi verso Brindisi, ma la cui rotta di navigazione fu  forzosamente deviata dalle avverse condizioni atmosferiche all’interno del canale di Otranto, per poi concludersi nei pressi di una  spiaggia a nord della cittadina, allora possesso degli Aragonesi (l’odierna “baia dei turchi”).  L’infausto evento, del tutto occasionale e fatalmente disastroso, provocò l’immediata reazione degli abitanti i quali tentarono una eroica quanto vana reazione, travolti dai colpi di scimitarra e dalla furia devastatrice dei turchi invasori.

 Nella loro marcia di morte gli aggressori operarono ogni sorta di malvagità umana, mutilando orribilmente i corpi dei bambini, violentando ed uccidendo le donne, facendo prigionieri molti otrantini che,  essendosi rifiutati di rinnegare la religione cristiana, furono condannati ad essere deportati in Turchia per  diventare schiavi.  La cittadina di Otranto, per questa fatale casualità, fu cinta di assedio. Opulenta e fiorente quale era, pagava tuttavia il prezzo della sua assoluta impreparazione di fronte ad un eventuale ed improvviso attacco da parte di nemici provenienti dal mare.  Il porto era facile da espugnare, le fortificazioni scarse, il numero degli abitanti decisamente inferiore a quello della flotta turca. Condizioni che favorirono l’operazione dell’esercito ottomano guidato da Gedik Ahmet Pascià, di origine albanese, cui era stata affidato già in precedenza l’incarico di insegnare ai turchi l’arte della navigazione e di formarli fino a crearne dei provetti marinai. Per questa  ragione  il borgo marino fu presto abbandonato dai residenti i quali ritennero più opportuno ritirarsi nel castello situato nell’entroterra, aprendo la via alle razzie e alle scorribande degli invasori. Questi ultimi, avuto sentore della risibile resistenza che avrebbero opposto gli abitanti (non più di quattrocento uomini) si divisero poi in due reparti, uno incaricato dell’uso dei cannoni e l’altro mandato a  compiere massacri sul territorio.
Tutti i soggetti maschi di età superiore a quindici anni furono barbaramente sterminati in questa seconda fase dell’assedio mentre donne e bambini furono fatti prigionieri. Erano trascorse solo due settimane dall’inizio delle ostilità quando il  castello di Otranto cedette infine sotto i colpi dei turchi invasori che lo espugnarono annoverando tra i numeri del loro macabro bottino di guerra l’uccisione di più di diecimila nemici.
Orrenda la sorte di coloro che riuscirono a sopravvivere a quegli orridi scempi. Ahmet ordinò, infatti, che ogni superstite fosse decapitato in pubblico, disponendo la presenza di tutti i parenti alle esecuzioni.
In questo generale quadro di macabra carneficina  la situazione si aggravò ulteriormente poiché nessun aiuto giungeva da parte degli altri Stati italiani,  la cui totale indifferenza consentì ai Turchi di fortificare Otranto e di farne la loro base per ulteriori razzie nei territori vicini  del Salento e del Gargano.

Quando, finalmente, la gravità della situazione cominciò a delinearsi e ad apparire in tutta la sua reale pericolosità,  fu  tratteggiata una linea di intervento e fu organizzata una crociata che però non raccolse proseliti e che rimase, pertanto, nelle sole mani del pontefice Sisto IV e del re di Napoli. Costoro, comunque determinati a non cedere,  si avvalsero, per la fase di pianificazione strategica, unicamente del pur prezioso apporto fornito da Ciro di Castel Durante e Pietro d’Orfeo, il primo inviato dal duca di Urbino ed il secondo proveniente dalla Francia. Nel quadro generale delle operazioni previste per arginare, ma ancor più per scardinare le roccaforti create dai turchi, fu fissato anche un quartiere generale in località Sternatia, al comando di Alfonso d’Aragona.

 In questo delicato incarico il futuro re di Napoli era affiancato dal duca di Atri e conte di Giulianova e Conversano, Giulio Antonio Acquaviva.
Giulio Antonio stava per vivere l’episodio  più importante (e purtroppo anche  quello esiziale) che gli avrebbe conferito imperitura fama tra i posteri. La sua gloriosa morte avrebbe concluso il ciclo di quelle epiche imprese belliche che lo avrebbero condotto a diventare Capitano generale di ottomila cavalieri , luogotenente dell’esercito e persona di fiducia di Don Alfonso d’Aragona, Duca di Calabria e primogenito del re di Napoli Don Fernando.  I suoi successi sui campi di battaglia , la conquista della città di Bari, le operazioni condotte in Toscana, (vicino Firenze fu ferito gravemente ad un piede) e tutti gli eroici episodi annoverati nella sua storia militare ne fanno uno dei condottieri italiani più famosi del tempo. Le  gesta e le imprese di Giulio Antonio Acquaviva diventarono argomento delle “istorie” locali e lo resero famoso ed illustre tra i contemporanei per il ruolo di primaria importanza  che sempre ebbe nella storia del Regno.

Ma cosa accadde davvero quel  fatidico  7 febbraio dell’anno 1481?

Dalla notte dello sbarco dei turchi nel canale di Otranto sono ormai passati sette mesi .
Nel quartier generale di Sternatia, nell’ambito delle operazioni programmate per scardinare l’assedio turco, vengono spesso organizzate perlustrazioni notturne che hanno lo scopo di fornire notizie attendibili riguardo alla dislocazione dei nemici, ai loro movimenti, alle loro azioni, in modo da poterne intercettare per tempo i futuri intenti, sempre al fine di poter delineare opportune strategie di intervento.


Quella notte Giulio Antonio si pone a capo di un manipolo di dodici volontari, per compiere una di quelle sortite per  le quali sono indispensabili coraggio e dedizione, disprezzo della paura, forte
personalità, doti che già hanno trovato in lui ampia conferma in analoghe situazioni vissute in precedenti azioni militari. Al comando del gruppetto dei dodici  Giulio Antonio si incammina per i sentieri malamente illuminati dalla flebile luminosità di una pallida luna, con pochi cavalli,  in direzione di Serrano, per nulla dissuaso dai consigli dell’altro comandante Andrea Capodiferro. Ma quella notte qualcosa non funziona. Come fatale era stato il vento di tramontana che sette mesi prima aveva deviato la rotta della flotta turca verso l’ingresso del canale di Otranto, così quella notte  un tragico destino cade come una mannaia  ad infrangere sogni e speranze del generale Acquaviva.

Una vile imboscata tesa dai turchi, i quali hanno ormai  bene imparato a conoscere alla perfezione ogni più remoto anfratto di quelle vallate, costerà la vita al prode condottiero. Giulio Antonio  viene sorpreso da una schiera di oltre duecento turchi a cavallo  nei pressi di Minervino di Lecce. Il clima è afoso, l’aria quasi bollente. Giulio Antonio combatte senza elmetto e viene colpito al collo da un colpo di scimitarra. Prova a ripiegare  mentre sgorga sangue vivo dalla ferita aperta ma nei pressi della località Giuggianello cade da cavallo, ormai  debolissimo ed in preda  a dolori allucinanti. Tutti gli uomini del suo piccolo drappello sono stati uccisi. Esanime, subisce l’ultima sfregio e gli viene mozzata di netto la testa.
Secondo un’altra versione il suo corpo, decapitato, non viene  disarcionato dal cavallo il quale ripercorre all’incontrario tutta la strada in direzione di  Sternatia  ove  Giulio Antonio giunge infine così orrendamente mutilato.


Per la dedizione ed il coraggio mostrati da Giulio Antonio Acquaviva, il quale oltre che uomo di armi fu anche persona coltissima e dai molteplici interessi artistici e letterari, tutte le generazioni future, da lui discendenti, per privilegio concesso dal re di Napoli, modificarono poi il loro cognome in “Acquaviva d’Aragona”.
Un caso, una circostanza, un avvenimento apparentemente insignificante possono a volte determinare il corso degli eventi storici.
Così un forte vento di tramontana ed una terribile tempesta di mare furono, all’origine,  la causa
scatenante di tutte quelle vicende che posero fine alla gloriosa carriera militare di uno dei più valenti condottieri del tempo, la cui tragica sorte fu condivisa, per volontà del destino, con quella di oltre diecimila abitanti di Otranto.

domenica 3 ottobre 2010

LE FAVOLE


CUORE DI PEZZA         

                                C’erano una volta un giovane computer e una vecchia bambola dì pezza che un giorno si incontrarono per caso nel solaio di un villino di campagna.
Mancava poco a Natale, fuori era freddo e la neve scendeva lenta.
Sembrava che tutti si fossero vestiti di bianco: i monti, le case, le colline, gli alberi e le foglie.
Ogni animale aveva chiuso la piccola porta della sua stanza e si era addormentato aspettando che tornasse ancora la primavera.
- Cosa fai tu qui in soffitta - disse la bambola al computer - tu che sei così giovane non dovresti stare tra noi giocattoli vecchi, rotti e abbandonati che viviamo da tanti anni in questo brutto scatolone –
- Sto lavorando — rispose pronto il computer — mi chiamo Pico e mi hanno sistemato qui temporaneamente. Sono collegato tramite un sistema di fili e di circuiti al Presepe che vedi laggiù in quel salone. Per merito mio i pastori camminano, l’acqua corre nei piccoli fiumi, il giorno e la notte si alternano e gli angeli cantano in coro. Pure la neve che sembra scendere sui monti è un effetto speciale del mio programma-

- Tu... tu riesci a fare tante cose? - domandò stupita la bambola - e per giunta stando così lontano?-
- Sì certamente – confermò Pico – ma dimmi, tu chi sei, come ti chiami?-
- Il mio nome è Pola - disse la vecchia bambola di pezza riprendendosi dallo stupore - e non sono più in servizio da circa quaranta anni. Il mio abito è logoro e consunto e sono piena di polvere, come vedi -
- Ma non hai batterie, fili, circuiti, memorie da utilizzare, non sei proprio capace di fare nulla? - l’aggredì Pico - oggi le bambole camminano, parlano e rispondono ai bambini, cantano e riescono anche a piangere lacrime vere, mentre tu, a quanto pare, non riesci neanche ad aprire ed a chiudere gli occhi..
 A queste parole Pola sentì il suo piccolo cuore di pezza battere forte forte e se in quel momento avesse avuto vere  lacrime da versare certo le avrebbe versate....

- No - disse- non ho batterie nè circuiti nè memorie, sono solo una bambola di pezza, ma un tempo anch’io ho avuto una padroncina a cui volevo tanto bene. Si chiamava Tata ed era felice con me-
Felice, felice – rise Pico – come poteva essere felice con te che non puoi neanche essere programmata?- Quest’ultima parola suonò davvero strana alle orecchiette di pezza della piccola Pola che, per quanti sforzi facesse, non riusciva proprio a comprenderne il significato. Per sua fortuna, però, le bambole di pezza sono sempre tutte colorate, cosicché neanche un computer intelligente come Pico potè accorgersi che stava arrossendo per la vergogna.
A salvare Pola da quell’incomoda situazione giunse, improvvisa, una voce dalle stanze sottostanti: - E’ andata via la corrente — gridò uno dei bambini — il Presepe non funziona più! -
Ora i pastori non camminavano, l’acqua dei ruscelli era immobile, lo schermo dietro le montagne s’era spento e non si udiva più il coro degli angioletti.
Pola non riusciva a scorgere, in quella oscurità, neanche la luce verde di Pico.
- Pico, Pico — gridò — cosa mai ti è accaduto?

Ma Pico, ora che non c’era corrente, non poteva né sentire né parlare!
- Proprio ora che vengono i nostri amici a vedere il Presepe – disse tra le lacrime uno dei bambini.
Fu proprio quel pianto disperato a ricondurre Pola, per un attimo, indietro nel tempo. Si rivide giovane 
bamboletta tra le braccia della sua Tata che, quando andava via la corrente, la stringeva forte a sé perché aveva paura del buio e le bagnava le piccole trecce con i lacrimoni.
-Tu certamente riesci a fare tante cose - disse in tono di rivincita rivolta a Pico, ora che la sua luce verde aveva ricominciato a lampeggiare in segno di ripresa - ma forse a volte un cuore di pezza può collegarsi al cuoricino di un bimbo che piange anche senza fili, circuiti e memorie.... -

In quel momento un topolino che passava spesso da quelle parti in cerca di cibo, si fermò all’improvviso a guardare Pola: mai, come quella sera, l’aveva vista piangere di gioia....