giovedì 22 aprile 2021

USI E COSTUMI DI UN TEMPO IN ABRUZZO - Rimedi e consigli popolari in un bizzarro testo di Antonio De Nino (dall'Annuario 2021 "Madonna dello Splendore")

Un curioso testo dato alle stampe nel 1891 a Firenze, quinto volume di una serie di pubblicazioni dedicate alla descrizione di “Usi e costumi abruzzesi”, raccoglie ed analizza, in modo sistematico, regole e metodi tramandati da generazione a generazione per la cura di malattie, morbi, infermità ed affezioni senza il ricorso alla medicina tradizionale. L’autore abruzzese, Antonio De Nino, (Pratola Peligna 1833-1907) archeologo, storico, demoantropologo, fu uomo di grande cultura e di vasta erudizione e pur curando innumerevoli pubblicazioni di carattere scientifico non abbandonò mai l’amore per la sua terra e lo studio del dialetto nella piena persuasione che “... non si fa la storia di una lingua, o si fa di convenzioni o di congetture, senza lo studio dei dialetti, o almeno dei principali, nei vari periodi del loro svolgimento. La stessa lingua o ristagna o non è più generalmente intesa, se perde di mira il dialetto perde di mira i confratelli”. Il primo volume degli “Usi e costumi Abruzzesi” fu pubblicato nel 1879 a Firenze e già in esso l’autore chiariva in modo esplicito il suo intendimento, che tale sarebbe poi rimasto in tutti i cinque libri della raccolta: “Molti usi popolari che cominciano a parere strani alla generalità, perché ormai scomparsi e rimasti soltanto nei piccoli paesi e nelle città isolate, servono ora quale anello di congiunzione tra la civiltà antica e la moderna”. Fu uomo di incommensurabile cultura, “... vir eruditissimus diligentissimusque, antiquitatis investigator, dux iterum nostrum...” (M. Besnier, 1902), e l’amico fraterno Gabriele D’Annunzio non esitò ad esaltarne la profondissima erudizione definendolo “uomo che sa tutto” in uno dei frequenti scambi epistolari tra loro intercorsi. Pur se i maggiori meriti della notorietà di De Nino sono da ricercare sicuramente nella sua attività di archeologo, sia a livello nazionale che internazionale, tuttavia grandi riconoscimenti gli furono attribuiti nella terra peligna e nell’intero Abruzzo anche per le ricerche e per gli studi condotti sulle tradizioni popolari e sulle usanze contadine che catalogò con estremo ordine a beneficio di migliaia di lettori. Raccolse canti, proverbi, filastrocche, abitudini, usanze, consuetudini, tutto ciò che apparteneva al modo di comportarsi della gente semplice nella realtà sociale pubblica e privata, e ne trasse insegnamenti, consigli, precetti, indicazioni a vantaggio di tutti, in particolar modo di coloro che, anche per motivi economici, non avrebbero potuto sempre accedere ai servizi della medicina tradizionale. In realtà la presenza del medico al capezzale del paziente era evento ben raro all’epoca, per cui ricorrendo a sistemi empirici si otteneva spesso la guarigione, non fosse altro che per il fatto di dare modo al malanno di “fare il corso suo” e perché comunque innegabili giovamenti quei rimedi avrebbero apportato quanto meno all’immaginazione dell’infermo… Già nella premessa del volume viene fornita una chiave di lettura universale in relazione alla genesi di ogni morbo e sulla cagione prima che può generare malanni e sventure: “La causa di tutte le malattie, e anche di ogni altra disgrazia è sempre l’occhio cattivo, o come si dice più generalmente, il malocchio. Ma l’occhio, sublime rivelatore dell’animo, come può essere causa di tutte le malattie?- Eppure è così. L’animo che vuol nuocere diventa malanimo. Il malanimo si affaccia agli occhi e davanti agli occhi poi schizza un veleno: dove cade il veleno, ivi germoglia il fior del male…” E si comincia, quindi, col fornire un primo medicamento atto a togliere il malocchio a chi ne sia colpito: la ricetta, semplice, (che ricorda in parte alcune manovre che tanti anni fa nonne e bisnonne delle attuali generazioni praticavano per far scomparire dolori di testa e vertigini generate dall’invidia degli altri) prevedeva di versare mezzo bicchiere di acqua in un bacino e di far cadere nell’acqua tre gocce di olio di lucerna. Sulle gocce bisognava poi adagiare tre chicchi di una spiga di grano colta almeno da tre anni. A questo punto partiva la formula che il “guaritore” doveva pronunciare a bassa voce “Amica grazia di Dio, fammi sapere chi ha fatto l’occhio cattìo” prima di coprire il bacino con un setaccio retato e con una padella rovesciata. Quando la padella aveva un lieve sussulto il malocchio era tolto. Ma la cosa ancor più sorprendente è che sollevando il setaccio ed osservando il modo in cui l’olio si era esteso nell’acqua era possibile riconoscere, come in una fotografia, i lineamenti del viso dell’ artefice del maleficio. Diversi altri modi vengono analiticamente descritti e riportati con cura di ogni dettaglio e con estrema precisione, sempre finalizzati a scacciare dal malato il sortilegio, causa vera, secondo l’autore, di ogni morbo e di ogni infermità fisica o mentale. Metodi analoghi, sempre con il ricorso a formule liberatorie ed a sistemi di manipolazione, erano poi adottati anche per liberare l’infermo dalla febbre generata da qualsiasi diversa affezione. L’intervento iniziava con il posare i palmi delle mani sulla fronte del malato ed anche qui occorreva recitare una sorta di giaculatoria che andava ripetuta per nove volte consecutive :“Sante Taddè e San Giuseppe, ccù lu mutautatore fu mmantate, lla Madonna fu purtate, Monte Calevarie fu pusate, libbra stu cristiane scallate e raffreddate”. Mentre il guaritore ripeteva la formula per il risanamento, il malato doveva essere “ammantato” ripetutamente con nove coperte di stoffe diverse l’una dall’altra . Tra le non poche soluzioni atte a liberare l’infermo dalla febbre, abbastanza curioso e singolare il ricorso alle cimici: bisognava catturare diverse cimici, abbrustolirle al fuoco del camino e poi triturarle ed impastarle con farina ed uova sbattute: La focaccia così ottenuta andava poi cotta sulla brace e fatta mangiare al malato che ne avrebbe tratto opportuno giovamento vedendo diminuire a poco a poco le linee della propria temperatura corporea. Per i casi di febbre ostinata, tra i rimedi raccolti nella ricerca è piuttosto vicino ai tempi nostri il ricorso all’utilizzo di supposte. Il fatto insolito e bizzarro è piuttosto la loro composizione: dovevano essere preparate a mano “con un cannellino di sapone o di sale o di fiele o di lardo di porco maschio ravvolto ai ciurri (capelli)” Diversa la situazione per i febbricitanti in grado di deambulare e di uscire fuori di casa: a costoro era consigliato di fare visita ad una pianta di sambuco e di recitare, a fianco di essa, una formula liberatoria “ Sammuche mie sammuche, sta febbre a te la lasse, nun me la rdà fin che nce repasse…” Quando la febbre era associata a faringiti, laringiti e tonsilliti la cura prevedeva l’unzione della gola con olio d’oliva e l’applicazione di cenere calda avvolta in carta assorbente o in una pezza di lana di colore rigorosamente rosso. In luogo dell’olio era consentito l’uso di burro o di grasso di gallina. La procedura in realtà veniva attivata nei casi di malattia in stato avanzato o in caso di recidiva. Per i casi di mal di gola incipiente erano invece prescritti gargarismi con acqua e aceto o con aceto e sale. Singolari anche gli interventi proposti per la cura dei malanni affliggenti gli occhi ed i denti. Pur nella convinzione che “A uocchie e dente non ce vole niente” , come recita il proverbio posto all’inizio dello specifico capitolo, vengono tuttavia suggeriti dei rimedi, soprattutto per coloro che lamentano dolori di denti dovuti alla carie, allora come oggi, piaga perenne per tutti. Al buco del dente cariato bisognava applicare un chiodo di garofano, o un chicco di sale grosso o di canfora. In alternativa si poteva ricorrere ad un sistema meno invasivo: aprire la bocca e farvi entrare fumo di malva. Oppure masticare una radice di caledonia. Attenzione, però, perchè “Con la radica della ceraddonica cessa il dolore, ma se ne cascano i denti...” Molte altre soluzioni, a quanto pare per alleviare il dolore e non certamente per risolvere il problema alla base, prevedevano sciacqui con il vino caldo, o con aceto caldo nel quale fosse stata immersa una lastra di vetro rovente, o l’applicazione sulla guancia di una chiarata di uova cosparsa di pepe macinato. La fuoriuscita del sangue dal naso era considerata in realtà una sorta di liberazione e di sgravio della testa, quasi un rimedio naturale per curare emicranie e vertigini, al punto che spesso l’epistassi era adoperata proprio a mo’ di medicamento. Uno dei metodi adoperati per favorire il benefico sanguinamento dal naso era quello di introdurre una foglia di “sanguarola” (erba sanguinella) in una narice e di percuoterla poi con forza per far uscire il sangue. L’operazione andava ripetuta anche all’altra narice ed anche qui l’operazione era accompagnata dalla recita di una formula liberatoria “ Sangue e sanguarola esce lo tristo e lasce lu bone”. Nei casi di sanguinamento spontaneo, da dover necessariamente arrestare, si versava acqua gelata (o d’inverno della neve) sulla nuca del paziente rigorosamente senza preavviso. Oppure gli veniva fatta annusare della polvere di ceci abbrustoliti o, dulcis in fundo, polvere secca di escrementi umani. Questa operazione doveva essere accompagnata da un delicato solletico all’orecchio con una sottile pagliuzza. Di non facile interpretazione l’ultimo rimedio proposto: legare con un lacciolo, in modo da stringerlo bene, il mignolo della mano corrispondente alla narice sanguinante. Il dolore alle orecchie dei bimbi da poco nati andava lenito direttamente da parte della madre che doveva spremere il proprio latte nel canale uditivo del figlio e poi turarlo con del cotone idrofilo. E questo era il rimedio più comune. Meno comuni, ma comunque noti, anche altri sistemi: introdurre nell’orecchio bambagia intinta nell’olio di camomilla, oppure un tassello di lardo (rigorosamente di porco maschio), o infine del succo di pera ( “Se sprescia iu pire e iu sughe se mette drento”). La ricerca di De Nino non si limita a raccogliere usanze e tradizioni abruzzesi solo con riferimento a rimedi più o meno curiosi e strani per disturbi generici e di minor conto. Nel testo si riportano infatti anche possibili interventi adottati per fronteggiare malanni più seri, a volte vere e proprie malattie di cui è anche difficile delineare la genesi o la reale gravità. Così si parla genericamente di “ostruzione” per coloro che accusano gonfiori di pancia e progressivo dimagrimento. Il gonfiore poteva essere eliminato con susseguenti unzioni dell’addome con olio nel quale fosse stata in precedenza fritta della rapa porcina. In realtà tale medicamento era utilizzato per far fronte ad esigenze di bambini e ragazzi. Per gli adulti l’intruglio da spargere doveva essere invece composto da tre spicchi di aglio e da una manciata di ruta e di assenzio, fritti rigorosamente in olio di oliva. Nei casi conclamati di malattie del fegato, come l’itterizia, diverse le soluzioni e diversi i metodi per stroncare la malattia: tra i più curiosi quello di “bere per sette giorni continui il liquore proprio escrementizio” o quello di ingoiare quindici cimici in tre giorni consecutivi . Infine la cura che supera ogni immaginazione: “l’itterico entri di nascosto in una Chiesa dove sia esposto un cadavere nella cassa e sopra di esso faccia i propri bisogni liquidi …” Naturalmente la lettura del volume “Malattie e rimedii” riserva molte altre sorprese, alcune davvero sconcertanti, ed apre uno spaccato di raro interesse sulle usanze che in passato affiancavano la medicina tradizionale, rappresentando una sorta di cultura sotterranea, tramandata da antiche generazioni a generazioni successive e poi ovviamente ( e fortunatamente…) perdutesi tempo per tempo. La lettura del libro è ancor più dilettevole ed istruttiva perché l’autore non lesina riferimenti diretti alle località abruzzesi nelle quali le varie consuetudini erano adottate in passato. Opportune chiose a piè di testo, infatti precisano in modo puntuale i paesi presso i quali i sistemi ed i rimedi avevano tratto origine per poi essere diffusi altrove. Un quadro generale nel quale le stesse giaculatorie o le formule riportate nel dialetto d’origine rappresentano la via da seguire per ricostruire il percorso di propagazione delle consuetudini popolari e la loro acquisizione in zone diverse dell’Abruzzo. Dall’attenta lettura del testo potrebbe essere avviato un interessante percorso euristico per un ulteriore ampliamento delle attuali conoscenze che riguardano le tradizioni popolari di tutto l’Abruzzo.