mercoledì 28 dicembre 2016

IL RE MALVAGIO - FAVOLA ABRUZZESE -

Tanti tanti anni fa viveva in una foresta abruzzese un leone di nome Taro, piccolo di statura ma con una solida posizione all'interno di un branco nel quale lavorava come Capo di molti altri animali. Era un incarico che aveva ricevuto non per acclamazione popolare, chè anzi era a tutti inviso, ma per scelta operata direttamente da un altro Leone, ben più anziano, e capo di tutti gli animali, di ogni genere e stirpe. Taro era, in realtà, un inetto, complessato ed assolutamente  incapace di svolgere il proprio lavoro,  per cui aveva stretto bisogno dei suoi collaboratori per poter portare avanti il suo importante incarico. Proprio perché così inabile aveva maturato dentro di sé un gran rancore verso i suoi dipendenti, e li trattava male, malissimo. La sua incapacità lo aveva infatti reso ancor più astioso verso gli altri, ma gli aveva nel contempo conferito una grande abilità: quella di vendere il ferro per oro, facendo apparire vero il falso, giusto l'ingiusto, bello il brutto, corretto quello che era invece del tutto sbagliato. Tutti gli altri erano consapevoli di questa sua ignoranza, ma dovevano sopportarlo perché lui era il capo ed aveva su ciascuno di essi potere di vita o di morte. Accadeva così che ogni leone del gruppo, quantunque sottostante a Taro in scala gerarchica, fosse in realtà ben più intelligente e preparato di lui e sicuramente più educato, garbato, cortese e gentile. Doti queste di cui Taro era assolutamente privo, anche perché appariva complessato dal fatto che fosse piccolo di statura, ed assai più basso di tutti gli altri leoni del branco. Ma, si sa, la statura conta poco se si ha la fortuna di poter comandare gli altri. La storia raccoglie infiniti esempi che possono confermare questa regola.
Preso dalla sua onnipotenza Re Taro amministrava con estrema imperizia, ma riusciva comunque ad apparire capace per via della grande mole di lavoro che svolgevano, in assoluto anonimato, gli altri leoni del gruppo. Quando al grande Leone Centrale, capo di tutti i capi, arrivavano i lavori di Taro apparivano giusti e ben fatti, ma in realtà essi erano stati preparati ed allestiti dai suoi subalterni, che il grande Leone non conosceva neanche. Taro prendeva per sé lodi ed encomi, senza elargirne alcuno ai suoi dipendenti che lasciava invece sempre all'oscuro di tutto. Era un Leone spregevole che anche le leonesse guardavano con molta diffidenza.
Avviene nella vita, tuttavia, che per una sorta di strano destino, chi più è spregevole, falso, insulso e d'animo malvagio ottiene tanto, molto più di quel che merita. Chi invece lavora nell'anonimato, per quanto capace e cortese sia, riceve solo briciole, ed a volte neanche quelle.
Così girava la ruota nella piccola foresta abruzzese. Tutti i leoni sapevano, ma nessuno poteva parlare. Forte della carica che gli era stata così generosamente ed ingiustamente conferita Taro faceva pesare il suo grado e viveva nell'agio e nell'ozio, raccogliendo frutti che non aveva mai seminato e gloriandosi di successi che non gli appartenevano. Così andarono le cose per tanti anni. Taro riceveva compensi dai suoi superiori e chi lavorava per lui rimaneva sempre a bocca asciutta, nella dimenticanza più totale.
Un giorno, però, il Leone Centrale, colpito da grave malattia, morì. Chiamato a giudizio dopo la morte fu giudicato da un collegio di Grandi Animali e condannato alla dannazione eterna per ingiustizia solenne. Taro ebbe notizia di questa sentenza e si sbrigò a fuggire dalla foresta abruzzese per non farsi più trovare. In nome della sua codardia, della sua vigliaccheria, della sua incapacità non avrebbe potuto fare altro che far perdere le sue tracce per sempre ora che il suo grande mecenate non avrebbe più potuto proteggerlo.
Ma nonostante Taro fosse scomparso dalla vista aveva lasciato dietro di sé un segno inconfondibile della sua esistenza: la malvagità, la cattiveria, l'iniquità, la crudeltà e la perversità del suo animo. Caratteristiche della sua scellerata personalità che nessun leone della foresta abruzzese avrebbe mai più potuto dimenticare e che lo condannarono a vivere per sempre infelice e scontento.