domenica 25 marzo 2018

ULTIMO APPUNTAMENTO A CAPRI- Brano tratto dal racconto "IL TUNNEL"

Al Belvedere di Tragara, al quale accedevamo per vie ogni giorno diverse, passando davanti a ville con nomi di donna o a giardini inventati su rupi scoscese, avevamo fissato, per un giorno di settembre, il nostro ultimo appuntamento che avrebbe segnato la fine delle vacanze. Ci saremmo salutati, e certamente mai più rivisti.  Era il capitolo ultimo della nostra breve ma intensa storia.
Quell’ incontro avrebbe posto fine alle nostre lunghe passeggiate, alla vista di quel mare profondo, alle ripetute ricerche della mai vista lucertola azzurra, ad un romanzo che non avrei mai scritto.
Presto lei sarebbe tornata ai civettuoli discorsi con le amiche per le vie colorate della sua metropoli padana, alle riunioni serali di nuove sfilate di moda, alle corse pazze e sfrenate su auto rosse coi sedili fascianti a fianco di montoni azzurrati profumati Trussardi. Sarebbe rimasto, di me, solo un vago ricordo da riproporre d’inverno nei noiosi racconti delle vacanze al mare, tra bigodini e profumo di shampoo durante le manipolazioni un pò ruffiane di effeminati coiffeurs.
Aspettai a lungo che comparisse, come sempre, sullo sfondo del cielo terso, con i suoi occhi luminosi e con quell'incantevole sorriso che mai più avrei dimenticato. Attesi invano finchè il sole, ormai tramontato, scivolò nel mare, nel nostro mare, mentre un canto di pescatori saliva melodioso e mesto dalla lontana marina.
Non indosso più oggi jeans e scarpe da tennis e non ho più con me il bagaglio di un tempo, lo zaino in spalla. Gli scugnizzi che mi accolgono festosi mi chiamano adesso “”signurì” oppure “‘o prufessore” e mi accompagnano lungo la stretta via che conduce a quella vecchia, cara, giovanile dimora, che rivedo dopo tanti anni con una punta di struggente rimpianto…


lunedì 12 marzo 2018

MARIA LA VONGOLARA - Brano tratto dal libro "ABITAVAMO IN VIA QUARNARO"

...Tra le scene abitudinarie una, in particolare, è sempre rimasta impressa nella mia mente e nel mio cuore in modo indelebile, non so perché. Credo per via del fatto che il personaggio di cui andrò a narrare tra breve, nella sua semplicità e nella sua naturalezza, mi pareva celare, dietro l’apparente umiltà dei modi e dietro una dimessa gestualità una sorta di fiera nobiltà, quasi come se avesse subito un incantesimo e fosse stata maledetta e trasformata da una strega cattiva. Una regina, una principessa,  un personaggio d’altri tempi condannato a vivere una vita diversa, in un ambiente non suo. Un sortilegio che l’avrebbe resa per sempre malinconica e triste, offuscando il suo meraviglioso sorriso e la lucentezza dei suoi occhi azzurri sotto il  velo di una impenetrabile afflizione.
D’estate ogni giovedì mattina, sul presto, in via Quarnaro transitava Maria “la vongolara”. Era costei una donna sulla quarantina ma, per via di una sconsolata mestizia che ne alterava le fattezze del  volto, mostrava più della sua età anagrafica. Indossava sempre una lunga gonna che arrivava ben oltre i pedali della bici sulla quale viaggiava e che era attrezzata in modo tale da ospitare, nella parte posteriore, sopra al parafango, due cassette di legno sovrapposte, coperte da un panno, e contenenti vongole da vendere. Il suo arrivo era annunciato da un grido squillante ed inconfondibile, che rintronava nel quartiere come la sirena di una nave. Maria gridava a squarciagola “Voncoleeeeeee”  (con la “c”) e le massaie spuntavano dagli usci delle case come lumache quando spiove.  Avveniva, quindi, la  fase di negoziazione e di vendita. Non so quanto riuscissero a tirare sul prezzo, che era sempre oggetto di coreografica trattazione, ma certo si otteneva qualche agevolazione in fase di pesatura, con qualche pugno più o meno generoso di vongole che Maria aggiungeva dopo aver già riempito e pesato il foglio di giornale. Le vongole, infatti, venivano raccolte in un semplice foglio di giornale (non esistevano o perlomeno lei non ne era in possesso) buste di plastica per alimenti” o tanto meno “biodegradabili” come quelle di oggi. Un foglio di giornale vecchio che serviva giusto per arrivare a casa e depositare le vongole nel lavandino dove venivano lavate per essere poi aperte sul fuoco del fornello.  Spesso, perciò, il govedì, d'estate, a pranzo si cucinavano spaghetti con le vongole e sauté di vongole aperte con un delizioso sughetto nel quale tutti inzuppavano il pane sfornato di fresco al mattino.
Maria la vongolara attirava il mio interesse e la mia attenzione per quel suo fare distaccato che ne faceva un personaggio immutabile ed enigmatico al tempo stesso. Era un’icona dell’estate. Quando compariva, in fondo alla via, preceduta da quel suo perentorio grido di richiamo io correvo a guardarla, quasi per cogliere nei routinari movimenti del suo corpo un gesto diverso che la rendesse più umana, e simile a tutti gli altri. Ma lei era diversa dagli altri. Sempre impassibile,  quasi un tutt’uno con quella bici sgangherata e sempre barcollante, per via del peso delle cassette. Il suo dire era essenziale, dagli  occhi trapelava una rassegnata malinconia, come se si fosse adattata alle vicende della vita suo malgrado, pur anelando nell’animo sorti diverse e certamente più gloriose. Perché era molto bella.  Aveva gli occhi azzurri come il mare cristallino dal quale provenivano le  vongole che vendeva, ed un portamento austero che strideva non poco con la sua immagine di umile indigenza. Piuttosto alta,  nascondeva sotto le vesti un fisico che ognuno avrebbe immaginato armonico e ben proporzionato. Lo si intuiva dai movimenti coordinati e flessuosi  delle braccia e delle gambe e dall’elegante ruotare del capo, che a volte sembrava accompagnare una musica di sottofondo che solo lei riusciva ad ascoltare.
Certo, Maria la vongolara avrebbe potuto essere un’altra persona. Questa convinzione era radicata in me e si alimentava ogni volta che mi fissavo a guardarla.
Quando transitava per la via interrompeva i nostri giochi di strada. In quel momento io mi avvicinavo timidamente ed ogni volta scoprivo particolari nuovi e diversi sulla sua persona, sugli abiti, sulla bici. Mi incuriosiva il sistema così elementare  e pratico che le permetteva il trasporto delle due cassette senza che una sola vongola finisse per terra durante il tragitto. Ma più di ogni altra cosa mi colpiva la manualità e la gestualità con cui lei preparava i cartocci, incassava il denaro, porgeva rapidamente il resto senza altro proferire. Immaginavo che Maria avesse il cuore altrove e che stesse vivendo forzosamente una realtà tanto tormentosa quanto ineludibile.  E partiva, allora, la mia fantasia di tredicenne innamorato della vita a fantasticare per lei una favola bella: l’avrei portata via con me, lontano lontano, in un paese di sogno dove il rifiorire della sua bellezza ascosa, ma non trascorsa, le avrebbe permesso di sorridere finalmente serena e lieta senza costrizioni nel suo vero mondo fatto di fulgore e di luce.

Ma tutto durava  un attimo. Terminata la fase di consegna e tornata in sella alla bici disperdeva nel vuoto le mie fantasie, con quel suo grido adamantino e possente, una sorta di brutale e prosaico ritorno alla vita che riconsegnava al suo misero stato ed ai coraggiosi giochi della mia mente la crudezza della realtà quotidiana, immutabile e definitiva...

venerdì 9 marzo 2018

L'ULTIMO BALLO

Liceo Classico Melchiorre Delfico a Teramo. Fatidico esame di Stato. Anno 1969. Come sempre accade quando un evento importante sta per dare una svolta alla vita, si viveva un clima di tensione, ma si respirava anche aria di festa, di rinnovamento, di emancipazione, di prossima libertà.  Non vedevamo, allora, la parte più angosciante dell'evento, la fine di un ciclo di spensieratezza, il punto finale di un percorso che aveva caratterizzato gli anni più belli della nostra esistenza e che andava a concludersi, a perdersi nei meandri della memoria. Una memoria che in seguito avremmo richiamato alla mente con l'animo colmo di amara nostalgia e con l'inesorabile rimpianto della nostra fantastica giovinezza, resa ancor più mirabile dal periodo storico al quale noi avemmo il privilegio di appartenere da giovani, gli anni sessanta, momento in cui tutto ciò che accadeva sembrava scaturire da una fonte inesauribile di gioia, di rinnovamento. Un'esplosione di sensazioni, di eventi, di percezioni, di commozioni. Dalla storia alla musica,  ai falò sulla spiaggia,  al suono delle chitarre,  passando attraverso i Beatles ed i Rolling Stones,  dalla ripresa economica post-bellica al primo allunaggio. Una magia che noi vivevamo in prima persona, senza avvertire tuttavia la reale portata del dono che la sorte ci aveva riservato, concedendoci di essere adolescenti e giovani in quello straordinario periodo storico.
 Come da prassi, e secondo una tradizione sempre rispettata, fu organizzato un pranzo di commiato al quale avrebbero partecipato anche alcuni professori "eletti" e, ovviamente,  tutti i compagni della gloriosa III C.
Scrivo queste righe perché un episodio accaduto quel giorno è rimasto per sempre impresso nella mia mente e nella memoria, agganciato come un quadro alla parete, nel vivissimo ricordo che il tempo, il lungo tempo trascorso, non ha minimamente attenuato né offuscato, né tanto meno nascosto  sotto il buio velo del passato.
Durante il pranzo, a Civitella del Tronto, si scherzava goliardicamente anche con i professori, in un clima di "ormai è fatta", superando  quel rispettoso distacco che, all'epoca, esisteva ancora tra studenti ed insegnanti.  Nella bella atmosfera di ilarità e di divertimento veniva di continuo alimentato un juke box che era nella stanza. Musiche anni sessanta, ovviamente, melodiche e care per accompagnare balli romantici e lenti, com'era d'uso.
 Sulle note di quelle canzoni qualcuno di noi intrecciava qualche passo di danza.
Due del gruppo, Lena e Guido, ballavano molto meglio degli altri, tanto da meritare i complimenti di tutti. E ballarono per lungo tempo,  per tutto il tempo postprandiale, fino all'ora di ripartenza, tra gli applausi , le approvazioni e gli encomi di tutti i presenti.
Durante il viaggio di ritorno per motivi fisiologici il pullman dovette fermarsi per strada presso un piccolo bar. All'interno c'era un juke box.  Qualcuno fece partire un disco, la stretta stanza fu invasa dalle note di una musica dolcissima. Lena e Guido ripresero a ballare, solo loro, in mezzo a tutti, al centro di un cerchio che si formò in modo spontaneo e naturale. E ballarono per tutto il tempo della sosta. Poi ripartimmo, arrivo in piazza Dante. Il commiato, per alcuni definitivo. Le prove orali erano programmate a scaglioni, per cui molti di noi non si sarebbero mai più rivisti dopo quel giorno. E così fu.
Gli anni sono trascorsi, il tempo l'ha fatta da padrone.  La vita, le storie, gli eventi, le scelte giuste e quelle sbagliate, i piaceri, i dolori, gli inganni, le gioie, le delusioni. Ad ognuno la sua parte di destino, tra le braccia della sorte.
Ma da sempre in me resta ferma e scolpita nella mente l'immagine di quell'ultimo lento.
Lena e Guido erano più di due compagni di Liceo che ballavano.
Erano l'ultima icona di un meraviglioso periodo dell' esistenza che si chiudeva alle nostre spalle. L'ultima cosa che avremmo fatto tutti insieme. Era la fine delle goliardiche bravate in classe, dei compiti passati sotto il banco, delle ansie, dei grandi timori per le interrogazioni, dei primi innamoramenti. Quel ballo e la musica che lo accompagnava erano l'ultima scena del film della nostra adolescenza, film che nessuno di noi avrebbe mai più rivisto, se non nella nostalgico ricordo di quei giorni spensierati, vissuti purtroppo senza la consapevolezza della loro reale meraviglia.
Da allora in poi ognuno avrebbe percorso da solo la sua strada, la via del proprio destino.
Io rivedo spesso davanti agli occhi la scena di quell'ultimo ballo tra Guido e Lena.
Era un lento:" L' ultimo oramai..."