mercoledì 15 febbraio 2012

SI’, MA IL FESTIVAL ?

Ho gli stessi anni del Festival di Sanremo. Si può dire, quindi, che siamo nati e cresciuti insieme e che entrambi abbiamo attraversato periodi della vita caratterizzati da gioie, dolori, piaceri, inganni, illusioni, vittorie, sconfitte. Tutto ciò, insomma, che fa parte del paniere dell’esistenza e che si snoda nel corso del tempo, in modo alterno ed imprevedibile, a volte casuale, a volte conseguenza di scelte personali, giuste o sbagliate che siano. Il mio coetaneo, come accade a tutti e come è accaduto anche a me, è cambiato durante il procedere degli anni, modificando la sua struttura, tanto che oggi faccio fatica a riconoscerlo.
Quando lo guardavo possedevamo in casa un televisore di quelli a manopole, collegato ad uno stabilizzatore di corrente, ed il cui schermo, tutt’altro che piatto, era spesso velato da un fastidiosissimo effetto neve, eliminabile solo con l’intervento di un tecnico che non arrivava mai. Ci si riuniva in tanti per seguire la trasmissione davanti alla Tv, anche perché c’era un solo canale disponibile, e nessuna possibilità di scelta. Ma lui, il Festival, era diverso. Un presentatore, ben vestito, educato, molto formale. Una madrina, composta, garbata, aggraziata e gradevole non necessariamente impegnata ad apparire intelligente.  Dodici o più cantanti in coppia, ben vestiti, pettinati, educati. Esibizioni divise in tre serate. Prima serata, alcuni promossi, alcuni eliminati. Seconda serata, alcuni promossi, altri eliminati. Terza serata finale, il sabato, solo i promossi. Poi tre canzoni vincitrici. Senza conoscere l’esito si ascoltavano nell’ordine la terza classificata, poi la seconda, poi la prima. Tutto molto semplice, lineare, di facile lettura. Nessun ripescato, nessun calcolo cervellotico per l’assegnazione dei punteggi, nessuna alchimia che rendesse tutto comprensibile solo ai laureati in ingegneria nucleare. Chi ha più punteggio vince. Non ospiti d’onore provenienti da oltre oceano, nessun messaggio da trasmettere, nessuna valenza sociologica. Solo canzoni, ritornelli, cantanti in giacca e cravatta e donne in eleganti decolté. E tutti i fiori di Sanremo.
Il mio amico Festival veste oggi abiti diversi. E’ sofisticato, ridondante, carico, artificioso, pedante, sofistico. Ha l’aspetto di un Congresso di filosofi, il volto di un meeting di cervelloni, non è più genuino ma adulterato dal pressante bisogno di assumere un abito ideologico, di tener dietro ad una mission, quella di apportare valori alla Società, di trasmettere precetti e dottrine, di erudire  gli astanti. Se i cantanti non ci fossero sarebbe la stessa cosa. E’ un’altra persona, un saccente educatore, un dottorale pedagogo che sentenzia e pontifica da uno scanno. Una sorta di saggio moderno, un critico, un censore, un giudice.
Ma chi gli ha detto di essere cosi?  Perché un evento canoro, peraltro degno di ogni rispetto, come un vecchio canuto e stanco,  assurge a paladino del bene collettivo, diventando uno strumento di perbenismo e di epurazione?
E se pure volessimo accoglierlo per tale perché chiamarlo ancora il “Festival della canzone italiana?”