lunedì 8 novembre 2021

QUELLA VOLTA ALLO STADIO

In piena sintonia con il leopardiano "il dilettevole è utile sopra tutti gli utili" , scaturito nell'animo del poeta in un momento di grande rigetto per gli uomini e per la loro aridità mentale, racconto ai miei cari e fedeli lettori una storia tanto vera quanto farsesca che mi vide protagonista, tanti anni fa, insieme con l'amico mio più caro, compagno di banco alle Elementari, e poi alle Medie, e poi rimasto amico, di quelli che il tempo non cancella... E' la vigilia del derby Roma-Lazio, di tanto tempo fa. Io non sono tifoso, lui non è tifoso e non ama il calcio, ma un po' per gioco, un po' per stare dietro ad amicizie comuni, siamo entrambi calorosamente invitati a trascorrere una domenica diversa e decidiamo pertanto di aggregarci ad un pullman di tifoseria organizzata alla volta di Roma per assistere al derby Roma -Lazio. E' un'esperienza nuova per ognuno di noi due. Ci avvertono che il ristoro è previsto al sacco e che ognuno deve provvedere a portare con sè quanto occorre per fronteggiare l'intera giornata, colazione, pranzo e cena. Già qui qualcosa ci suona distorto: dovendo assistere ad un incontro che inizia alle 14,30, perchè prepararsi anche alla colazione ed alla cena? Sia l'una che l'altra potrebbero ben essere consumate a casa al ritorno. Capiamo che ci stiamo sbagliando quando ci viene comunicato che la partenza è fissata alle 5,30 del mattino dalla piazza della Stazione di Giulianova e che il rientro è previsto per la mezzanotte e trenta, forse anche più tardi... Qualcosa non quadra, ma non riteniamo il particolare assolutamnente ostativo. Il viaggio di andata, durante il quale sia io che il mio amico Pippo (non è questo il suo vero nome, ma preferisce mantenere l'anonimato) ci eravamo promessi di recuperare un po' del sonno perduto per via della levataccia, è disturbato dall'ininterrotto concerto a sessanta voci di tutti i viaggiatori, esclusivamente di fede romanista, che cantano a squarciagola inneggiando alla disponibilità sessuale delle madri dei laziali ed evidenziando, con grande folklore, la copiosità delle relazioni extraconiugali delle loro mogli. Per non apparire di fede opposta, anche in considerazione del fatto che Pippo, ignorando i colori sociali delle squadre di calcio, indossa inopportunamente e pericolosamente una camicia celeste con i bordi bianchi, siamo costretti ad unirci al coro , con grande nostro imbarazzo e con molta forzatura, andando in play back e muovendo in modo goffo ed anomalo le labbra, fingendo sommo entusiasmo... L'arrivo davanti allo Stadio Olimpico avviene alle ore 9,30, il che ci lascia ben sperare in qualche ora di libertà, da trascorrere magari in un bar, davanti ad una ricca colazione. Ma non è così... Il tempo di scendere dal pullman e siamo tutti vigorosamente sospinti nella stessa direzione. ""Corri, corri"" gridano tutti a Pippo che resta indietro sbigottito guardando l'orologio. "Ma mancano cinque ore...!!" ""Correte, correte" ribadisce il capo tifoso al megafono mentre veniamo trascinati a forza verso lo Stadio. Si corre affannosamente per circa quindici minuti. Quando accediamo all'interno dell'Olimpico tutte le scalinate e le tribune sono deserte, ad eccezione di una piccola porzione di curva, già affollata. ""E' lì che dobbiamo andare" sancisce il capo tifoso che, intanto, si è avvolto in una bandiera giallorossa dalla testa ai piedi. Suggerisco a Pippo di fare altrettanto e di abbandonare per strada la sua pericolosa camicia celeste e lui resta con addosso la maglietta intima, di lana. Acquisto da un venditore ambulante una bandiera giallorossa e gliela butto addosso, a mo' di mantello. Con somma fatica rusciamo a sistemarci tra alcuni facinorosi impegnati ad inviare urla e gestacci verso la curva opposta dalla quale, di ritorno, arrivano cori, insulti, offese, allusioni in merito alla scarsa potenzialità sessuale di chi tifa Roma e richieste di appuntamenti per il dopo partita, non certo per un amichevole terzo tempo... Pippo sistema il suo piccolissimo zaino, contenente i nostri panini, al suo fianco. Ma dura poco. Dal basso un aitante tifoso indica quel minuscolo spazio, poco più di quindici centimetri, e urla con veemenza "E' libero quel posto?". Senza aspettare risposta sale su, invitando un suo amico a seguirlo e poi insieme, ignorando la legge dell'impenetrabilità dei corpi, si sistemano accanto a noi. Non riusciamo a consumare la colazione al sacco perchè il sacco, compresso tra i deretani della folla, non può essere aperto... Rinunciamo. Inizia la partita. Dalla nostra postazione, data l'enorme lontananza dal terreno di gioco, i calciatori sembrano formichine vaganti, ma nonostante ciò, il nostro vicino, evidentemente dotato di capacità visiva estremamente superiore alla norma, ravvisa un fallo di mano sfuggito all'arbitro e istintivamente, afferrando il primo oggetto che gli capita a tiro (la radiolina che Pippo aveva all'orecchio per ascoltare musica, atteso il suo totale disinteresse alla partita), e la scaglia con violenza in direzione del direttore di gara. A causa dell'enorme distanza, però, colpisce in pieno al capo uno spettatore della gradinata inferiore che, inferocito, sale precipitosamente verso di noi e strappa l'auricolare dall'orecchio di Pippo sferrandogli uno spintone che lo fa barcollare, ma non cadere, per via del totale contatto con altre masse corporee... Recuperare la radiolina nenanche a pensarlo. Inizia a piovere. Previdente quant'altri mai l'amico Pippo ha sempre con sè un ombrello di quelli chiudibili, comodissimo, adatto ad ogni occasione. E' la volta buona per usarlo e per evitare un'inopportuna e dannosa bagnata. Il tempo di aprire l'ombrello, e quindi di limitare parzialmente la visibilità ad alcuni spettatori delle gradinate superiori e, a riprova della grande spontaneità della gente ciociara, arriva dall'alto una scaricata di mondezza mista, contenente bucce di banana, avanzi di pane, tranci di mortadella, bucce di frutta varia e bicchieri di carta usati. Il messaggio, peraltro assai più efficace e persuasivo del tradizionale invito a chiudere l'ombrello,ci costringe a continuare a "gustare" l'incontro sotto l'acqua che scroscia abbondante, e ad invidiare palesemente chi siede sulle poltroncine imbottite della tribuna coperta. La bandiera che avvolge il mio amico si rivela assai presto inadatta a proteggerlo: la sua maglia di lana, intrisa d'acqua, inizia a diffondere un odore diverso da quello della lavanda... Quando la Roma segna l'unico gol della partita sia io che Pippo siamo costretti ad abbracciare alcuni vicini che sono in preda ad una sorta di incontenibile delirio... Nonostante la pioggia sferzante il mio amico è costretto a svestire la bandiera e ad agitarla in segno di gioia, esponendosi ancor più alle intemperie. E' finita. L'altoparlante annuncia che per motivi di sicurezza i tifosi della curva romanista lasceranno lo stadio per ultimi. Sono le 19,30 quando inizia il lentissimo esodo, accompagnato, sotto la pioggia, da cori e danze tribali che si protrarranno fino a tarda notte. Forse per atavico rigetto nei confronti delle massive esplosioni di gioia, non riusciamo a godere appieno di quegli indimenticabili momenti di felicità collettiva e ci appartiamo in un angoletto riparato per consumare quel che resta dei nostri panini inzuppati e compressi come sogliole. Poi si riparte. E' passata la mezzanotte. Ma sul pullman "nessun dorma".Riprendono canti e cori, urla di gioia, grida isteriche, commenti e lodi sperticate ai giocatori per tutto il viaggio di ritorno. Arriviamo alla stazione di Giulianova alle 2,30 del mattino. Prima di lasciarci, solo un laconico commento del mio amico, visibilmemnte provato, non credo per via dell'emozione che scaturisce dalla vittoria della Roma: "la prossima volta la partita la guardo in televisione. Ma, come dicono tutti, sicuramente sarà un'altra cosa..."

sabato 28 agosto 2021

LU NONNE MARENARE

Nonne e nepote guardave lu mare e se tenave pe mà, sotto a lu fare. 
 Lu vicchie arcuntave de lu tempe sò 
quanne passave li iurne ntire sopra a na barche 
e quanne venave lu tempacce lu vente e la bufere, 
li lampe, li tune e l’acque gelate ca ie taiave la facce: 
“ Lu pesce poche e nind, sole lu fredde assà, 
e li borse de corde ca se fracecave sotte a l’onne. 
Li strille, li biastome e li preghire a nu die ca parave ngiuste. 
Nisciune però se lamentave peccò osse ere marenare. 
Quolle ere lu mistire e addre nce ne stave””” 
Lu guaiune sentave sti parole 
e vedave ca lu nonne se gerave de rete
 peccò tenave li lacreme all’ucchie.
 Allore ie stregnave lla mà ca ere grosse e toste come na prete.
 “”Nce sta nu patre bone come lu mare”” 
deciave lu vicchie a lu nepote, 
“” Se quanne i grosse vu fa lu marenare,
 n’ardvinte ricche, e nci fi ninde nghe la scole. 
Ma quanne sti sopra a na barche, nghe lu sole o la tempeste, 
o ride o pijgne, tu mpire a campà chiù leste.””

mercoledì 7 luglio 2021

A CAPRI TANTI ANNI FA

... Ma sebbene non sapessi manifestarle i moti del mio animo, lei era ormai capace di leggermi dentro. Certo era assai vicina a comprendere, spesso, il senso di una fuggevole impressione suscitata in me da episodi all’apparenza senza significato, e per altri sicuramente privi di commozione. Ciò era per me motivo di disagio e di non sapevo quale pudore. Lei leggeva virtualmente ogni pagina del mio futuro romanzo e recepiva il vero, intimo significato di ogni parola, interpretandola come io avrei voluto che fosse. Subiva lo stesso ineffabile turbamento che le bellezze naturali dell’isola avevano generato in me come folgorazioni improvvise. Tornare a quei giorni rileggendo oggi righe sbiadite su fogli gialli e logori, nell’immensa solitudine che si avverte rovistando dopo tanti anni tra carte e ricordi del passato, è per me motivo di angoscia. Ma vorrei tornare a Capri per concludere quel romanzo, per perdermi ancora in quel mondo fatuo di lustrini e scarpe bianche, di creme abbronzanti e lunghi abiti da sera al quale uno strano destino mi accostò, un tempo, per fornirmi il canovaccio di una possibile scrittura. Avevo subito ceduto al richiamo del suo dolcissimo sorriso. Da un tavolo all’altro, tra il profumo dei caffè ed i e languidi ammiccamenti malamente ascosi di mogli non più giovani, coi mariti in città, più di una volta m’era parso voluto e non casuale quel suo fuggevole guardare verso me, subito seguito da un’ improvvisa e depistante, fittizia conversazione con l’amica vicina. Pur prevenuto, e comunque per principio ostile a quelle fumose ostentazioni di gloria sociale, ero tuttavia tornato in seguito a sedermi allo stesso tavolo e avevo guardato, ogni sera, da quella parte. Quegli occhi belli, azzurri e profondi come il mare di Capri, sorrisero un giorno al mio sentire.

giovedì 22 aprile 2021

USI E COSTUMI DI UN TEMPO IN ABRUZZO - Rimedi e consigli popolari in un bizzarro testo di Antonio De Nino (dall'Annuario 2021 "Madonna dello Splendore")

Un curioso testo dato alle stampe nel 1891 a Firenze, quinto volume di una serie di pubblicazioni dedicate alla descrizione di “Usi e costumi abruzzesi”, raccoglie ed analizza, in modo sistematico, regole e metodi tramandati da generazione a generazione per la cura di malattie, morbi, infermità ed affezioni senza il ricorso alla medicina tradizionale. L’autore abruzzese, Antonio De Nino, (Pratola Peligna 1833-1907) archeologo, storico, demoantropologo, fu uomo di grande cultura e di vasta erudizione e pur curando innumerevoli pubblicazioni di carattere scientifico non abbandonò mai l’amore per la sua terra e lo studio del dialetto nella piena persuasione che “... non si fa la storia di una lingua, o si fa di convenzioni o di congetture, senza lo studio dei dialetti, o almeno dei principali, nei vari periodi del loro svolgimento. La stessa lingua o ristagna o non è più generalmente intesa, se perde di mira il dialetto perde di mira i confratelli”. Il primo volume degli “Usi e costumi Abruzzesi” fu pubblicato nel 1879 a Firenze e già in esso l’autore chiariva in modo esplicito il suo intendimento, che tale sarebbe poi rimasto in tutti i cinque libri della raccolta: “Molti usi popolari che cominciano a parere strani alla generalità, perché ormai scomparsi e rimasti soltanto nei piccoli paesi e nelle città isolate, servono ora quale anello di congiunzione tra la civiltà antica e la moderna”. Fu uomo di incommensurabile cultura, “... vir eruditissimus diligentissimusque, antiquitatis investigator, dux iterum nostrum...” (M. Besnier, 1902), e l’amico fraterno Gabriele D’Annunzio non esitò ad esaltarne la profondissima erudizione definendolo “uomo che sa tutto” in uno dei frequenti scambi epistolari tra loro intercorsi. Pur se i maggiori meriti della notorietà di De Nino sono da ricercare sicuramente nella sua attività di archeologo, sia a livello nazionale che internazionale, tuttavia grandi riconoscimenti gli furono attribuiti nella terra peligna e nell’intero Abruzzo anche per le ricerche e per gli studi condotti sulle tradizioni popolari e sulle usanze contadine che catalogò con estremo ordine a beneficio di migliaia di lettori. Raccolse canti, proverbi, filastrocche, abitudini, usanze, consuetudini, tutto ciò che apparteneva al modo di comportarsi della gente semplice nella realtà sociale pubblica e privata, e ne trasse insegnamenti, consigli, precetti, indicazioni a vantaggio di tutti, in particolar modo di coloro che, anche per motivi economici, non avrebbero potuto sempre accedere ai servizi della medicina tradizionale. In realtà la presenza del medico al capezzale del paziente era evento ben raro all’epoca, per cui ricorrendo a sistemi empirici si otteneva spesso la guarigione, non fosse altro che per il fatto di dare modo al malanno di “fare il corso suo” e perché comunque innegabili giovamenti quei rimedi avrebbero apportato quanto meno all’immaginazione dell’infermo… Già nella premessa del volume viene fornita una chiave di lettura universale in relazione alla genesi di ogni morbo e sulla cagione prima che può generare malanni e sventure: “La causa di tutte le malattie, e anche di ogni altra disgrazia è sempre l’occhio cattivo, o come si dice più generalmente, il malocchio. Ma l’occhio, sublime rivelatore dell’animo, come può essere causa di tutte le malattie?- Eppure è così. L’animo che vuol nuocere diventa malanimo. Il malanimo si affaccia agli occhi e davanti agli occhi poi schizza un veleno: dove cade il veleno, ivi germoglia il fior del male…” E si comincia, quindi, col fornire un primo medicamento atto a togliere il malocchio a chi ne sia colpito: la ricetta, semplice, (che ricorda in parte alcune manovre che tanti anni fa nonne e bisnonne delle attuali generazioni praticavano per far scomparire dolori di testa e vertigini generate dall’invidia degli altri) prevedeva di versare mezzo bicchiere di acqua in un bacino e di far cadere nell’acqua tre gocce di olio di lucerna. Sulle gocce bisognava poi adagiare tre chicchi di una spiga di grano colta almeno da tre anni. A questo punto partiva la formula che il “guaritore” doveva pronunciare a bassa voce “Amica grazia di Dio, fammi sapere chi ha fatto l’occhio cattìo” prima di coprire il bacino con un setaccio retato e con una padella rovesciata. Quando la padella aveva un lieve sussulto il malocchio era tolto. Ma la cosa ancor più sorprendente è che sollevando il setaccio ed osservando il modo in cui l’olio si era esteso nell’acqua era possibile riconoscere, come in una fotografia, i lineamenti del viso dell’ artefice del maleficio. Diversi altri modi vengono analiticamente descritti e riportati con cura di ogni dettaglio e con estrema precisione, sempre finalizzati a scacciare dal malato il sortilegio, causa vera, secondo l’autore, di ogni morbo e di ogni infermità fisica o mentale. Metodi analoghi, sempre con il ricorso a formule liberatorie ed a sistemi di manipolazione, erano poi adottati anche per liberare l’infermo dalla febbre generata da qualsiasi diversa affezione. L’intervento iniziava con il posare i palmi delle mani sulla fronte del malato ed anche qui occorreva recitare una sorta di giaculatoria che andava ripetuta per nove volte consecutive :“Sante Taddè e San Giuseppe, ccù lu mutautatore fu mmantate, lla Madonna fu purtate, Monte Calevarie fu pusate, libbra stu cristiane scallate e raffreddate”. Mentre il guaritore ripeteva la formula per il risanamento, il malato doveva essere “ammantato” ripetutamente con nove coperte di stoffe diverse l’una dall’altra . Tra le non poche soluzioni atte a liberare l’infermo dalla febbre, abbastanza curioso e singolare il ricorso alle cimici: bisognava catturare diverse cimici, abbrustolirle al fuoco del camino e poi triturarle ed impastarle con farina ed uova sbattute: La focaccia così ottenuta andava poi cotta sulla brace e fatta mangiare al malato che ne avrebbe tratto opportuno giovamento vedendo diminuire a poco a poco le linee della propria temperatura corporea. Per i casi di febbre ostinata, tra i rimedi raccolti nella ricerca è piuttosto vicino ai tempi nostri il ricorso all’utilizzo di supposte. Il fatto insolito e bizzarro è piuttosto la loro composizione: dovevano essere preparate a mano “con un cannellino di sapone o di sale o di fiele o di lardo di porco maschio ravvolto ai ciurri (capelli)” Diversa la situazione per i febbricitanti in grado di deambulare e di uscire fuori di casa: a costoro era consigliato di fare visita ad una pianta di sambuco e di recitare, a fianco di essa, una formula liberatoria “ Sammuche mie sammuche, sta febbre a te la lasse, nun me la rdà fin che nce repasse…” Quando la febbre era associata a faringiti, laringiti e tonsilliti la cura prevedeva l’unzione della gola con olio d’oliva e l’applicazione di cenere calda avvolta in carta assorbente o in una pezza di lana di colore rigorosamente rosso. In luogo dell’olio era consentito l’uso di burro o di grasso di gallina. La procedura in realtà veniva attivata nei casi di malattia in stato avanzato o in caso di recidiva. Per i casi di mal di gola incipiente erano invece prescritti gargarismi con acqua e aceto o con aceto e sale. Singolari anche gli interventi proposti per la cura dei malanni affliggenti gli occhi ed i denti. Pur nella convinzione che “A uocchie e dente non ce vole niente” , come recita il proverbio posto all’inizio dello specifico capitolo, vengono tuttavia suggeriti dei rimedi, soprattutto per coloro che lamentano dolori di denti dovuti alla carie, allora come oggi, piaga perenne per tutti. Al buco del dente cariato bisognava applicare un chiodo di garofano, o un chicco di sale grosso o di canfora. In alternativa si poteva ricorrere ad un sistema meno invasivo: aprire la bocca e farvi entrare fumo di malva. Oppure masticare una radice di caledonia. Attenzione, però, perchè “Con la radica della ceraddonica cessa il dolore, ma se ne cascano i denti...” Molte altre soluzioni, a quanto pare per alleviare il dolore e non certamente per risolvere il problema alla base, prevedevano sciacqui con il vino caldo, o con aceto caldo nel quale fosse stata immersa una lastra di vetro rovente, o l’applicazione sulla guancia di una chiarata di uova cosparsa di pepe macinato. La fuoriuscita del sangue dal naso era considerata in realtà una sorta di liberazione e di sgravio della testa, quasi un rimedio naturale per curare emicranie e vertigini, al punto che spesso l’epistassi era adoperata proprio a mo’ di medicamento. Uno dei metodi adoperati per favorire il benefico sanguinamento dal naso era quello di introdurre una foglia di “sanguarola” (erba sanguinella) in una narice e di percuoterla poi con forza per far uscire il sangue. L’operazione andava ripetuta anche all’altra narice ed anche qui l’operazione era accompagnata dalla recita di una formula liberatoria “ Sangue e sanguarola esce lo tristo e lasce lu bone”. Nei casi di sanguinamento spontaneo, da dover necessariamente arrestare, si versava acqua gelata (o d’inverno della neve) sulla nuca del paziente rigorosamente senza preavviso. Oppure gli veniva fatta annusare della polvere di ceci abbrustoliti o, dulcis in fundo, polvere secca di escrementi umani. Questa operazione doveva essere accompagnata da un delicato solletico all’orecchio con una sottile pagliuzza. Di non facile interpretazione l’ultimo rimedio proposto: legare con un lacciolo, in modo da stringerlo bene, il mignolo della mano corrispondente alla narice sanguinante. Il dolore alle orecchie dei bimbi da poco nati andava lenito direttamente da parte della madre che doveva spremere il proprio latte nel canale uditivo del figlio e poi turarlo con del cotone idrofilo. E questo era il rimedio più comune. Meno comuni, ma comunque noti, anche altri sistemi: introdurre nell’orecchio bambagia intinta nell’olio di camomilla, oppure un tassello di lardo (rigorosamente di porco maschio), o infine del succo di pera ( “Se sprescia iu pire e iu sughe se mette drento”). La ricerca di De Nino non si limita a raccogliere usanze e tradizioni abruzzesi solo con riferimento a rimedi più o meno curiosi e strani per disturbi generici e di minor conto. Nel testo si riportano infatti anche possibili interventi adottati per fronteggiare malanni più seri, a volte vere e proprie malattie di cui è anche difficile delineare la genesi o la reale gravità. Così si parla genericamente di “ostruzione” per coloro che accusano gonfiori di pancia e progressivo dimagrimento. Il gonfiore poteva essere eliminato con susseguenti unzioni dell’addome con olio nel quale fosse stata in precedenza fritta della rapa porcina. In realtà tale medicamento era utilizzato per far fronte ad esigenze di bambini e ragazzi. Per gli adulti l’intruglio da spargere doveva essere invece composto da tre spicchi di aglio e da una manciata di ruta e di assenzio, fritti rigorosamente in olio di oliva. Nei casi conclamati di malattie del fegato, come l’itterizia, diverse le soluzioni e diversi i metodi per stroncare la malattia: tra i più curiosi quello di “bere per sette giorni continui il liquore proprio escrementizio” o quello di ingoiare quindici cimici in tre giorni consecutivi . Infine la cura che supera ogni immaginazione: “l’itterico entri di nascosto in una Chiesa dove sia esposto un cadavere nella cassa e sopra di esso faccia i propri bisogni liquidi …” Naturalmente la lettura del volume “Malattie e rimedii” riserva molte altre sorprese, alcune davvero sconcertanti, ed apre uno spaccato di raro interesse sulle usanze che in passato affiancavano la medicina tradizionale, rappresentando una sorta di cultura sotterranea, tramandata da antiche generazioni a generazioni successive e poi ovviamente ( e fortunatamente…) perdutesi tempo per tempo. La lettura del libro è ancor più dilettevole ed istruttiva perché l’autore non lesina riferimenti diretti alle località abruzzesi nelle quali le varie consuetudini erano adottate in passato. Opportune chiose a piè di testo, infatti precisano in modo puntuale i paesi presso i quali i sistemi ed i rimedi avevano tratto origine per poi essere diffusi altrove. Un quadro generale nel quale le stesse giaculatorie o le formule riportate nel dialetto d’origine rappresentano la via da seguire per ricostruire il percorso di propagazione delle consuetudini popolari e la loro acquisizione in zone diverse dell’Abruzzo. Dall’attenta lettura del testo potrebbe essere avviato un interessante percorso euristico per un ulteriore ampliamento delle attuali conoscenze che riguardano le tradizioni popolari di tutto l’Abruzzo.

lunedì 8 marzo 2021

ATTENTI AL LUPO

Eventi come la pandemia sconvolgono l'opinione pubblica, generano paura, panico, terrore, sgomento, senso d'impotenza. Quando accadono avvenimenti di tale portata l'impatto sulle coscienze è immediato e distruttivo, ben visibile, tangibile. Si crea uno stato di ansia collettiva che si estende a macchia d'olio e che interessa anche le giovanissime generazioni, penalizzate forse più di altri per via delle limitazioni e delle restrizioni imposte. Uno stato di generale apprensione traspare allora anche dalle più insignificanti azioni quotidiane, dalla spensieratezza che scompare per lasciare posto ad una costante comune : "Cosa accadrà domani?". In questo generale quadro di sensazioni e di stati d'animo , già di per sè non rassicurante, e comunque estremamente fragile, s'inserisce in modo stridente la forza esplosiva dei mass media e della folla anonima di coloro che alimentano i vari siti social. Costoro disattendono, in simbiosi, il canonico ruolo informativo che sarebbe loro deputato per aprire infiniti spazi di angoscia, titolando a caratteri cubitali frasi funeree che prevedono sempre esiti angoscianti ed esiziali, conseguenze imprevedibili e comunque non controllabili. Lo scopo è quello di suscitare improvvisi stimoli emotivi sui lettori che subiscono passivamente l'onda d'urto di questi terroristi dell'informazione. Le trasmissioni televisive, spesso affidate a conduttori menagrami e narcisisti, comunque non tecnici nè specialisti, non medici nè virologi, non sortiscono effetti migliori: ospiti "illustri" profetizzano oscuri orizzonti di terrore, si prevede tutto ed il contrario di tutto, spesso in aperta contraddizione di termini e di contenuti, non per scarsa preparazione, ma davvero perchè non è possibile prevedere ciò che accadrà domani. Allora perchè insistere nella ricerca ostinata del parere, della previsione, del dibattito? L'unico vero servizio di informazione utile a chi vuole conoscere "i fatti" è quello che riporta in modo schematico ciò che è accaduto, senza profetizzare imminenti catastrofi col solo risultato di seminare ansia ed angoscia tra l'opinione pubblica, fatte salve, ovviamente, comunicazioni relative a regole da rispettare e a istruzioni e norme da non disattendere. Come spesso è accaduto in passato (si pensi alle crisi belliche) questa ostinata ricerca della lugubre profezia, finalizzata a far lievitare indici di lettura e vari like e condivisioni, sortisce solo il risultato di atterrire chi legge o chi smanetta sui vari pc, senza avere riscontro nella realtà dei fatti, per fortuna spesso assai diversa. Tanta e tale è la concorrenza tra questi anomali divulgatori di fatti e di notizie che "i lupi" finiscono per non guardare in faccia nessuno, creando un'imponente macchina distruttiva che semina panico e terrore, alterando le coscienze. Psicologi e psichiatri hanno allora il loro bel da fare per intervenire su soggetti vilipesi e torturati dal getto inarrestabile di martellanti informazioni che rimbalzano da ogni dove, come strali che fanno breccia sull'emotività di chi legge o di chi ascolta. Così si alzano gli share di ascolto, si batte la concorrenza, si vince. Ma questo, a suo modo, è terrorismo.

mercoledì 20 gennaio 2021

IL KARAOKE DEGLI IGNORANTI

E' davvero fantastico che oggi chiunque ne abbia desiderio possa scrivere e pubblicare quello che vuole ed avere una vastissima platea di lettori, la più eterogenea possibile, disposta ( o costretta) a leggere ed a commentare pubblicamente, se vuole, quello che legge. Ciascuno può intervenire esprimendo il proprio parere, assenso o dissenso, e dire la sua, ed innescare un sistema di reazioni che generano a loro volta successivi interventi di altri partecipanti, all'infinito, volendo. Ognuno è giustamente libero di "postare" quello che più gli aggrada, fatti salvi alcuni necessari colpi di forbice imposti dalla morale e dalla buona creanza. Questo avviene nei social oggi. E le distanze tra le persone si accorciano, i pareri si intersecano, i giudizi, le condanne, i plausi si succedono in ordine sparso, senza regole. Senza regole, appunto. Si è arrivati ad un punto tale di libertà di espressione (sacrosanta certo) che non ricorrono più misure, principi, norme, precetti per chi scrive e pubblica. E' come se si fosse improvvisamente aperta una finestra sul mondo dalla quale ciascuno è libero di pontificare a beneficio o a danno degli altri, senza freni, o perlomeno, senza alcuni freni che invece dovrebbero rappresentare un ritegno ineludibile ed assolutamente necessario. Ma in questo paradiso di totale indipendenza qualcuno (e purtroppo più di qualcuno) forte di un insperato ed incontrollato arbitrio a volte travalica i confini della propria cognizione e si avventura in campi che gli sono desueti, ove non assolutamente oscuri ed inesplorati. L'eccitazione di avere davanti una platea di lettori, quantunque anonima ed invisibile, agisce da acceleratore e genera una sorta di istigazione ad esprimere pareri e concetti su argomenti di cui si ha generalmente conoscenza solo sommaria ed approssimativa, figlia legittima del sentito dire, della mala informazione, della, ahimè, cattiva comprensione. Ed allora fiumi di parole, di ragionamenti, di precetti, di consigli su argomenti a volte estremamente rilevanti e di considerevole peso sociale giungono da persone non qualificate, non esperte, ignoranti, intendendo tale termine nell'accezione sua propria, ossia di chi ignora, è privo di cognizioni, non sa, o sa cose diverse dal vero. Chi legge non ha la possibilità di disciplinare la fonte, processo che peraltro sarebbe di piena competenza di chi scrive, così come recitava un tempo il manuale del buon redattore che veniva presentato come vangelo ai giornalisti novizi e tirocinanti. Ed allora nel coacervo dei fatti portati a conoscenza da chi posta in piena ed incontrollata libertà di espressione si fa fatica a distinguere il vero dal falso, il bianco dal nero, il plausibile dall'inattendibile. Per scrivere su un giornale occorre essere iscritti all' Albo professionale. Questo salvaguarda i lettori e garantisce il filtro delle notizie, l'accurata cura delle fonti, in una parola la bontà dell'informazione. Tra qualche tempo sarà probabilmente necessario richiedere a chi interviene sui social una formazione abilitativa alla trattazione degli argomenti sui quali si desidera discernere. Questo a beneficio di chi legge. Una sorta di patentino che renda idoneo chi posta a trattare lo specifico argomento sul quale intende intrattenere i lettori. Speriamo che sia così. Ma prima che ciò accada (se mai accadrà), sarebbe opportuno che ognuno facesse un auto esame delle proprie cognizioni e delle proprie conoscenze prima di sentenziare pubblicamente su argomenti che non conosce. Lasciamo che i medici scrivano di medicina, gli avvocati di giurisprudenza, gli architetti di progetti e piani regolatori, i musicisti di musica e via cantando. Avere la possibilità di scrivere per tutti non significa essere in grado di scrivere per tutti. Ciascuno abbia il pudore di trattenere i propri istinti letterari. E già che ci siamo lo faccia in piena regola, rispettando le norme grammaticali, la sintassi, la consecutio temporum, le concordanze e quant'altro possa occorrere per recuperare la bistrattatissima lingua italiana che dalla incontrollata pubblicazione opera di vandali del web esce vilipesa ed umiliata. E' vero che al karaoke possono cantare tutti, ma è anche vero che non tutti si ascoltano volentieri...

sabato 16 gennaio 2021

ANTICHI GIOCHI DI STRADA : "STAZZE" E "SBARRELLA"

Quando non si organizzavano incontri di calcio in via Quarnaro, si giocava a "stazze". Non ho riferimenti per poter ricostruire l'origine storica di questo gioco di strada, sicuramente di epoca molto lontana nel tempo. Certo è che richiedeva non poca abilità, abbastanza simile a quella che occorre per giocare a bocce, ed una buona precisione nel lancio della "stazza", un piccolo mattone, o una pietra di forma simile, del cui reperimento ciascun concorrente era direttamente incaricato, magari andando a cercare tra i sassi del fiume, o in campagna, o tra i materiali residui dei cantieri edilizi. Il campo di gara era sempre la strada. Bastava che uno solo del nostro gruppo si presentasse con il suo mattoncino o con una pietra similare in mano per capire che chi avesse voluto trascorrere lì il pomeriggio avrebbe dovuto attrezzarsi di conseguenza. Così a poco a poco arrivavano gli altri, ognuno con la sua stazza, reperita nelle vicinanze, o magari custodita a casa dopo la gara precedente. Ciascuno poneva in gioco un mazzetto di figurine di calciatori. In genere una decina a testa. Il pacchetto veniva posto su una pietra più grande collocata una decina di metri più avanti dei concorrenti. Poi, a turno, dopo la conta che doveva stabilire l'ordine progressivo dei giocatori, uno alla volta, potendo compiere non più di tre passi in avanti, si iniziava a lanciare la propria stazza in direzione del bersaglio. Bisognava ovviamente colpirlo. Quindi si andava a vedere quante figurine erano finite vicino alla stazza lanciata. Quelle diventavano di proprietà del vincitore. Nascevano ovviamente diverbi, discussioni, vivaci contestazioni, piccole e grandi zuffe... Argomento del contendere era spesso l'opinabile distanza di qualche figurina dalla stazza, per cui era necessario ricorrere ad un sistema di misurazione rudimentale ed approssimativo, servendosi spesso di una stecchetta di legno reperita nei paraggi, mai perfettamente diritta, e quindi causa di ulteriori polemiche. Di solito il gioco finiva in modo naturale perchè qualcuno non aveva più figurine in tasca, o perchè, sentendosi ingiustamente defraudato, abbandonava la tenzone e se ne tornava a casa senza salutare nessuno. Ma tutti sapevano che il giorno dopo sarebbe tornato lì alla stessa ora con la stazza in mano.... Altre volte si giocava a "sbarrella". Uno dei partecipanti, scelto col solito sistema della conta, si appoggiava ad un muro, con la schiena piegata in avanti, in modo da poter accogliere in groppa il primo saltatore che doveva finirgli sopra e resistere senza cadere anche dopo l'arrivo del secondo concorrente, e poi del terzo, e così via, fino alla fine dei partecipanti al gioco. Nel momento in cui il "sostegno" cominciava a cedere e a non sopportare più il peso di coloro che via via gli finivano sopra, era costretto a chiamare "sbarrella", una sorta di pubblica resa, e ad ammettere quindi senza scampo di avere la schiena a pezzi e di non essere più in grado di sostenere il peso. E non era tanto il pegno da pagare a rappresentare un problema, ma il fatto di dover riconoscere la propria debolezza e di essere quindi additato, bonariamente ma non troppo, al ludibrio di tutti... (brano tratto dal libro "Abitavamo in via Quarnaro" (Ed.Evoè 2014)