mercoledì 28 dicembre 2016

IL RE MALVAGIO - FAVOLA ABRUZZESE -

Tanti tanti anni fa viveva in una foresta abruzzese un leone di nome Taro, piccolo di statura ma con una solida posizione all'interno di un branco nel quale lavorava come Capo di molti altri animali. Era un incarico che aveva ricevuto non per acclamazione popolare, chè anzi era a tutti inviso, ma per scelta operata direttamente da un altro Leone, ben più anziano, e capo di tutti gli animali, di ogni genere e stirpe. Taro era, in realtà, un inetto, complessato ed assolutamente  incapace di svolgere il proprio lavoro,  per cui aveva stretto bisogno dei suoi collaboratori per poter portare avanti il suo importante incarico. Proprio perché così inabile aveva maturato dentro di sé un gran rancore verso i suoi dipendenti, e li trattava male, malissimo. La sua incapacità lo aveva infatti reso ancor più astioso verso gli altri, ma gli aveva nel contempo conferito una grande abilità: quella di vendere il ferro per oro, facendo apparire vero il falso, giusto l'ingiusto, bello il brutto, corretto quello che era invece del tutto sbagliato. Tutti gli altri erano consapevoli di questa sua ignoranza, ma dovevano sopportarlo perché lui era il capo ed aveva su ciascuno di essi potere di vita o di morte. Accadeva così che ogni leone del gruppo, quantunque sottostante a Taro in scala gerarchica, fosse in realtà ben più intelligente e preparato di lui e sicuramente più educato, garbato, cortese e gentile. Doti queste di cui Taro era assolutamente privo, anche perché appariva complessato dal fatto che fosse piccolo di statura, ed assai più basso di tutti gli altri leoni del branco. Ma, si sa, la statura conta poco se si ha la fortuna di poter comandare gli altri. La storia raccoglie infiniti esempi che possono confermare questa regola.
Preso dalla sua onnipotenza Re Taro amministrava con estrema imperizia, ma riusciva comunque ad apparire capace per via della grande mole di lavoro che svolgevano, in assoluto anonimato, gli altri leoni del gruppo. Quando al grande Leone Centrale, capo di tutti i capi, arrivavano i lavori di Taro apparivano giusti e ben fatti, ma in realtà essi erano stati preparati ed allestiti dai suoi subalterni, che il grande Leone non conosceva neanche. Taro prendeva per sé lodi ed encomi, senza elargirne alcuno ai suoi dipendenti che lasciava invece sempre all'oscuro di tutto. Era un Leone spregevole che anche le leonesse guardavano con molta diffidenza.
Avviene nella vita, tuttavia, che per una sorta di strano destino, chi più è spregevole, falso, insulso e d'animo malvagio ottiene tanto, molto più di quel che merita. Chi invece lavora nell'anonimato, per quanto capace e cortese sia, riceve solo briciole, ed a volte neanche quelle.
Così girava la ruota nella piccola foresta abruzzese. Tutti i leoni sapevano, ma nessuno poteva parlare. Forte della carica che gli era stata così generosamente ed ingiustamente conferita Taro faceva pesare il suo grado e viveva nell'agio e nell'ozio, raccogliendo frutti che non aveva mai seminato e gloriandosi di successi che non gli appartenevano. Così andarono le cose per tanti anni. Taro riceveva compensi dai suoi superiori e chi lavorava per lui rimaneva sempre a bocca asciutta, nella dimenticanza più totale.
Un giorno, però, il Leone Centrale, colpito da grave malattia, morì. Chiamato a giudizio dopo la morte fu giudicato da un collegio di Grandi Animali e condannato alla dannazione eterna per ingiustizia solenne. Taro ebbe notizia di questa sentenza e si sbrigò a fuggire dalla foresta abruzzese per non farsi più trovare. In nome della sua codardia, della sua vigliaccheria, della sua incapacità non avrebbe potuto fare altro che far perdere le sue tracce per sempre ora che il suo grande mecenate non avrebbe più potuto proteggerlo.
Ma nonostante Taro fosse scomparso dalla vista aveva lasciato dietro di sé un segno inconfondibile della sua esistenza: la malvagità, la cattiveria, l'iniquità, la crudeltà e la perversità del suo animo. Caratteristiche della sua scellerata personalità che nessun leone della foresta abruzzese avrebbe mai più potuto dimenticare e che lo condannarono a vivere per sempre infelice e scontento.

lunedì 14 novembre 2016

PROFESSIONALITÀ E MALEDUCAZIONE



Clinica privata Villa dei Pini di Civitanova Marche. Reparto Ortopedia. Grande professionalità del corpo medico. Grande maleducazione del personale addetto ai servizi. Vorrei salutare quel tizio che non ha risposto alla mia domanda girando la testa dall'altra parte. Vorrei salutare quella gentile signorina che mi ha negato un cuscino in più asserendo che c'erano pazienti che non ne avevano neanche uno... Vorrei salutare quella gentile addetta alla ristorazione, eroina della mala educazione, scorretta e scortese, sgraziata e volgare. Gente che offusca l'immagine dell'Istituzione dalla quale riceve lo stipendio. Peccato. Perché se il medico che cura l'alluce valgo vale10 ed il personale che cura (a suo modo) i servizi vale zero, vuol dire che viene fuori una media di cinque. E per colpa di zoticoni che nulla hanno a che vedere con la sanità. Né con le più normali regole della civile convivenza.

giovedì 10 novembre 2016

PUBBLICO LUDIBRIO E SEGRETO ANONIMATO

Un tempo coloro che venivano sorpresi in flagranza di reato erano sottoposti alla umiliante pena della "gogna", una sorta di pubblico ludibrio, una prova inconfutabile della colpa commessa, con esposizione all'irriverenza ed allo sberleffo degli altri. In buona sostanza il colpevole diventava una specie di emblema del suo stesso delitto e poteva essere tranquillamente sbeffeggiato in pubblica piazza da qualsiasi passante, giovane o adulto che fosse, ed essere portato ad esempio negativo per tutti gli altri. Il suo volto non veniva coperto, il suo nome non era sottaciuto. Questa sceneggiata aveva lo scopo di mettere in guardia gli altri. Era come un deterrente per chi avesse avuto voglia di delinquere. Tu commetti un reato ed io ti faccio diventare un personaggio negativo, un esempio da non seguire, pubblicizzando non solo la tua colpa, ma la tua stessa persona, senza nascondere la tua identità.
Oggi avviene il contrario. Si espone al pubblico ludibrio la colpa, ma in onore alla privacy, si cela l'identità del colpevole. Lo si protegge come se avesse il diritto di essere protetto. In realtà la legge sulla privacy non prevede l'anonimato di chi viene colto in flagranza di reato. Inutile sorprendere chi timbra il cartellino e se ne va a giocare a golf se poi si ha la premura di tutelarne l'identità. Molti altri saranno tentati di fare la stessa cosa, cullandosi sulla comoda protezione che ne rende impossibile l'identificazione e la condanna pubblica.
Non basta svelare la colpa se non si rende poi il servizio completo: rendere note le generalità del colpevole, dire dove lavora, chi è, cosa fa.
La gogna pur nella sua superata arcaicità svolgeva un basilare ruolo di prevenzione. Oggi funziona tutto in modo diverso: quando si scopre un delinquente (= colui che delinque) se ne protegge l'identità perché nessuno sappia chi è. Oppure si ricorre al fenomeno opposto: lo si rende protagonista di un talk show, lo si manda al Grande Fratello Vip, se ne fa un idolo come se fosse davvero un personaggio.  Non cambia poco. Una volta era esposto al pubblico ludibrio, oggi alla pubblica ammirazione o, male che gli vada, al segreto anonimato.

sabato 15 ottobre 2016

CONCLUSO CON SUCCESSO IL TORNEO DI DOPPIO "AMICI DEL SABATO"


       


Si è concluso con una simpatica cena in allegria  il Torneo di Tennis ad invito "Amici del Sabato",  ideato dal Patron Orazio Martinelli, Giudice Arbitro e perfetto organizzatore della manifestazione svoltasi presso i campi di via Ippodromo a Giulianova.
L'idea proposta e realizzata da Martinelli è stata quella di far disputare incontri di doppio conferendo però progressivi punteggi a livello individuale, non solo in base alle partite vinte, ma anche in base ai set conquistati di volta in volta da ciascun partecipante. E' venuta fuori una manifestazione originale e inedita, protrattasi per lungo tempo (gli incontri avevano cadenza settimanale) e non priva di momenti "difficili", tra sane contestazioni, accesi diverbi e sfottò che non hanno fatto altro che rendere più vivo il torneo con evidenti ritorni sulla bontà dell'iniziativa. 
 Il fatto che proposte di questo genere ottengano unanime approvazione e tanti consensi da parte dei partecipanti è segno di come ci sia sempre più bisogno di organizzare intrattenimenti che favoriscano la socializzazione, soprattutto in settori che accomunano passioni condivise, il tennis in primo piano. 
Orazio Martinelli ha preso in mano, sua sponte e in modo assolutamente autonomo, un progetto nuovo: quello di organizzare, in modo collaterale rispetto all'attività ufficiale del Circolo Tennis, manifestazioni parallele, avulse da ogni regola ufficiale, pur nel rispetto delle regole canoniche del tennis. Gli incontri sono stati disputati con l'adozione del "break point", con l'introduzione del "pareggio" negli incontri, con alcune innovazioni che hanno reso ancor più divertente ed originale il Torneo.
Per la cronaca va registrato che è già partita un'altra iniziativa simile: Torneo "Amici del tennis di settembre", iniziato da poche settimane e già avviato su binari di analogo successo.
Nel frattempo venerdì 14 ottobre si è tenuta, nel corso di una goliardica cena, la premiazione dei vincitori della manifestazione a punteggio individuale:

1 classificato:  Paolo Pizzuti
2 classificato   Iwan Costantini
3 classificato   Sergio Di Diodoro
4 classificato   Patrizio Di Bella




lunedì 3 ottobre 2016

CUORE DI PEZZA

         

                                C’erano una volta un giovane computer e una vecchia bambola dì pezza che un giorno si incontrarono per caso nel solaio di un villino di campagna.
Mancava poco a Natale, fuori era freddo e la neve scendeva lenta.
Sembrava che tutti si fossero vestiti di bianco: i monti, le case, le colline, gli alberi e le foglie.
Ogni animale aveva chiuso la piccola porta della sua stanza e si era addormentato aspettando che tornasse ancora la primavera.
- Cosa fai tu qui in soffitta - disse la bambola al computer - tu che sei così giovane non dovresti stare tra noi giocattoli vecchi, rotti e abbandonati che viviamo da tanti anni in questo brutto scatolone –
- Sto lavorando — rispose pronto il computer — mi chiamo Pico e mi hanno sistemato qui temporaneamente. Sono collegato tramite un sistema di fili e di circuiti al Presepe che vedi laggiù in quel salone. Per merito mio i pastori camminano, l’acqua corre nei piccoli fiumi, il giorno e la notte si alternano e gli angeli cantano in coro. Pure la neve che sembra scendere sui monti è un effetto speciale del mio programma-
- Tu... tu riesci a fare tante cose? - domandò stupita la bambola - e per giunta stando così lontano?-
- Sì certamente – confermò Pico – ma dimmi, tu chi sei, come ti chiami?-
- Il mio nome è Pola - disse la vecchia bambola di pezza riprendendosi dallo stupore - e non sono più in servizio da circa quaranta anni. Il mio abito è logoro e consunto e sono piena di polvere, come vedi -
- Ma non hai batterie, fili, circuiti, memorie da utilizzare, non sei proprio capace di fare nulla? - l’aggredì Pico - oggi le bambole camminano, parlano e rispondono ai bambini, cantano e riescono anche a piangere lacrime vere, mentre tu, a quanto pare, non riesci neanche ad aprire ed a chiudere gli occhi..
 A queste parole Pola sentì il suo piccolo cuore di pezza battere forte forte e se in quel momento avesse avuto vere  lacrime da versare certo le avrebbe versate....
- No - disse- non ho batterie nè circuiti nè memorie, sono solo una bambola di pezza, ma un tempo anch’io ho avuto una padroncina a cui volevo tanto bene. Si chiamava Tata ed era felice con me-
Felice, felice – rise Pico – come poteva essere felice con te che non puoi neanche essere programmata?- Quest’ultima parola suonò davvero strana alle orecchiette di pezza della piccola Pola che, per quanti sforzi facesse, non riusciva proprio a comprenderne il significato. Per sua fortuna, però, le bambole di pezza sono sempre tutte colorate, cosicché neanche un computer intelligente come Pico potè accorgersi che stava arrossendo per la vergogna.
A salvare Pola da quell’incomoda situazione giunse, improvvisa, una voce dalle stanze sottostanti: - E’ andata via la corrente — gridò uno dei bambini — il Presepe non funziona più! -
Ora i pastori non camminavano, l’acqua dei ruscelli era immobile, lo schermo dietro le montagne s’era spento e non si udiva più il coro degli angioletti.
Pola non riusciva a scorgere, in quella oscurità, neanche la luce verde di Pico.
- Pico, Pico — gridò — cosa mai ti è accaduto?
Ma Pico, ora che non c’era corrente, non poteva né sentire né parlare!
- Proprio ora che vengono i nostri amici a vedere il Presepe – disse tra le lacrime uno dei bambini.
Fu proprio quel pianto disperato a ricondurre Pola, per un attimo, indietro nel tempo. Si rivide giovane bamboletta tra le braccia della sua Tata che, quando andava via la corrente, la stringeva forte a sé perché aveva paura del buio e le bagnava le piccole trecce con i lacrimoni.
-Tu certamente riesci a fare tante cose - disse in tono di rivincita rivolta a Pico, ora che la sua luce verde aveva ricominciato a lampeggiare in segno di ripresa - ma forse a volte un cuore di pezza può collegarsi al cuoricino di un bimbo che piange anche senza fili, circuiti e memorie.... -
In quel momento un topolino che passava spesso da quelle parti in cerca di cibo, si fermò all’improvviso a guardare Pola: mai, come quella sera, l’aveva vista piangere di gioia....

domenica 4 settembre 2016

"SPICCHI D'AUTORE" IN TAVOLA I SAPORI DELL'ABRUZZO

Partire dalla genuinità dei prodotti e dalla loro ricerca nei territori autoctoni per poi trasferirli, con la passione e la competenza del buon gourmet, nel menu di una delle pizzerie tra i primi posti in Italia nella hit parade della ristorazione.
Siamo a Giulianova, a pochi metri dal mare, alla fine del Lungomare Spalato, in zona decentrata, ma forse proprio per questo ancor più suggestiva.
 L’idea del titolare e gestore, Nino Cartone, giuliese verace,  è semplice e nello stesso tempo geniale: approvvigionare la “cambusa” del locale con quanto di meglio possa scaturire dalla tradizione gastronomica abruzzese. Lo fa andando a rifornirsi delle specialità più famose  direttamente nei luoghi d’origine dei prodotti, raccogliendoli, in un certo senso, proprio dal territorio, o dalle sapienti mani di coloro che, con antica arte tramandata di generazione in generazione, li lavorano per immetterli sul mercato. Il risultato è sorprendente. Sulla tavola dei commensali si susseguono le prelibatezze dei  luoghi tipici dell’Abruzzo, artisticamente serviti su una base di pizza lievitata con metodo naturale per 72 ore.  La verità è che a nessuno fino ad ora era mai venuto in mente di mettere a disposizione di tutti il meglio della tradizione gastronomica di un territorio senza ricorrere alle solite sagre paesane. Si può gustare il piatto del gourmet guardando il mare ed ascoltando lo sciabordìo delle onde senza percorrere chilometri e chilometri per raggiungere i luoghi di produzione. Per un turista è il massimo. Avere a portata di mano una panoramica delle specialità marine e montane di tutta la regione e poterle assaggiare per poi decidere se andare ad approvvigionarsi, eventualmente, nei luoghi di produzione prima di ripartire dopo le vacanze.
L’uovo di Colombo? Forse.
Ma se “Spicchi d’autore” è fra le prime quindici pizzerie italiane vuol dire che il meccanismo funziona bene e che a volte un’intuizione ed un pizzico di coraggio, uniti da una lungimirante imprenditorialità, ottengono il giusto riconoscimento di pubblico e di critica.

E nel settore della ristorazione non è poco.

giovedì 28 aprile 2016

LINGUA MADRE ED ESIBIZIONISMO ANGLOFONO

 Rilevazioni statistiche attendibili attestano che oggi circa il 60% della popolazione italiana non è in grado di parlare una lingua diversa dall'italiano. Questo dato, per certi versi abbastanza sconcertante, appare ancor più strano se si pensa a quanto spazio abbia  il ricorso a termini inglesi  sia nella lingua parlata che in quella usata ogni giorno nella comunicazione di massa e nei  messaggi mediatici. Una sorta di rifiuto della lingua madre che apre ampi spazi all'uso di termini inglesi anche quando - e qui è il problema - quando non ce n'è assolutamente bisogno, atteso che esistono in italiano  una parola, un'espressione, un vocabolo in grado di esprimere in modo esaustivo e diretto quello che invece si va a pronunciare o a scrivere ricorrendo all'inglese. Ancora più sconcertante è il fatto che la massa di parlanti o di scriventi, affascinata dal desiderio di esibire la propria conoscenza anglofona, spesso cela dietro il proprio millantato sapere un immenso vuoto culturale, soprattutto con riferimento alla lingua inglese. La ricerca di questo elitarismo linguistico, a scapito del proprio idioma naturale, genera un continuo rigetto di termini italiani che, pur conservando una valenza semantica di sicuro affidamento e di valida pregnanza comunicativa, finiscono per essere abbandonati. Al loro posto si usano corrispondenti termini inglesi, spesso coreografici e musicali, ma dei quali sovente chi parla ignora la grafia, l'etimo e la natura, affidandosi al pericolosissimo sentito dire e ad assonanze che possono risultare comicamente goffe, ove non ridicole.
Questa sudditanza linguistica crea un'involuzione della lingua madre, costretta a soggiacere ad un  continuo e devastante tsunami di termini inglesi che male fanno a chi parla e a chi scrive, ma ancor più a chi ascolta e a chi legge.
Quest'ultimo, se fa parte di quel 60%, deve rassegnarsi ad essere straniero a casa sua.

sabato 23 aprile 2016

USI, COSTUMI E SUPERSTIZIONI NELLE TRADIZIONI POPOLARI ABRUZZESI - I RACCONTI DEI NONNI -


                   La cultura popolare, con il suo bagaglio di usi, costumi, tradizioni, consuetudini, credenze e superstizioni, rappresenta un campo di indagine ricco ed affascinante, per chi voglia andare alla ricerca ed alla rievocazione di modi di vivere ormai desueti ed ignoti alle nuove generazioni. L'Abruzzo, con particolare riferimento alle zone più interne e meno contaminate dal processo di progressivo adeguamento al ritmo incalzante della modernità, è territorio che racchiude in sé un tesoro inestimabile di tradizioni popolari ancora vive, quanto meno nel ricordo delle vecchie generazioni. Sulla base di questo assunto ho voluto intraprendere un lavoro di ricerca, sul campo, in alcuni paesi dell'entroterra teramano per raccogliere dalla viva voce di alcuni personaggi anziani  (spesso molto anziani) una testimonianza diretta,  e ricostruire, per quanto possibile, usanze e pratiche singolari e curiose, che il tempo ha ormai avvolto nel velo della dimenticanza. Naturalmente molte antiche consuetudini, quanto meno singolari agli occhi delle nuove generazioni, trovano già precedente conferma in molti testi specifici che trattano di storia delle tradizioni popolari abruzzesi. La particolarità, però, almeno negli intenti,  è stata quella di dare concreto e fattivo riscontro a quelle  tradizioni, spesso narrate da una generazione all’altra, con una verifica diretta sul campo. Il lavoro, non agevole, anche per via dell'atavica diffidenza che le persone di una certa età, soprattutto nei piccoli paesi dell'interno, palesano ancora davanti ad un microfono e ad un registratore, si è protratto per diversi mesi, ma alla fine ha reso significativi e divertenti esiti, riportando alla luce antichi usi e incredibili stranezze che costituivano, un tempo, i cardini della saggezza popolare.
Allo scopo di affinare la ricerca e nel desiderio di arrivare comunque ad una comparazione tra i diversi racconti degli intervistati,  ho esaminato attentamente le registrazioni, estrapolando i dati comuni che rappresentano l'oggetto di questo breve riassunto del complesso e voluminoso reportage.
Quello che emerge, e che costituisce un comune denominatore, ha attinenza con riti propiziatori, pratiche magiche, terapie naturali, superstizioni e curiose consuetudini. Una sorta di saggezza popolare, patrimonio esclusivo degli anziani che nel nucleo familiare rappresentavano, un tempo, la guida ed il riferimento certo cui rivolgersi nei momenti di difficoltà e, comunque, nei passaggi topici dell'esistenza. Il carisma che "il vecchio" o "la vecchia" di casa potevano avere nel contesto familiare non trova riscontro nella società moderna ed oggi appare inconcepibile alle nuove generazioni immolate alle lusinghe della tecnologia imperante.
La nascita di un figlio era considerato, allora come ora, un segno diretto dell'amore di Dio, un momento di grazia durante il quale si toccava con mano la benevolenza del Creatore verso la propria creatura. Usanza comune in diverse zone era quella di non baciare e di non far baciare da nessuno il neonato prima che avesse ricevuto il Sacramento del Battesimo. Generiche e comunque fuorvianti le risposte alla domanda sul motivo alla base di tale decisione che sembra scaturisse dal timore di una sorta di contaminazione, non solo fisica, ai danni del bambino. Si intendeva, in realtà, tenere lontani dal neonato sia mali reali che esoterici, motivo per cui oltre al divieto di contatto con le labbra per evitare contagi, si appendevano al suo collo cornetti d’oro o d’argento, in una singolare commistione di riti protettivi e propiziatori.  Quest’ultima usanza, confermata dalla concorde testimonianza di molti intervistati, mirava anche a rendere inoffensivo il potere del malocchio, che chiunque avrebbe potuto trasmettere al bambino tramite sguardi invidiosi o carichi di gelosia e di rivalità. La consuetudine, sempre adempiuta in modo discreto ma comunque mai apertamente dissimulato, offriva comode opportunità di scelta a coloro che per un motivo o per un altro avessero dovuto recare un dono al neonato in occasione del battesimo o nelle visite di cortesia che, allora come oggi, si rendevano ai genitori per la nascita del figliolo. Spesso in luogo di cornettini o di altri oggetti “magici” venivano regalati anche cuoricini d’oro e d’argento la cui funzione, in ogni caso, era la medesima: scacciare dal piccolo ogni forma di maleficio o di iettatura e proteggerlo da nefaste influenze negative.
Anche il momento del fidanzamento “in casa” seguiva i canoni di uno specifico rituale, comune a quasi tutti i paesi dell’ entroterra oggetto dell’indagine, fatte salve minime e comunque non rilevanti differenze. Al centro dell’attenzione, quando un giovine di belle speranze si presentava con i propri genitori e casa della futura sposa per chiederne la mano, era la trattativa relativa alla “dote”. Una vera e propria pratica preliminare mirata a concludersi con un contratto scritto, alla presenza di testimoni. Ovviamente le parti in causa erano i genitori dei due ragazzi e sul piatto della bilancia pesava la sostanza della dote di cui la futura sposa avrebbe dovuto disporre  al momento del matrimonio. Una volta trovata l’intesa e ritenuto congruo l’insieme dei beni che la ragazza avrebbe potuto portare con sé, si dava il via al periodo di frequentazione nel corso del quale il giovane avrebbe avuto facoltà di visitare spesso e  senza problemi la casa dei futuri suoceri come fidanzato ufficiale. Questo carisma di ufficialità non gli avrebbe consentito, tuttavia, prima del matrimonio, né di pernottare presso la dimora della ragazza né di portarla con sé in gita se non nell’arco di una sola giornata.  Non ho raccolto consensi da parte delle persone più anziane, quasi tutte più che ottantenni, in merito all’evoluzione dei tempi ed all’assoluta libertà che regola oggi i rapporti tra i teen agers.  Molti di loro vedono anzi nell’indipendenza e nell’emancipazione dei costumi una sorta di regresso che penalizza fortemente quelli che ai loro tempi erano momenti magici e di grande coinvolgimento emotivo. Questo il parere che accomuna pressochè tutti i giudizi espressi al riguardo.
Interessante e confermata da concordanti racconti l’usanza, riportata peraltro in diversi testi dedicati all’argomento,  di mostrare in pubblico, durante il corteo nuziale, la biancheria oggetto della dote,  perchè tutti potessero ammirare la perfezione e la finitezza dei ricami e dei merletti, oltre che l’eccellenza dei tessuti. Naturalmente l’impossibilità di mettere sul piatto della bilancia beni di sufficiente valore per accompagnare la sposa al matrimonio non costituiva motivo talmente ostativo da rendere irrealizzabile l’evento. Traspare, tuttavia, dalle testimonianze degli interlocutori, un malcelato senso di commiserazione per quelle povere giovinette che, quantunque dotate di pregi e buone qualità, avessero dovuto convolare alle nozze senza corredo e senza alcun bene da portare in dote. Tale situazione avrebbe creato comunque una situazione di disagio ad entrambe le famiglie degli sposi, ovviamente per motivi opposti e facilmente intuibili.
Di grande interesse anche i metodi naturali che tanti anni fa venivano usati per curare malanni e stati di malessere fisico. Si ricorreva alle erbe e a medicamenti semplici e genuini, alla portata di tutti e, ciò che più conta, sempre disponibili in casa. Raro e comunque disposto solo dal medico curante ed esclusivamente in casi eccezionali l’acquisto di medicinali in farmacia. Tra le diverse e curiose usanze è confermata da numerose testimonianze quella di utilizzare il vino rosso per impacchi alle ossa doloranti. Sulle ferite aperte veniva invece applicato un impasto di fave secche triturate e mescolate ad acqua, in modo da ottenere una farina densa e compatta.
Quali che fossero gli esiti ed i risultati, certo è che ognuno degli intervistati è ancora oggi fortemente persuaso della bontà ed efficacia dei sistemi sopra illustrati ed attribuisce all’evoluzione-involuzione dei tempi il ricorso a medicamenti chimici, ritenuti comunque tossici e inutilmente costosi.
Senza approfondire troppo l’argomento (per evidenti motivi) ho voluto chiedere notizie anche sul cerimoniale funebre, momento di grande afflizione e di comune cordoglio familiare. Con riferimento ad usanze ancora più lontane nel tempo qualcuno ricorda l’assoluto e strano divieto di  pulire la casa da parte dei congiunti del defunto nel giorno del decesso e la consuetudine, conservata in alcune zone dell’interno ancora oggi, di porre nella bara oggetti cari al deceduto al quale veniva comunque sempre posta in tasca una moneta per pagare il passaggio nell’aldilà. Comune quasi a tutti la menzione del “consolo” , anch’esso citato in diversi testi che trattano di tradizioni popolari abruzzesi. Si trattava di un vero e proprio banchetto funebre che veniva allestito dai parenti del defunto a scopo consolatorio e che prevedeva numerosi brindisi e bevute collettive in memoria del trapassato.
 Molti argomenti interessanti relativi ad eventi quotidiani ed alla vita di ogni giorno completano i dati della raccolta, condotta in successivi step, per evidenti ragioni, connesse alla difficoltà di prolungare oltre certi limiti la durata delle singole registrazioni. Va segnalato inoltre, per puntualità di cronaca, che molte notizie del dossier scaturiscono da domande dirette alle quali alcuni interlocutori “più difficili” , per via dell’età avanzata o per disagi fisici e mentali, hanno potuto rispondere solo confermando o correggendo e modificando in parte l’assunto iniziale. Questa limitazione, in alcuni casi, non ha consentito di portare  alla luce nuovi particolari, ma ha comunque contribuito al disegno iniziale, quello di assolvere ad un’ importante funzione di ratificazione e di prova di alcune usanze del passato, a metà tra la superstizione e le costumanze antiche.
Il materiale oggetto della ricerca  potrà essere utilizzato per un lavoro di più ampio respiro, corredato dalle testimonianze dirette degli interessati,  allo scopo di  lumeggiare un affascinante mondo di semplicità e di schiettezza, genuino ed autentico, per niente affatto  contaminato dalla tecnologia moderna, fredda e sofisticata, frutto amaro delle “magnifiche sorti e progressive”.


venerdì 26 febbraio 2016

SUCCESSO E NOTORIETA'

Un mio caro amico sostiene in modo categorico che la fama, la gloria e la ricchezza sono inversamente proporzionali  all'intelligenza, alla preparazione culturale, alle capacità professionali di un individuo, al suo valore morale. Come  crederci? Ho sempre ritenuto esagerata e fuori luogo questa affermazione, troppo generalizzata e comunque ingenerosa ed ostile nei confronti di chi ha raggiunto, in un modo o nell'altro, i vertici della notorietà.   A volte,  però,  anche le opinioni estreme racchiudono una piccola parte di verità,  soprattutto se suffragate dai fatti.  Recenti episodi di cronaca sembrano volgere in questo senso, spingendomi, mio malgrado,  a dover rivedere, almeno in parte, il mio convincimento. Quando vedo che in questo strano Paese ascendono all'alto gradino della gloria soggetti quanto meno esecrabili, delinquenti, ladri, assassini, malfattori di ogni genere, gente votata alla mala gestione della propria esistenza, mi chiedo: quali requisiti si richiedono per essere chiamati a essere protagonisti di un talk show, di uno special televisivo, di un'intervista importante, per diventare oggetti di culto popolare? Sono personaggi  coloro che delinquono, che evadono il fisco, che rubano ed uccidono: assassini, , bancarottieri, rapinatori, stupratori, pedofili, ladri. Scrivono la storia della loro sventurata vita ed il libro diventa un best seller,  vanno in televisione e fanno i picchi di ascolto, i film che ottengono maggiore successo si ispirano alle loro scellerate malefatte.
Forse il mio caro amico non ha tutti i torti.....