lunedì 27 settembre 2010

I COMMENTI



La trasmissione “Striscia la notizia” smaschera continuamente truffatori, falsari, falsi medici, benzinai disonesti, politici corrotti, maghi millantatori e bugiardi, scuole guida che vendono le patenti senza esami, o con esami truccati, ed ogni altra sorta di malviventi e malfattori che vivono  di stratagemmi alle spalle delle persone ingenue ed in buona fede, ricavandone, peraltro, lauti guadagni esentasse.  

Di questa grande marmaglia, della quale tutto si sa, viene esposto al pubblico ludibrio il corrotto operato, viene dimostrato inequivocabilmente il comportamento indegno ed immorale, ma  (per motivi di privacy) viene occultato il volto  e viene camuffata la voce. Perché nessuno possa riconoscere il colpevole, degno e meritevole  di protezione.

Così il cittadino, al quale si offre il servizio di pubblica denuncia, può usufruire della conoscenza del misfatto senza sapere, però, dove e quando potrà restarne vittima. Come dire a qualcuno: stai attento perché lungo la strada cadono tegole in testa, noi sappiamo dove, ma non possiamo dirtelo.
Sicuramente il risultato è quello di mettere in guardia tutti di fronte alla possibilità di subire frodi e  raggiri, ma è anche quello di suscitare, in chi guarda quei servizi, tanta rabbia dentro, proprio per via di quella dovuta  e intollerabile impunità. 

Si resta con l’amaro in bocca, a volte reso ancor più  cocente  dalla strafottenza di coloro che,  pur se  rei confessi,  si sentono tuttavia protetti e tutelati da una normativa che, in casi di evidente flagranza, dovrebbe invece essere disattesa  e prevedere adeguate deroghe.
Non basta dire a chi viene pescato con le mani nel sacco “non lo fare più”.

sabato 25 settembre 2010

I PENSIERI E GLI AFORISMI

* C’è stato un periodo, nella mia vita, in cui ho avuto due donne. Poi ho cambiato tre carte e mi è entrato un Full.

* Anche la notte più oscura ha un’alba

* L’ ignoranza è la madre della felicità

* Stai attento a come guardi il mondo, perché il mondo è come lo guardi.


* Le cose facili diventano difficili attraverso l'inutile.

* Chi sa fa, chi non sa insegna.

* Ci sono cose vere e cose supposte. Le cose vere mettiamole da parte. Le supposte dove le mettiamo? (Totò)

* La fortuna non è sempre tutta opera del caso.

* Homo sine pecunia imago mortis

* Non si si libera di una cosa evitandola, ma attraversandola.

* Contro la stupidaggine neanche Dio può nulla.

* Come posso vivere sapendo di dover morire e come potrò morire sapendo di aver vissuto? (sdd)

LE POESIE

A colei che da  32 anni condivide al mio fianco
gioie e dolori della nostra vita



Io non so per quanto tempo ancora
ci sarà concesso di camminare a fianco
lungo questo sentiero impervio
che trae verso l’ignoto.

Avverrà che uno di noi due, un giorno,
nell’andare, diventi, suo malgrado,
di doloroso impaccio all’altro,
e che poi si arresti.

E l’altro dovrà da solo, nondimeno,
riprendere il cammino.

Io non so chi, né perché, né quando,
ma qualcuno ci dividerà.
E allora uno di noi, fatalmente,
diventerà per l’altro rimpianto struggente.

La memoria assorbirà il ricordo lentamente,
ma senza lasciarlo mai più svanire.

Io chiedo di non sopravviverti.
Ma se al tramonto tu non fossi più qui,
io ti seguirò nello stesso istante,
prima che la crudele notte sopraggiunga,
e il buio della tua assenza
mi avvolga per sempre.




TU

Quando ti crucci,
quando non mi cerchi
e volgi gli occhi altrove,
o soffochi un singhiozzo in gola.
Quando non mi parli più
e poi piangi.
Tu sei il mio odio e il mio amore,
la mia gioia e il mio rancore,
tu sei la mia nemica da amare,
la mia rivale nella vita,
la mia alba e la mia notte infinita.

RISATE IN RIMA


L’INFLUENZA AVIARIA


Contro ogni teoria veterinaria

un medico sosteneva con fervore
che l’uccello chiuso in gabbia
contrae l’influenza aviaria.
“”Ogni volatile è così detto –
il luminare ammoniva-
perché volare è sua prerogativa
e non può essere tenuto in costrizione.
Perciò è giusto che ogni uccello
in piena libertà di volo
dispieghi le sue ali al vento
per essere sempre sano e ben contento””
Il curato del paese,
osservatore attento delle regole dei preti,
era un po’ preoccupato
perché vedeva in questa teoria
la presenza di una sottile allegoria.
“”Se l’uccello è chiuso, caro dottore,
non può contrarre malattia-
opponeva da ignorante-
e quindi il tuo è un parere irritante.
Tu sostieni che, anziché astenersi,
è meglio solcare l’aria da nido a nido.
Ma quello è proprio il modo per ammalarsi.
Se te ne stai chiuso in gabbia,
non hai frequentazioni,
e vivi con decoro e con decenza
come ti viene l’influenza?”””
“””Se l’uccello non spazia nel suo cielo-
replicava il veterinario
la sua vita va in sfacelo.
E’ meglio se lo fai viaggiare.
In cattività perde il suo decoro.
Tu gli rechi oltraggio,e alteri la sua natura,
e poi non ti è facile trovarne un altro
che abbia la stessa struttura,
lo stesso piumaggio.
Che te ne fai di un uccello che non vola?
Se è solo tuo e non vede mai l’aria
Di sicuro contrarrà l’influenza aviaria..!!”””



LA DIMOSTRAZIONE


Preoccupato per la crescente sordità

della consorte il marito volle intervenire

e per fare cosa buona ed esserle d’aiuto

si recò dal dottore per riferire sull’accaduto.

“”Mia moglie non sente, non sente niente
e la cosa è assai più grave perché è pure ipovedente.
Venga con me dottore
l’accompagno a casa mia
per darle di tutto ciò una dimostrazione””

Così s’incamminarono a fianco

e quando furono a cento metri dalla casa
l’uomo,per dar prova della sua convinzione
e far vedere che la moglie non sentiva

urlò “Maria che si mangia questa sera?”

senza aver risposta alcuna.

Dopo ancora pochi metri

di nuovo riprovò alla stessa maniera:

“Maria che si mangia questa sera?”

ma neppure questa volta ebbe riscontro

nonostante l’avvicinamento

“”Vede dottore – disse convinto-

anche se urlo a squarciagola

lei non sente una parola!

Più avanti che furono volle ancora riprovare

e gridò con tutto il fiato

“Maria che cosa hai cucinato?

Non rispose nessuno.

“”La cosa è grave dottore, siamo a pochi metri

e non c’è collegamento alcuno...””

Giunti all’ingresso, con la moglie in vista,

“”“Maria che si mangia questa sera?”

le disse per la quarta volta strillando nell’orecchio

E quella di rimando

“”Lo vedi che stai diventando vecchio?
Perché urli, non ci senti?
Pasta al sugo e frittata per secondo
Sono quattro volte che ti rispondo…!!!””


 

CONFUSIONE


Ogni volta che tornava a casa ubriaco
dopo aver consumato con gli amici ogni eccesso,
il vecchio Peppe non faceva sesso,
ma si buttava sfinito sopra al letto
e s’agitava nel sonno, svegliandosi spesso.
Poi la notte si alzava
perché la prostata ingrossata
gli rendeva impellente
esperire una pisciata.
La moglie lo sentiva e si svegliava
e da tempo sopportava.
Una notte un po’ più avvinazzato
per via di una bisboccia senza pari
alla fine del campionato,
s’alzò la notte
e recatosi nel bagno
chiamò a gran voce la sua compagna:
“”Giovanna, questa sì che è una trovata,
non mi avevi detto niente,
ma che bella improvvisata!
Vado in bagno a luce spenta
per non disturbarti
e perché tu non senta
e appena apro la porta, per magìa,
s’accende una luce bianca,
che va con la pisciata in sintonia….
Come hai fatto a preparare
un congegno così sensazionale?”””

La moglie bofonchiò assai infastidita

e ancora mezzo addormentata
“”Non ne posso più,
 basta con questa pagliacciata
torna al letto, prendi un sonnifero
e smettila di pisciare nel  frigorifero…!!”””

mercoledì 22 settembre 2010

PER QUELLI CHE RICORDANO…. (Brano tratto dal romanzo autobiografico “Abitavamo in via Quarnaro”, di prossima pubblicazione)



Il chioschetto di Vivì era situato alla fine di via Quarnaro, nel punto in cui la strada confluiva (e confluisce) con Viale Orsini. Era ai margini dei “giardinetti” , proprio davanti alla Scuola elementare. Era una piccola bancarella, coperta, tipo casetta, di colore azzurro chiaro. Quando era aperta e funzionante uno dei lati si apriva a veranda e diventava una sorta di bancone per la clientela. Da uno dei lati una porticina consentiva l’ingresso all’interno. E all’interno c’era l’indimenticabile Vivì.

Era costui un uomo anziano, piuttosto malandato, vestito di abiti consunti, quasi completamente senza denti. Aveva  un braccio semiparalizzato sempre appoggiato al bancone  e  la mano destra nascosta in un guanto di lana marrone scuro, sia d’estate che d’inverno. Vendeva banane, carrube, dolciumi e dolciastri. Nella parte bassa della casetta c’era una specie di verandina a vetro e all’interno erano ammucchiati alla rinfusa confettini colorati, mazzetti di figurine, piccoli contenitori di plastica contenenti liquidi azzurrini e rosati che altro non erano che zucchero diluito e colorato. Poi palloni di plastica, girandole, caramelle. E tante altre cose ancora. Noi andavamo lì  quasi sempre per acquistare mentine bianche che non erano vendute confezionate, ma alla rinfusa. Ne compravamo dieci o venti alla volta. Vivì le rovesciava sul bancone da un barattolo di vetro  e poi le contava con la mano inguantata allontanandole una alla volta dal mucchio.

Raggiunto il numero desiderato riponeva la mentine avanzate nel barattolo (sempre spingendole con la mano inguantata). A quel punto noi potevamo raccogliere le mentine sul bancone, non prima, però, di aver pagato quanto dovuto (cinque o dieci lire, a seconda dei casi). Anche questa era un’abitudine quasi giornaliera. Soprattutto durante i mesi estivi quelle mentine erano appiccicose e spesso sporche e finivano nelle nostre mani quasi sempre sudate e luride…. Quanti anticorpi!! Non c’erano regole igieniche e se c’erano erano totalmente disattese da venditori e da clienti.


Ma si viveva lo stesso. Provate voi oggi ad andare sui massi del porto a raccogliere le cozze ed a mangiarle crude con un filo di limone spremuto. Noi lo facevamo. E nessuno di noi mai contrasse un’epatite…!

In concorrenza con Vivì c’era, sul lato opposto dei giardinetti di via Quarnaro, la bancarella di Pippo. Era collocata sul marciapiede di via Nazario Sauro ed era molto simile all’altra, sia per forma che per colore. La differenza era che Pippo vendeva, in massima parte, banane. Aveva poi qualche giocattolo e, a volte, noci di cocco tagliate a pezzi. La bancarella era più alta e disponeva di un piano rialzato che le conferiva un aspetto più dignitoso rispetto a quella del concorrente. Lo stesso Pippo era poi un personaggio diverso. Lo ricordo abbastanza alto, (o lo era per me che ero un ragazzino?), un po’ sornione, sapeva come presentare la sua merce, spesso sollecitando l’ interesse dei bambini con performances improvvisate. Antesignano di alcuni artisti di strada  presentava i giocattoli a molla facendoli girare per il marciapiede dopo averli caricati. E d i bambini facevano capannello intorno al chiosco piantando lamentose richieste ai genitori...

Mi chiedo oggi quali licenze commerciali fossero necessarie all’epoca per poter esercitare legalmente un lavoro simile o quali gabelle fossero richieste per l’occupazione del suolo pubblico. Altri tempi, maggiore libertà, tutto più semplice, burocrazia quasi zero. Eravamo tutti più felici…

lunedì 20 settembre 2010

ISOLE MENTALI

Avviene di notte, nel risveglio forzoso causato da una persistente insonnia.
Quando vorresti dormire e non puoi farlo, e allora pensi, rimugini, e voli con la mente lontano, lontano dalla realtà trascorsa del giorno prima e da quella incombente del giorno dopo. Una specie di fuga fantastica alla ricerca di entità ignote, di luoghi mai visti, di sensazioni mai provate, di sconosciute  isole mentali.
Un desiderio sempre crescente di fuggire via dalla vita senza morire,  senza alcun aiuto esterno, con la sola forza della mente libera, anzi assetata di libertà, desiderosa di volare in alto, ma così in alto da apparire come un meraviglioso mezzo di fuga, di cui vergognarsi forse,  tanta è la sua potenziale capacità di superamento dei vincoli che la legano alla realtà, sia pure a quella confusa e distorta di una notte insonne.


domenica 19 settembre 2010

QUELLA MAGICA NOTTE

Si chiamano “complottisti”. Sono gli adepti di una sorta di setta miscredente, votata a demolire quelle che loro stessi definiscono , con malcelata spavalderia, “credenze popolari” o “false convinzioni collettive”. Non credono. Ma il loro agnosticismo, in luogo di essere  rivolto a presunte verità trascendentali, attacca, in massima parte, realtà all’apparenza inconfutabili: non c’è mai stato un aereo che ha colpito le Torri Gemelle, le Piramidi furono costruite da popolazioni aliene provenienti da un’altra galassia, gli Americani nel 1969 non andarono sulla Luna. Quest’ultimo sconcertante assunto , in coincidenza con il 40° anniversario del “presunto” allunaggio, ha coinvolto, in verità, anche molta altra gente non palesemente di fede “complottista”. 
Il celeberrimo sbarco sulla luna sarebbe stato la scena fantastica di un ipotetico  film,  peraltro supervisionata dalla carismatica direzione tecnica del miglior regista dell’epoca, Stanley Kubrick. Una specie di truffa universale finalizzata a porre l’America degli anni sessanta al centro dell’intero pianeta per prestigio e potenza. La teoria complottista, a quaranta anni dall’evento, ritiene pertanto l’allunaggio di Neil Armstrong ed Edwin Aldrin nulla più che una colossale beffa, una montatura, quanto si vuole geniale, che avrebbe ingannato tutto il mondo. Insomma, una vera e propria “americanata”.

Ma chi avrebbe mai potuto credere, quella notte del 20 luglio del 1969, di essere vittima inconsapevole di un falso storico internazionale che, se scoperto, avrebbe oltre tutto sconvolto gli equilibri politici (peraltro instabili) dell’intero pianeta? L’Unione Sovietica e l’America , infatti, come due first lady alla ribalta della scena, non si sarebbero perdonate nulla . E se la Russia avesse potuto smantellare il fantomatico set cinematografico, sede delle finte riprese, nel mezzo del deserto del West, l’avrebbe certamente fatto. E di vero cuore.
Naturalmente , poiché l’ombra del dubbio deve essere sempre giustamente accolta da ogni mente aperta e poiché “”di nessuna verità si può aver certezza” non bisogna rifiutare a priori la pur risibile e per certi aspetti ridicola teoria dei complottisti. Le prove a favore e contro, d’altro canto, mirabilmente cozzano e si eludono a vicenda: non ci sarebbero state in quel tempo tecnologie in grado di consentire ad un essere umano di andare sulla Luna e, soprattutto, tali da permettergli di tornarne vivo; e ancora: dalle immagini giunte sulla Terra non si comprende perché, nonostante il cielo fosse completamente buio e privo di atmosfera, non si vede sullo sfondo nessuna stella; di contro: se davvero non ci fosse stato l’allunaggio l’America avrebbe corso il serio rischio di perdere carisma e prestigio davanti al mondo intero, e di essere comunque ignominiosamente smascherata da eventuali missioni successive che avrebbero dimostrato l’assenza, sul satellite, dei 67 Kg. di strumenti scientifici sistemati dai due astronauti sulla superficie del Mare della Tranquillità.
Quella notte del 20 luglio 1969 fu una notte magica. 
Noi diciottenni di allora, figli della ripresa economica post-bellica, figli dei fiori, nottambuli delle balere,  sempre  innamorati tra i fuochi dei falò e i sound delle chitarre, ammaliati dai Beatles, nuovi cantori di pace e di libertà, non vogliamo e non possiamo essere stati i testimoni della più spudorata, spregiudicata, spregevole ed infame beffa che la mente dell’uomo avrebbe mai potuto partorire.
Se pure i complottisti , con le loro astruse e strampalate teorie, dovessero, per assurdo, un giorno, dimostrare di aver ragione,  su questo argomento lascino  noi sessantottini  per sempre fuori dalla disputa.
Se allunaggio non vi fu  non c’importa più di tanto.
Per noi che aspettammo l’alba, il 20 luglio 1969, mentre si apriva una pagina sull’ignoto, col cuore ebbro di giovinezza e di emozione, quasi fossimo noi stessi attori e protagonisti della sensazionale impresa, e con la mente proiettata verso un futuro di stupefacenti scoperte, neanche una clamorosa smentita potrebbe mai alterare  l’immacolato ricordo di quella notte magica e piena di mistero.

sabato 18 settembre 2010

GLI ANEDDOTI (Qui troverete le storie che non sono accadute e che ho raccontato e le storie che sono accadute e che non ho raccontato)

IO CHECCO E IL DERBY

Il feedback che mi giunge da molti visitatori che si sono mostrati gentilmente disponibili a leggere la mia ultima recensione (“L’uomo che credeva di non avere più tempo “ di Guillaume Musso) evidenzia compiacimento per l’armonia letteraria dell’articolo, condivisione sull’assunto di base e quindi sulla vanità della gloria terrena davanti alla reale imminenza della morte, ma rivela pure, da parte di qualcuno, il desiderio di accedere a letture più amene, che da quell’assunto, quantunque  inconfutabile, allontanino tuttavia  la mente.
Tengo conto di tale legittima aspirazione, giustificata in chi intende, nei momenti di svago, rifuggire da tematiche che mostrino, implacabilmente, i limiti di questo nostro vagabondare terreno.
D’accordo quindi con il leopardiano “Il dilettevole è utile sopra tutti gli utili” scaturito dall’animo del poeta in momento di grande rigetto per gli uomini e per la loro aridità mentale , racconto una storia tanto vera quanto farsesca che mi vide protagonista, anni fa, insieme con l’amico mio più caro, compagno di banco alle elementari, e poi alle medie, e poi rimasto amico, di quelli che il tempo non cancella.
E’ la vigilia del derby Roma-Lazio di tanto tempo fa. Io non sono tifoso, lui non è tifoso e non ama il calcio, ma un po’ per gioco, un po’ per stare dietro ad amicizie comuni, siamo entrambi calorosamente invitati  a trascorrere una domenica diversa e decidiamo di aggregarci ad un pullman organizzato. E’ un’esperienza nuova per ognuno di noi due . Ci avvertono che il ristoro è al sacco e che ognuno deve provvedere a portare con sé l’occorrente per fronteggiare l’intera giornata, colazione, pranzo e cena. Già qui qualcosa ci suona distorto: dovendo assistere ad un incontro che inizia alle ore 14,30, perché prepararsi anche alla colazione e alla cena? Sia l’una che l’altra potrebbero ben essere consumate a casa. Capiamo che ci stiamo sbagliando quando ci viene comunicato che la partenza è fissata alle ore 5,30  dalla piazza della Stazione di Giulianova, mentre il rientro è previsto per la mezzanotte e trenta, forse anche più tardi. Qualcosa non quadra, ma non riteniamo il particolare assolutamente ostativo.

Il viaggio di andata, durante il quale sia io che Checco ci eravamo promessi di recuperare un po’ del sonno perso per la levataccia,  è disturbato dall’ininterrotto concerto a sessanta voci di tutti i viaggiatori, esclusivamente tifosi di fede romanista, che cantano a squarciagola inneggiando alla disponibilità sessuale delle madri dei laziali ed evidenziando con grande folklore la copiosità delle relazioni extraconiugali delle loro mogli. Per non apparire di fede opposta, anche in considerazione del fatto che Checco, ignaro, indossa inopportunamente e pericolosamente una camicia celeste con i bordi bianchi, siamo costretti ad unirci al coro, con grande imbarazzo e con molta forzatura, andando in play back e muovendo in modo goffo le labbra, fingendo sommo entusiasmo.  
L’arrivo davanti allo Stadio Olimpico avviene alle ore 9,30, il che ci lascia ben sperare in qualche ora di libertà, da trascorrere magari in un bar davanti ad una ricca colazione. Ma non è così. Il tempo di scendere dal pulmann e siamo tutti vigorosamente sospinti nella stessa direzione. “”Corri, corri” gridano tutti a Checco che resta indietro sbigottito guardando l’orologio. “”Ma mancano cinque ore ..!!!”” “”Correte, correte”” ribadisce il capo- tifoso al megafono mentre veniamo trascinati e indirizzati a forza in direzione dello Stadio. Si corre affannosamente per circa quindici minuti. Quando accediamo all’interno dell’Olimpico tutte le scalinate e le tribune sono deserte, ad eccezione di una piccola porzione di curva, già affollata. “”E’ lì che dobbiamo andare”” sancisce il capo-tifoso che, intanto, si è avvolto in una bandiera giallorossa dalla testa ai piedi.  Suggerisco a Checco di fare altrettanto e di abbandonare per strada la sua camicia celeste e lui resta con la maglietta intima, di lana. Acquisto una bandiera giallorossa e gliela butto addosso, a mo’ di mantello.
Con somma fatica riusciamo a sistemarci tra alcuni facinorosi impegnati ad inviare urla e gestacci alla curva opposta dalla quale, di ritorno, arrivano cori, insulti, offese, allusioni in merito alla  scarsa potenzialità sessuale di chi tifa Roma e  richieste di incontri per il dopo partita, non certo per un amichevole terzo tempo.
Checco sistema il piccolissimo zainetto, contenente i nostri panini, al suo fianco. Ma dura poco. Dal basso un aitante tifoso indica  quel minuscolo spazio, poco più di 15 centimetri, e urla con veemenza”E’ libero quel posto?” Senza aspettare risposta sale su, invitando un suo amico a seguirlo e poi insieme, ignorando la legge dell’impenetrabilità dei corpi, si sistemano accanto a noi.
Non riusciamo a consumare la colazione al sacco perché il sacco, compresso tra i deretani della folla, non può essere aperto. Rinunciamo. Inizia la partita.
Dalla nostra postazione, data la lontananza, i calciatori sembrano formichine vaganti, ma nonostante ciò, il nostro vicino, evidentemente dotato di vista superiore, ravvisa un fallo di mani sfuggito all’arbitro e, istintivamente, afferra la prima cosa che gli capita a tiro (la radiolina che Checco aveva all’orecchio, per ascoltare musica, dato il suo disinteresse per la partita) e la scaglia con violenza in direzione del direttore di gara. Attesa l’enorme distanza, però, colpisce solo uno spettatore della gradinata inferiore che inferocito sale precipitosamente verso di noi e strappa l’auricolare dall’orecchio di Checco sferrandogli uno spintone che lo fa barcollare ma non cadere per via del totale contatto con altre masse corporee. Recuperare la radiolina neanche a pensarlo.
Inizia a piovere. Previdente quant’altri mai l’amico Checco ha sempre con sé un ombrello di quelli chiudibili, comodissimo, adatto ad ogni occasione. E’ la volta buona per usarlo e per evitare una inopportuna e dannosa bagnata. Il tempo di aprire l’ombrello, e quindi di limitare parzialmente la visibilità ad alcuni spettatori delle gradinate superiori e, a riprova della grande spontaneità della gente ciociara, arriva dall’alto una scaricata di mondezza mista, contenente bucce di banana, avanzi di pane , tranci di mortadella, bucce di frutta varia e bicchieri di carta usati.
 Il messaggio, peraltro assai più efficace e persuasivo del tradizionale e conformista invito a chiudere l’ombrello, ci costringe a continuare a gustare l’incontro sotto l’acqua che scroscia, e ad invidiare palesemente chi siede sulle poltroncine della tribuna coperta. La bandiera che avvolge il mio amico si dimostra assai presto inadatta a proteggerlo: la sua maglia di lana si impregna d’acqua ed inizia a diffondere un odore diverso da quello della lavanda. Quando la Roma segna l’unico gol della partita sia io che lui siamo costretti ad abbracciare alcuni vicini che sono in preda ad una sorta di incontenibile delirio. Nonostante la pioggia sferzante Checco è obbligato a svestire la bandiera e ad agitarla  in segno di gioia esponendosi ancora di più alle intemperie.
E’ finita. L’altoparlante annuncia che per motivi di sicurezza i tifosi della curva romanista lasceranno lo stadio per ultimi. Sono le 19,30 quando inizia la lenta marcia di uscita, accompagnata, sotto la pioggia,  da cori e danze tribali che si protraggono fino a tarda notte. Forse per atavico rigetto nei confronti delle massive esplosioni di gioia non riusciamo a godere appieno di quegli indimenticabili momenti di felicità  e ci appartiamo in un angoletto a consumare quel che resta di alcuni panini inzuppati d’acqua e compressi come sogliole.
Poi si riparte. E’ passata la mezzanotte. Ma sul pullman “nessun dorma”. Riprendono canti e cori, urla di gioia, grida isteriche, commenti e lodi sperticate ai giocatori.
Arriviamo alla stazione di Giulianova alle ore 2,30 del mattino.
Prima di lasciarci,  solo un laconico commento del mio amico, visibilmente provato, non credo per via dell’emozione che scaturisce dalla vittoria della Roma : “” La prossima volta la partita la guardo in televisione. Ma, come dicono tutti,  sicuramente sarà un’altra cosa…””-

venerdì 17 settembre 2010

SCUOLA DI CAMPAGNA (Premio speciale della Giuria al Concorso Letterario "Il Faro" anno 2010)

Il primo impatto, entrando in aula, quei freddi mattini d’inverno, era con l’aria greve e fumosa, mescolata all’olezzo acre delle cartelle di cuoio e al sapore  dolciastro del legno dei banchi che ti entrava dentro come  una cara abitudine, come se nessun’altra realtà fosse mai stata possibile. Era la consueta routine di ogni giorno e tutto faceva parte di quel quadro che non poteva avere colorazioni o sfumature diverse. Si accedeva dalla soglia erbosa, d’inverno fango e poltiglia, sul pavimento di mattoni sconnessi. Subito, a destra la lavagna coi gessi e la pezzuola, poi la stufa di terracotta, e i ceppi di legna da ardere, rigorosamente gestiti dalla maestra, con sapiente moderazione. L’unica lampadina, al centro della stanza, lurida di polvere, collegata ad un interruttore di ceramica attraverso un filo di rame rivestito di stoffa ed intrecciato, visibile, fissato al muro con i chiodini.

Non avevo ancora sei anni e non ero scolaro, ma figlio della maestra. Un po’ la mascotte di tutti quei miei primi amici d’infanzia che mi volevano accanto a loro, su quei banchi intrisi di un miscuglio di odori, prevalenti uno sull’altro in modo imprevedibile, casuale. Formaggio, mortadella, salame,  accuratamente approntati tra due fette di pane casereccio, di quello cotto nei forni a legna della campagna, vera regina di quella fantasmagoria di sensazioni. La campagna umida e fredda d’ottobre  e poi miracolosamente illuminata dai colori e dai profumi della primavera e inesorabilmente soffocata dal caldo dei  primi, eppure torridi, giorni di giugno, quando la scuola stava per chiudere.

La scuola di campagna. Una stanza piccola. Dieci banchi di legno per venti scolari  avvolti nel nero dei grembiuli sporchi, coi colletti bianchi sgualciti e i fiocchi azzurri  sempre liberi e sciolti. Sotto i banchi le cartelle di cartone pressato, qualcuna di cuoio. Sui banchi i calamai pieni a metà di inchiostro bleu scuro e le carte assorbenti sempre macchiate. I pennini spuntati. Sulla cattedra la bacchetta di legno per i “cattivi”.
Non ho l’età per essere in ”prima”. Ma da tre anni seguo la maestra perché a casa non c’è nessuno e non sa a chi lasciarmi. So leggere e scrivere da due anni, ne so più io che il primo della classe.
La voce di mia madre, stentorea e ferma, eppure materna: quelli di prima e di seconda prendano il quaderno a quadretti, quelli di terza preparino il libro di lettura, quelli di quarta e quinta ripassino la poesia, ma  a bassa voce,  senza disturbare. E io? Ascolto, guardo,  aste, cerchietti con la matita sul “mio” quaderno. Ma so scrivere già  come gli altri e quella poesia, a sentirla tanto, ogni giorno, l’ho imparata anch’io a memoria. “O cavallina cavallina storna che portavi colui che non ritorna….” So io come andare avanti ora che lui non ricorda… Vorrei , ma non posso. Ho l’obbligo di non disturbare durante le lezioni. Devo fare le aste, o posso colorare. Ma mi piace guardare le figure del sussidiario. Solo la pagina aperta sul banco, non posso toccare, ma per conto mio leggo. Qualche parola mi pare di capire,  il resto non so, leggo ma non capisco. Dura poco. Mi distrae la figura di mia madre alla lavagna. Il gesso sibila, lei lo spezza. Il suo grembiule nero diventa un po’ bianco, come quando la domenica mia nonna si sporca di farina quando lavora la massa per la pasta. Che buffa mia mamma, sembra cattiva con i bambini della classe perché ha la voce forte ed imperiosa. Con me, a casa è più buona.

Vorrei assaggiare uno dei confetti che le ha portato stamattina Michele del terzo banco, stringendoli nella mano nera di polvere e di terra. Sono quasi neri, e bagnati di sudore. Mia madre ringrazia, gli dà un bacio, lo accarezza. Ripone i confetti nel cassetto della cattedra. Io chiedo, piango, strillo. No, mi guarda in modo definitivo. No. Perché non vuole che io ne prenda uno? A casa è più buona. Qui comanda tutti e nessuno piange, nessuno protesta. Parlano piano tra loro, temono, nessuno sbuffa. Io sì, e loro ridono in modo sommesso.

Dalla piastra della vecchia stufa si spande per l’aria l’ennesimo aroma. E’ il caffè per la maestra che giunge a bollore nella piccola caffettiera. Ora si mangia. Tutti mi offrono piccole porzioni delle loro riserve scartate dai  fogli di giornale  e per l’aria si spande un effluvio di olezzi che  impregna ogni più recondito  angolo. Qualche quaderno s’imbratta inesorabilmente e richiede un immediato intervento. Si strappa un foglio, in gran segreto, perché la maestra non sappia. Io vedo, capisco, guardo verso mia madre che non ha visto, o forse sì, ha capito, ha finto di non vedere. Dalla stufa esce fumo, dalla finestra appena socchiusa giunge il sapore schietto della brezza autunnale, intriso del profumo della terra,  resa umida dal lento piovigginare. E giunge qualche suono dalla strada bianca sulla quale transita cigolando un carro trinato dai buoi. Poi il secco rumore della finestra che si chiude interrompe bruscamente quel suggestivo intervallo di sensazioni.

Ora cadenzate e lente giungono le parole della maestra  seduta in cattedra. Parla, parla, quella voce si fa più debole, più lontana, poi si dissolve, poi ricompare, lenta, confusa, distante, poi di nuovo scompare. Col capo reclino sul banco respiro il profumo forte del legno che sa d’inchiostro e di grafite, del sapore dolce dell’attaccatutto con cui a casa ripariamo i soldatini di piombo, della plastica dei miei giocattoli riposti nella scatola di cartone, vicino al mio letto. Colori, luci, tratti dalla tavolozza dei miei sogni infantili. Mi sveglia per un attimo un cane che abbaia, o l’improvvisa voce della maestra che interrompe l’uniformità  del tono per richiamare qualcuno che non ascolta, o che parla  piano, o che non segue. Io no, posso dormire, ascoltare, o non ascoltare, scrivere o non scrivere, colorare o non colorare. Che posizione di gran privilegio rispetto agli altri. Perché? Perché la maestra è mia madre. Ho qualcosa in più degli altri, una libertà che mi invidiano, un potere che nessuno osa contrastare.

Sulle pareti di bianco sporco,  quelle tabelle  consunte, appese una accanto all’altra. C di cane, D di dado…..F di foglia…ripetono  in coro quelli di “prima” . Acqua passata, per me, mi annoio a sentirli, ormai riconosco bene figure e lettere. Mi appassiona di più la storia di quel tale che bruciò la sua mano perché aveva fallito il colpo, o di quell’altro che fu rotolato da una rupe, dentro una botte irta di chiodi. Ascolto,  memorizzo, imparo. Tutto senza fatica, senza ansia. Per me non esiste rimprovero, non c’è punizione. All’occorrenza la maestra torna ad essere mamma , non ho l’obbligo di apprendere, ogni  informazione è registrata quasi a livello inconscio, ma accresce, nondimeno, la mia conoscenza.

Oggi è primavera, oltre l’uscio della piccola stanza la campagna, al di là della strada bianca, è impregnata di aromi e di mille fragranze. Entra il  padre di uno degli scolari e chiede  a mia madre il permesso di portarmi fuori, su un carro pieno d’erba falciata di fresco, trainato dai buoi. Mi lega sul capo un fazzoletto annodato ai quattro angoli. Poi il profumo forte di quell’erba mi penetra dentro  le narici  è rimarrà per sempre nei miei futuri ricordi come un momento ineffabile legato a quei giorni ormai lontani. Non parlo, o forse non ricordo di averlo fatto: Oggi mi torna a mente quel lento procedere, gli scossoni del carro sulle zolle, l’immacolato candore di quei mattini di aprile, il rientro in classe, per qualche minuto ancora, prima che tutti escano dalla scuola..
La giornata è finita. Si torna a casa. La strada bianca, da percorrere a piedi fino alla fermata dell’autobus piccolino, tutto impolverato. La fame, la nausea del breve viaggio da sopportare col sole che batte sui vetri sporchi, quel senso di malessere continuo per via delle curve.
Scuola di campagna.
Gli anni miei più belli.

LE RECENSIONI

IL SOLE D'AMERICA


Nasce nello scrigno riservato di intime memorie l’ordito di un romanzo-verità, opera  di una scrittrice emergente assurta agli onori della letteratura contemporanea dopo aver ottenuto, nel 2003,  in aggiunta a precedenti lusinghieri premi letterari, anche un importante riconoscimento  di notevole rilievo come il Premio Strega. Con “Vita” Melania Mazzucco, dopo significative esperienze maturate nel settore della narrativa, ma pure in quello della  sceneggiatura cinematografica, punta i riflettori, in modo discreto ma non meno avvincente, su  coloro che , all’inizio dello scorso secolo, varcarono l’Oceano per andare a trovare migliori fortune, e forse la ragione stessa di esistere, nella lontana America, allora oggetto delle più fantasiose elucubrazioni oniriche.

Vicende, sogni, speranze, illusioni infrante. Nel magico caleidoscopio della scrittrice romana tutte le sensazioni si mescolano all’interno di un percorso narrativo che trae materia, a piene mani, da una vicenda autobiografica, rivissuta capitolo per capitolo scavando non solo nella memoria, ma anche tra i documenti originali di una anonima epopea familiare.
Vita e Diamante, questi i nomi dei due protagonisti, rappresentano l’emblema di un periodo storico fin troppo contrassegnato dalle chimeriche aspirazioni di milioni di emigranti, abbacinati dal miraggio di un futuro illuminato dal sole americano non meno che delusi dal successivo tramonto delle proprie illusioni.
Tra i  vicoli di New York, nei cui oscuri meandri prolifera la miseria di uomini e donne, tutti  provenienti dalle stive di una nave,  la storia dei due ragazzini , vera ed intensa, si riannoda alle vicende familiari dell’autrice, rivissute  a volte in modo surreale, ma non meno intrise di partecipazione affettiva, a riprova che esse sgorgano direttamente dalla fonte inesauribile della rimembranza.

Melania Mazzucco muove le fila della narrazione con sapiente maestria, modulando i toni della crescente tensione emotiva quando si avvede  di aver toccato a fondo la sensibilità di chi legge. E’ allora che introduce documentazioni  storiche, frutto di attente ricerche condotte rovistando tra archivi ed emeroteche, ma anche sul campo, traendo spunti dagli aneddoti rievocati dal padre, talora da lui stesso fantasiosamente elaborati, un po’ fiabeschi, spesso anche inverosimili, (ma “solo ciò che viene raccontato è vero…”), oppure andando a  spulciare la corrispondenza dell’epoca  o a esaminare i registri di imbarco e sbarco delle navi. In questa continua alternanza di storia e memoria, sublimata  dal riuscito accorgimento di velare il tutto in un’ambientazione onirica e surreale, sta il valore precipuo del romanzo, profondo ed avvincente in ogni sua parte.


Ai fini di un giudizio comparato, volendo cogliere l’aspetto meno suggestivo della scrittura, si potrebbe forse rilevare una certa  gravosità proprio nella parte strettamente documentale, sotto il peso della quale scricchiola, a tratti, la fluidità espositiva, soverchiata dalla pletorica elencazione di  nomi date e luoghi che non rende giustizia all’assunto di base, risultando talora pleonastica nel disegno narrativo originario.

  Ma si tratta di  sofismi che non minano la robusta corposità  di un’opera  suggestiva, imperniata sulla trasposizione di una storia cruda e intensa , rivisitata  in modo da rendere emozionante la vicenda dei due piccoli emigranti, impegnati per non veder svanire nel più evanescente disincanto i loro sogni e la speranza di apprendere, di crescere, di uscire per sempre dall’anonimato  e dal buio della miseria.
E’ la ricerca ostinata, caparbia, irrinunciabile, di portare a termine un viaggio iniziatico fino a penetrare nel cuore di un vagheggiato quanto ineffabile paradiso:  un’  ”” America che non esiste, io lo so perché ci sono stato””.
Il  grande miraggio,  la meta agognata, la visione onirica  della cui esistenza è paradossalmente lecito dubitare.

 “”VITA””
Melania  G. Mazzucco
Ed. Rizzoli – pagg. 396
Premio Strega 2003



NO, NON E' UN UOMO

Un libro-verità può apparire pesante, non godibile, magari fuori luogo per un’amena lettura, rilassante ed estiva, sotto l’ombrellone. Ma un libro-verità può anche servire, e molto, come riferimento per apprezzare ancora di più la libertà di cui si dispone, il benessere incondizionato che non conosce impedimenti o limitazioni, insomma quel free live che sembra sempre scontato e dovuto, patrimonio intoccabile di ciascuno. Molti avranno letto l’opera più importante di Primo Levi e probabilmente questa  modesta recensione potrà allora risultare pleonastica, ove non del tutto inutile, data la notorietà del testo e la sua meritata e diffusa fama in tutto il mondo.
Eppure presentare “Se questo è un uomo” appare doveroso, non fosse altro che per fornire una traccia, magari alle nuove generazioni, su uno degli eventi storici più umilianti per l’umanità da quando essa è comparsa sul pianeta Terra. Chi non ha più vent’anni si accosta  alle prime pagine del volume con un senso di sgomento, quasi con angoscia, come se non volesse davvero sapere tutto, come se preferisse non conoscere i particolari, tenere la testa sotto terra, far finta di nulla, credere che sia stato tutto un gioco. Ma poi, a poco a poco, si entra, condotti per mano dall’autore, in una dimensione  tormentosa e inquietante, con l’animo di chi si sente coinvolto come se fosse egli stesso colpevole, in parte responsabile di ciò che è accaduto, di ciò che è davvero accaduto in uno dei campi, vicinissimo ad Auschwitz, ove Primo Levi,  chimico ebreo torinese, fu detenuto per un anno e da cui tornò,  dopo essere scampato,  Dio sa come, alla comune e fatale sorte di tutti gli altri compagni di prigionia.
La narrazione, diario crudo e schietto,  procede senza sfumature e nulla concede alla fantasia. Tutto è terribilmente vero e tutto è riferito in modo autentico, a volte spietato, fino a far male. Una realtà che si vorrebbe eludere, un film che si vorrebbe non vedere e che pure si guarda con la consapevolezza che nulla di peggio potrà mai accadere, fino ad essere clamorosamente smentiti dalla scena successiva, ancora più terribile,  e poi da un’altra ancora, in una serie di eventi esecrandi ed ignominiosi, pietosi e ripugnanti.
Un libro che dovrebbe essere adottato nelle scuole come testo storico di riferimento e letto come diario spirituale di un uomo che ha toccato con mano l’essenza più riprovevole della razza umana, uscendone fisicamente logorato e distrutto nell’animo, per sempre segnato dal gravame e dall’afflizione dei ricordi, svuotato dentro, non più capace di un sorriso fine a se stesso.  E da quello stato di inerzia scaturisce la disillusione più profonda che sublima in espressioni che non lasciano spazio ad alcuna speranza di ripresa :“”Non è dato all’uomo di godere gioie incontaminate””. Dopo la cupa esperienza non c’è margine per guardare il mondo come prima e lo stato di sconforto culmina nella funesta decisione di chiudere presente e passato nel gesto più eclatante, vera panacea ad ogni residuo ricordo, finale scontato di una vita diversa dalle altre. Primo Levi muore suicida nel 1987, annientato dalle vicende , sopraffatto dagli eventi, ma senza odio o rancore verso l’origine del suo male, descritto sempre come un’entità astratta ed ineluttabile, di cui rappresenta la portata senza commentarla  e senza  assurgere al pur facile ruolo di vittima sacrificale.
Descrivendo l’indescrivibile egli mostra i più reconditi istinti della natura umana, quelli feroci e indicibili, forse latenti in ciascuno e destinati ad emergere in situazioni di particolare criticità. Certo il dubbio palesato in copertina, riguardo ad un’opera che non conobbe immediata fortuna tra gli editori, resta immutato ed indenne fino alla lettura dell’ultima pagina. E se mai qualcuno volesse, alla fine,  rispondere davvero, dovrebbe in tutta coscienza riconoscere che “no, questo non è un uomo….”
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IL SENSO DELLA VITA
Cosa accadrebbe a chi all’improvviso dovesse accorgersi di aver ingiustamente dedicato la propria vita al conseguimento di  effimeri valori che con le loro false lusinghe gli hanno appannato per lungo tempo la capacità di discernere il bene dal male, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, costringendolo a voltare le spalle alla vera felicità per inseguire illusorie chimere?  E come reagirebbe un professionista affermato e famoso se un giorno qualsiasi nel suo vissuto quotidiano apparisse uno sconosciuto in grado  di saper riconoscere le persone prossime alla morte?

Già nelle prime pagine del suo avvincente romanzo Guillaume Musso pone indirettamente il lettore davanti a queste insolite domande, coinvolgendolo in una situazione di assoluta stravaganza. Ma a Nathan, protagonista della storia, tutto ciò accade realmente. Avvocato ricco e famoso, “brillante ed orgoglioso di sé”, si trova, uno strano mattino della sua esistenza, a dover riesaminare la propria vita, poiché per la prima volta è costretto  a considerarne, come imminente, la fine. Un indesiderato e sconvolgente annuncio che gli giunge velatamente (e poi si scoprirà perché) da un fantomatico personaggio, medico,  accreditato del potere di individuare gli esseri umani prossimi ad abbandonare la propria esistenza terrena. Per il protagonista della vicenda l’evento equivale, e qui la cruda universalità della storia, a dover sentire per la prima volta come realmente possibile, anzi prossimo, il definitivo ed irrevocabile abbandono del castello di potere costruito accumulando nel corso degli anni successi professionali, conquiste sociali, immagine, gloria e soprattutto tanto denaro. Beni che all’improvviso, davanti alla concreta possibilità della morte, diventano futili ed eterei, apparenti, falsi ed illusori,  in una parola inutili. Assumono di contro carattere di autenticità altri valori che la sete ingorda di fama e di potere ha sepolto sotto il cumulo dell’egoismo: nel caso di Nathan si tratta del rapporto con la moglie, guastato per sempre da un inevitabile divorzio, conseguenza logica del  tanto, troppo tempo dedicato al lavoro ed alla carriera professionale. Ma ancor più del rimpianto per le occasioni e le opportunità perdute di poter trascorrere momenti della sua vita accanto alla figlia Bonnie , sempre amata, ma tralasciata, dimenticata, messa da parte per lasciare spazio alle lusinghe di una fulgida carriera forense.
L’incontro con Goodrich, medico dotato di quell’angustiante capacità paranormale, costringe Nathan a riesaminare il proprio vissuto, non senza drammatiche concessioni ad un feroce rimpianto, esacerbato dall’ineluttabilità di alcune scelte trascorse, ed ora inutilmente rievocate. La  spietata universalità del racconto coinvolge chi legge proprio per via della vessante globalità del messaggio. Il tema della futilità di ogni bene terreno,da ciascuno sepolto sotto l’immane massa del successivo evolversi degli eventi quotidiani, emerge in modo scomodo, irritante, fastidioso, suscitando un forte desiderio di rifiuto, ma al tempo stesso un’  inevitabile sottomissione. Il momento della redenzione esplode in tutta la sua deflagrante potenza  suscitando nel lettore retoriche, ma drammatiche domande sulla reale valenza di alcuni stereotipi della vita di oggi: cosa rappresentano ricchezza, potere, agi, lusso, fama, gloria, prestanza fisica, nel momento in cui una persona che ha la possibilità di farlo, ti comunica la data, imminente, della tua morte?  Un fantastico quanto inatteso finale non libera la mente da un’ ingombrante inquietudine che dovrebbe risultare di ausilio a qualcuno per valutare con occhi diversi il vero senso della propria vita.

Un libro che si può leggere al mare, sotto l’ombrellone, perché l’atmosfera serena e frivola della vacanza consente un approccio mediato e più distaccato con la pregnante immanenza del messaggio.
 Ciò può aiutare a mitigare,  ma non ad eludere, una comunque benefica e catartica angoscia.
                                                                                                            
                                                                                                           
“”L’uomo che credeva di non avere più tempo”
Guillaume Musso
Trad. di Fabrizio Ascari
Ed. Rizzoli – pagg. 372

(tratto dalla Rivista bimestrale  "Crescere"- anno 2010)