Uscire dalla siepe.
Uscire dal cespuglio di rovi
nel quale sono finito impigliato per errore.
Liberarsi dagli spini, dal viluppo delle foglie,
dalla stretta e dai legacci dei ramoscelli
diventati ormai solide liane e durissimi arbusti.
Venir fuori dal groviglio delle fronde,
dalle ramificazioni che il tempo ha fortificato,
rendendo vano ogni tentativo di liberazione.
Venir fuori dalla siepe,
per il tempo che resterà
poco o tanto che sia.
E volare ancora con gli uccelli liberi del cielo,
fosse pure per un solo magico giorno.
Recensioni, racconti, notizie, aneddoti,commenti, cronache,critiche, favole...... a cura di Sergio di Diodoro - giornalista free lance -
venerdì 23 novembre 2012
IL NATALE DI PAUL
Rannicchiato all’interno della scatola di cartone, ormai zuppa per la neve che veniva giù lenta e copiosa e che un generoso platano, con le sue foglie aperte, riusciva a contenere solo in parte, Paul passava dal sonno leggero al dormiveglia, ruotando spesso su se stesso per lenire il dolore alle ossa, compresse sui sassi del Lungosenna.
Aveva le mani gelate ed il bavero del lacero e consunto cappotto tirato su fino alle orecchie. Gli era di compagnia solo il ritmato e sinuoso sciabordio del fiume , unica voce amica nella buia notte parigina.
Era la vigilia di Natale.
Ogni tanto gli giungevano da lontano abbagli di luci colorate, riflessi argentei e dorati del mondo degli altri, di coloro che la sorte aveva trattato in modo diverso, chissà perché.
Ma non aveva astio né contro gli uomini né contro il suo iniquo destino. L’irreversibilità di quello stato gli assicurava una sorta di rassegnazione che gli permetteva di vivere in simbiosi anche con gli elementi più ostili della natura: con il vento freddo, con la neve e con il gelo, con i dolori alle ossa, i brividi, i tremori ed ogni altro disagio fisico e mentale con cui conviveva da sempre.
Quella, però, era una notte speciale.
Paul se ne accorse quando improvvisamente avvertì per il corpo un calore insolito, quasi come se una coperta lo stesse avvolgendo per portarlo via da lì verso un altro luogo.
S’illuminò di sfavillanti bagliori il platano e la scatola di cartone divenne, come per incanto, una meravigliosa stanza di luce. I suo miseri stracci si trasformarono in abiti lussuosi e sgargianti e il suo viso, da tirato e stanco si fece sereno e luminoso. Gli apparve, allora, in un flash back inatteso l’episodio più bello della sua vita trascorsa e sfiorò le mani di Aline e la strinse in un tenero abbraccio, come quella volta del primo bacio, tanto tempo prima.
S’era mutato ora lo sciabordio del fiume in musica soave ed ogni ghiacciolo appeso s’era tinto di una miriade di riflessi multicolori. Sorrideva Aline, bella e solenne, e lo guidava, tenendolo per mano, verso un sentiero di lucentezza e di non descrivibile fulgore.
Paul sentiva di non appartenere più alla realtà delle cose. Il suo passato, i dubbi, gli errori, le fredde verità, la inesorabili sentenze della vita, gli affetti, i dolori, il riso ed il pianto, la sua misera indigenza, tutto adesso contava meno di nulla. Era diventato il più ricco dei ricchi, era lieto, sereno, finalmente affrancato da ogni umana angoscia. Non v’era moto d’animo che egli non potesse sopire in nome di una nuova e mai provata sensazione di benessere e di pace.
Guardava con commiserazione il suo giaciglio sul fiume, dimora di un’esistenza grama e miseranda, ma non aveva più rancore per quella dolorosa ed infelice vita terrena che la sorte gli aveva destinato.
Aline lo guidava perché l’intensità della luce, che lo impediva nel procedere, non l’abbagliasse oltre misura.
Sorridevano, diretti insieme verso una suprema felicità, reale ma a lui ignota.
I fiocchi di neve volteggiavano nel buio della notte e dal platano cadevano lente e silenti le foglie mosse da una bava di vento.
E s’udiva ancora lo sciabordio della Senna mentre il corpo di Paul, avvolto nel cartone intriso d’acqua, giaceva supino tra i sassi del fiume.
Ma Paul non era più un clochard.
Era la notte di Natale.
mercoledì 3 ottobre 2012
RACCONTO VINCITORE DEL PREMIO "GIAMMARIO SGATTONI" 2012
VIA QUARNARO
Borgo di giovanili memorie
Racconto breve di Sergio Di Diodoro
Il
cancello della casa di nonna
Gaetanella si apriva nel cuore di via
Quarnaro. Era proprio a metà tra la Scuola elementare ed il lungomare. Nel
piccolo giardino, a ridosso della via, una pergola non grande, ma antica,
regalava in settembre meravigliosi grappoli di uva. Era il “moscato”. I chicchi
erano sodi, grandi, dolcissimi. In mezzo ai
raspi spesso trovavi una piccola ragnatela col suo ragno, ma questo in
nessun modo poteva alterare il piacere di mangiare quel “nettare” che veniva consumato direttamente, appena colto,
senza neanche essere lavato. I rami della vite sporgevano a ridosso della
strada e i corposi grappoli rappresentavano per i passanti un piacevole ristoro.
Correvano
gli anni sessanta.
Quando
imbruniva, nei pomeriggi primaverili, tutto il borgo assumeva i colori della
primavera stessa. E la strada diventava odorosa
perché l’aria s’ impregnava degli aromi di ogni pietanza. I peperoni
fritti di Loreta, le alici alla brace di Maria “La Barcapersa” , le polpette di
nonna Gaetanella. Appena terminati i compiti di scuola noi ci riversavamo per
la via, come le lumache quando spiove. Si respirava un dolcissimo nettare di
primavera: il clima era mite, segnale
precursore dell’estate ventura, già annunciata dalle prime fogge audacemente
leggere, dall’abbandono dei pullover di lana, lasciati cadere per terra mentre
si approntava un improvvisato campo di calcio in mezzo alla strada.
E
la strada era poco trafficata. Solo qualche auto, ogni tanto, ci costringeva a
rimuovere le “porte” sul terreno sbrecciato, i quattro mattoni disposti a
cinque passi l’uno dall’altro. Quella era la distanza giusta con riferimento
alle dimensioni del terreno di gioco. Il
pallone, di cuoio, aveva un taglio dal
quale veniva inserita internamente la camera d’aria rossa, poi richiusa dentro
per essere gonfiata. Il lembo attaccato alla pompa veniva rigirato su se stesso
e sistemato nella feritoia, richiusa a sua volta con un cordone di cuoio annodato
e nascosto all’interno. Un processo lungo e riservato ad esperti che riuscivano
a non far vedere null’altro che la strettissima fessura dopo aver gonfiato la
camera d’aria.
Poi
sulla superficie liscia del pallone veniva spalmato grasso animale a volontà,
per ammorbidire il cuoio irrigidito dal continuo contatto con la polvere e con
le pietre del terreno.
Il
profumo del sugo di pomodoro di nonna Gaetana si spandeva nell’aria e nelle
case della via fin dalle prime ore del mattino. Era una sinfonia di aromi,
quasi un elemento naturale di quel quadro dipinto sullo sfondo del mare, che si
intravedeva alla fine della strada, dopo la pineta, e dal quale giungevano
continui effluvi di salsedine, quando si era sotto vento, e il rumore sordo e
dolcissimo della risacca. A pranzo mangiavamo polpette di carne e pane fresco
profumato, profumatissimo, caldo di forno, perché si comprava alle undici, dopo
la seconda uscita, affinchè giungesse in tavola ancora fumante.
Via
Quarnaro era come un luogo di ritrovo naturale. Non occorreva darsi
appuntamenti, né c’era bisogno di fissare orari. Non c’erano regole, se non
quella, non scritta, di essere lì, tutti i giorni, dopo aver terminato i
compiti di scuola. Poi si restava fino a che non fosse scesa la prima oscurità
della sera, quando l’aria cominciava ad impregnarsi dei diversi profumi della
cena imminente. Allora si rientrava a casa. La serata trascorreva senza
televisione, senza telefonini, senza computer, senza stereo. A volte ci si
addormentava, dopo cena, con la testa reclinata sul tavolo, per poi
trasferirsi, assonnati, sotto le fredde lenzuola del letto. I termosifoni non
c’erano e dalla stufa a legna della cucina arrivava nelle camere solo un
tiepido calore. Rispetto agli adolescenti di oggi non avevamo nulla. Vivevamo
di fantasia, di semplicità, di sentimenti vari e genuini, di piccole cose.
Ognuno era felice di niente, ma quel niente era tanto.
Passavano
poche auto in via Quarnaro: in media una ogni trenta o quaranta minuti. Qualche
bici, a volte il carrettino del pescivendolo, qualche scooter. Ma raramente. In
realtà tutta la strada era a nostra disposizione, tanto che i libri di scuola
diventavano i “pali” delle porte di un improvvisato campo di calcio dove si
svolgevano incontri di grande intensità agonistica. Le squadre venivano
definite col sistema della scelta diretta. Due “capitani” improvvisati (in
genere coloro che per primi avevano proposto lo svolgimento dell’incontro)
procedevano ad una “conta” con la quale si stabiliva chi dovesse iniziare a
scegliere, tra i presenti, il primo componente della propria squadra. Poi si
andava avanti così fino alla fine. Naturalmente coloro che venivano scelti
subito erano quelli considerati migliori. Chi veniva scelto per ultimo era il
più “brocco” o, come talora accade, il più “antipatico”. Definite le formazioni
si iniziava a giocare una sorta di partita “a dieci”, ossia senza limiti di
tempo, ma con la regola che la squadra che avesse per prima realizzato dieci
goals sarebbe stata dichiarata vincitrice. L’incontro era sospeso solo nel
rarissimo caso che transitasse un’auto. Diversamente il passaggio di una
bicicletta o di uno scooter non era considerato motivo valido per interrompere
un’azione di gioco. Non esisteva fallo laterale, ma si giocava “di sponda” cioè
potendo utilizzare il rimpallo del pallone su una parete laterale, fosse stato
il muro di una casa, o un cancello, o un marciapiede. Non c’era arbitro. Ogni
decisione in merito a qualche presunto fallo di gioco scaturiva da una specie
di improvvisata ed estemporanea discussione , a volte anche molto vivace, tra i
giocatori coinvolti nello scontro. Allora intervenivano gli altri, e si
ripeteva un rituale sempre identico: un acceso scambio di opinioni, qualche
parola di troppo, qualche spintone. Alla fine emergeva sempre un verdetto
emesso a “furor di popolo”. In genere era molto importante avere in squadra,
oltre a gente capace di giocare a calcio, anche qualcuno in grado di negoziare
bene e capace di gestire le situazioni di criticità. Se poi questi fosse stato
anche fisicamente ben messo e più massiccio degli altri, quindi in grado di far
valere bene le sue ragioni, tanto di guadagnato. Alla fine della partita,
sudati e lerci (la strada non era asfaltata, ma sterrata), si andava a bere
alla fontanella pubblica di viale Orsini, davanti alla Scuola Elementare. E qui
partiva sempre un coro di sbeffeggiamenti indirizzato alla squadra uscita
sconfitta. A volte qualcuno dei perdenti, insofferente davanti alla spietata
volgarità degli sfottò, andava fuori di testa e reagiva con violenza, assalendo
fisicamente qualcuno degli avversari. Nasceva così la classica zuffa tra i due
litiganti che iniziavano a darsele di santa ragione. In luogo di
intervenire per separarli , quasi sempre
gli altri facevano cerchio intorno e assistevano al combattimento incitando
l’uno o l’altro, al grido selvaggio di “match, match” o “botte, botte” . Il
passaggio dal dopo partita al pugilato aveva termine quando qualche passante
adulto si intrometteva nella mischia ed interveniva a separare i due avversari.
A questo punto il gruppo si disperdeva naturalmente, per ricomporsi il giorno
dopo, nello stesso posto, alla stessa ora.
La
domenica mattina tutto il borgo era impregnato di profumi e di fragranze che, mescolandosi tra loro, diventavano il simbolo della giornata. Le
casalinghe di allora, le vere massaie di un tempo, trascorrevano l’intera
mattinata in casa per approntare l’impasto che sarebbe servito per stendere la
sfoglia per poi ottenere la pasta all’uovo, tipico piatto domenicale. Quando
nonna Gaetanella preparava “li maccarì tutt’ove”, cantava ritornelli dei suoi tempi con voce
dolcissima ed argentina ed era un quadro
d’autore. Il profumo del suo sugo di carne e pomodori si spandeva per
l’intera via e l’aveva resa famosa in tutto il quartiere. È impossibile non
ricordare le sensazioni diverse che si provavano quando ci si trovava in
strada, in genere dopo la Messa delle 9,30, per trascorrere la mattinata
inventando qualche diversivo, immersi nella magica atmosfera di quegli aromi,
che preannunciavano il pranzo della domenica, un rito al quale nessuno avrebbe
voluto rinunciare. Un desinare diverso da quello di oggi perché molte pietanze
erano tipiche dei giorni di festa e non sarebbero più transitate sulla tavola
per tutto il resto della settimana. L’attesa, come sempre avviene, era ancora
più bella dell’evento. Così quelle due ore trascorse in strada a fare
nulla, aspettando solo che quelle
suggestive sensazioni si traducessero in realtà, erano momenti magici della
giornata. Il preludio ad un periodo di
ritrovo, di serenità, di pace familiare, ad un pomeriggio di libertà dai
compiti di scuola.
In
genere ci si trovava, intorno alle 14 davanti al cinema Ideal, alla fine di via
Quarnaro. Dopo il pranzo non si poteva
fare altro. O l’incontro di calcio al
Fadini o, se Il Giulianova giocava in
trasferta, pomeriggio al cinema Ideal o
al cinema Ariston. C’era tuttavia un
paletto da superare. Tutte le domeniche, dopo la Messa, occorreva
prendere visione di un avviso esposto ai fedeli sul fondo della Chiesa, nel
quale si fornivano indicazioni sui film
in programmazione: T per tutti, S sconsigliato, V vietato. A volte forzando un
po’ la mano si riusciva ad andare a vedere qualche S, ma per la categoria V non
c’era speranza. Non erano sempre film
scollacciati, anzi, non lo erano quasi mai a quell’ora, ma spesso le
limitazioni riguardavano scene di violenza, immoralità, atteggiamenti corrotti, depravati, ingiusti. La morale era
un’altra. Diverso era anche il rapporto genitori figli, almeno in gran parte
delle famiglie di allora. Non ancora delineata la contestazione sessantottina,
esisteva il rispetto per i genitori, si osservavano scrupolosamente gli
insegnamenti paterni e materni. In altre parole se veniva proibita la visione
del film non c’era verso di ottenere poi
il consenso. Si rinunciava e basta. E così qualche rara volta in cui
nelle due sale si programmavano film vietati si finiva per trascorrere l’intero
pomeriggio in strada, in via Quarnaro, inventando modi diversi per trascorrere
il tempo.
Quello
che chiamavamo “spiazzale” altro non era che un cortile interno, confinante con
casa nostra e con altre case vicine, una
piazzetta di cemento alla quale si accedeva da un grande cancello di ferro che
dava su una piccola via, una traversa
che collegava via Quarnaro con via Nazario Sauro. Era il luogo di ritrovo post
prandiale. Appena terminato il pranzo, infatti, prima di iniziare i compiti di
scuola, si andava “allo spiazzale”,
anche qui per giocare ridotte partite di calcio, spesso tre contro tre, a volte interrotte da qualche adulto che
aveva la sfortuna di avere la finestra della camera prospiciente al cortile e
che, quindi, specie d’estate, protestava per il rumore e gli schiamazzi che gli
impedivano di riposare. A quei tempi non c’era l’impudenza di oggi. Bastava
un rimprovero appena velato e si andava
tutti via. Nessuno osava reagire ad un adulto, fosse stato anche un estraneo.
C’era rispetto per gli anziani. la
discrezione e l’educazione spesso funzionavano in modo tale da reprimere ogni
pur giustificato desiderio di manifestare il proprio dissenso. Correvano
turpiloqui e volgarità, ma solo tra coetanei. Nessuno si sarebbe mai sognato di
rivolgersi con parole inopportune ad una
persona adulta, e tanto meno ad una persona anziana. Eravamo così.
Lo
spiazzale era anche il luogo in cui ci si intratteneva per lavare la bici, per
lavare a volte le radici di liquirizia
riportate a casa ancora interrate. C’era anche, su uno dei muri
laterali, un vecchio anello arrugginito che simulava il canestro del basket. Ma
era riservato a pochi intimi, che,
peraltro assai raramente, organizzavano qualche breve incontro .
Un
fenomeno curioso accadeva spesso: poiché il cancello di ingresso allo spiazzale
rappresentava anche una delle porte del
mini campo di calcio, e restava sempre
aperto perché era assai difficoltoso chiudere le due pesanti ante di
ferro, il pallone finiva sempre per
andare contro una rete di filo spinato che era al di là della
strada. E regolarmente si bucava.
Provammo a risolvere il problema usando il
pallone di cuoio ricucito da un lato e cosparso di grasso animale.
L’effetto era che il cuoio finiva per rovinarsi e
consumarsi sul cemento e il grasso sporcava scarpe, vestiti, mani, gambe e
tutto il resto. Si rientrava in casa completamente luridi e insudiciati. Non
c’era l’uso frequente della doccia e il bagno in vasca era programmato, in genere, per il sabato
sera. Al rientro nessun rimprovero da
parte dei genitori, per quanto
quotidiano, poteva toglierci il piacere accumulato in quella mezz’ora di
libertà, in quell’ovattato microcosmo che era lo spiazzale, ogni giorno.
Di
quei momenti magici ricordo il profumo di mandarino che ci restava sulle mani dopo pranzo per tanto tempo e che poi si
mescolava in una fragranza di aromi con il sapore del grasso del pallone,
intriso di terra e di polvere. Era un contatto diretto, reso ancor più unico
dal cielo plumbeo, da quel freddo secco ma non lancinante che ti spingeva a
muoverti, a correre. Era come se l’aria fosse impregnata di ineffabile
sapidità, un misto di percezioni piacevoli oggi divenute struggente rimpianto.
La
finestra della cucina della casa di via Quarnaro dava proprio sullo spiazzale.
All’imbrunire, durante le serate estive, prima che la luce del giorno lasciasse
spazio all’oscurità incombente, mentre erano in corso le nostre partite
pomeridiane di calcio “a tre”, da quella finestra illuminata si spargeva per
l’aria il profumo della cena: era un dolce e rassicurante richiamo, una sorta
di segnale che preannunciava l’imminente abbandono nel batuffolo degli affetti
familiari. Era quasi un rito la cena in tutto il borgo, perché gli odori che si
spargevano nell’aria dalle finestre aperte creavano una specie di melodia, una
musica meravigliosa fatta di straordinarie ed indicibili sensazioni. E’
difficile descrivere, narrando, quale fantastica commistione si creasse tra gli
aromi delle pietanze pronte per essere servite sulle tavole apparecchiate e la
fragranza degli effluvi presenti nella leggera brezza che s’alzava dal mare
vicino, recando pungenti sentori di
salsedine.
In
quel paradiso vivevamo, negli anni sessanta, noi di via Quarnaro.
domenica 29 luglio 2012
FUNZINO E IL CROLLO DEL '29
Una situazione analoga a quella attuale, con grave crisi dei mercati finanziari e con relativa confusione sociale attanagliò l’economia mondiale nel ’29 , anno del famoso crollo di Wall Street, assestando un duro ed irreparabile colpo soprattutto al ceto di media borghesia che aveva investito i propri risparmi in borsa, traendone lucrosi guadagni fino a quel momento.
Al disastro seguì una forte contrazione nei settori dei beni di consumo, quello automobilistico prima degli altri, e poi quelli agricolo, industriale ed edilizio. Come sempre avviene la stretta interconnessione tra Banche e mondo del lavoro finì per danneggiare tutti, perché i risparmiatori piccoli e grandi, in preda al panico, ritirarono i loro risparmi dagli Istituti di credito i quali a loro volta, per forza di cose, a corto di liquidità, dovettero tagliare i finanziamenti alle imprese, generando una sorta di ridimensionamento assai pericoloso che sfociò, nella stragrande maggioranza dei casi, in numerosi fallimenti con conseguenti licenziamenti e blocco dell’economia.
Si ritenne opportuno, pertanto, tra i vertici finanziari internazionali, andare alla ricerca di un personaggio che potesse leggere bene i numeri della crisi e trovare il capo della ingarbugliata matassa per rimettere un po’ di ordine e porre un freno alla cattiva distribuzione del reddito ed alla cattiva struttura del sistema bancario.
Non a caso, anche in quella particolare e per certi versi tragica circostanza storica, la scelta cadde su Alfonso di Battaglia, che fu immediatamente convocato al New York Stock Exchange , sede del crollo della borsa di Wall Street , e che dovette pertanto abbandonare il campo di battaglia in cui era al momento impegnato come legionario e mercenario.
Armatosi di buona volontà il prode Funzino, dopo aver parlato brevemente con alcuni commessi del Palazzo, individuò immediatamente i fattori scatenanti della crisi, e stilò un piano di risanamento di cui volle far partecipe, per motivi di riservatezza, solo il capo di un gabinetto, lui sapeva quale.
In pochi giorni l’intervento di Funzino risultò determinante e risolutore: analizzò a fondo, con il suo sistema di approccio diretto, i grandi funzionari della Borsa dopo essersi intrattenuto in uno stanzino, volta per volta, con ciascuno di essi. Ne uscirono indignati, ma soddisfatti.
Poi nominò alle cariche più importanti dei settori economico-finanziari il portiere del Palazzo e la sua signora, il bidello della scuola frequentata dal figlio, alcuni operatori ecologici suoi conoscenti, un dirimpettaio analfabeta e due fratelli gemelli di anni cinquantadue, entrambi in possesso della Licenza di quinta elementare.
Rinnovato così il quadro dirigenziale creò fiducia nel popolo e nella maggioranza dei risparmiatori, finalmente rassicurati dalla presenza di gente semplice ma onesta, coma mai era prima accaduto.
Tanta e tale era la capacità "introspettiva" di Funzin de Battaje.
mercoledì 25 luglio 2012
Funzìne e lo scandalo della Banca Romana
Una grandissima rivelazione porta di nuovo alla ribalta la figura di Funzìne. Tutti, o quasi, sanno che lo scandalo della Banca Romana fu seguito da un processo che nel 1894 scagionò tutti, funzionari, amministratori e politici, per insufficienza di prove. In quella sede pare che i giudici accolsero la tesi secondo la quale erano stati sottratti importanti documenti.
Andò veramente così? Oppure Vera Giustizia era già stata fatta pur non passando per i tribunali terreni ma rendendo inutile uno sterile accanirsi contro personaggi già lavati da una giusta punizione? Questi interrogativi trovano oggi una risposta in una incredibile (come poteva essere altrimenti?) serie di testimonianze tramandate oralmente ed arrivate fino a noi. Ancora una volta al centro di questo snodo della storia italiana, che dette vita alla nascita della Banca d’Italia nel 1893, troviamo la figura di Alfonso di Battaglia (meglio noto come Funzìne de Battàjìe).
Dobbiamo però ora tuffarci in quei giorni di fine ottocento e ricostruire come andarono i fatti. Riportiamo un ottimo contributo di uno storico:
"Nel 1889, principalmente a causa della crisi del settore edilizio, alcune banche si trovarono sull’orlo del fallimento. La cosa accreditò le voci che circolavano da tempo circa un’eccessiva emissione di carta moneta da parte delle banche autorizzate. Il ministro dell’agricoltura Miceli promosse l’inchiesta amministrativa per verificare l’operato delle banche autorizzate a stampare moneta che fu affidata al senatore Giuseppe Alvisi (già deputato della Sinistra) insieme al funzionario del tesoro Gustavo Biagini. Bisognava capire, in particolare, se il quantitativo di denaro emesso fosse congruo ai parametri stabiliti. I risultati confermarono i sospetti: la Banca romana aveva stampato 25 milioni di lire in più e aveva sanato l’ammanco di diversi milioni con una serie di biglietti falsi (duplicava cartamoneta già stampata); inoltre fu messo in evidenza il coinvolgimento diretto del suo governatore Bernardo Tanlongo. Dalle indagini emerse anche che la Banca aveva utilizzato questo denaro non solo per finanziare le speculazioni edilizie, ma anche politici e giornalisti.
Per evitare lo scandalo durante i tre anni successivi Crispi, Giolitti e anche Di Rudinì preferirono tenere segreti i risultati in nome degli interessi più alti della patria. L’inchiesta, dunque, venne insabbiata per scongiurare le conseguenze negative che avrebbe avuto tanto sul sistema creditizio che sul mondo politico."
Poì lo scandalo scoppiò comunque il 20 dicembre del 1892 ma, come anticipato, il giudice non comminò alcuna condanna.
Cosa successe? E perché? Semplicemente dopo aver letto il resoconto del Senatore Giuseppe Alvisi, Giolitti Crispi e Di Rudinì, dopo attento esame della situazione sia economica che politica decisero di affidare la questione ad un uomo migliore di loro. Qualcuno che avesse il rispetto condiviso di tutte le forze politiche, degli ambienti finanziari ed anche dei togati. Inviarono pertanto un corpo di spedizione scelto per rintracciare Alfonso di Battaglia che in quel periodo, come sempre, scorrazzava tra i campi di battaglia di mezzo mondo. I messaggeri militari recavano un laconico messaggio affidato ad un misero bigliettino: "Banca Romana" seguito dalla firma dei tre capi di governo.
Ora lasciamo parlare le testimonianze di chi ha visto e sentito: "Il giorno di Natale del 1892 uno strano viandante entrò nel portone della Banca Romana scortato da due Carabinieri. Era ancora buio quando dal palazzo uscirono i gendarmi diretti in Caserma: avevano il compito di richiamare in Banca, pur in quel giorno di festa, tutti i dipendenti, amministratori e direttori presenti sulla lista stilata dal Funzino. Fino all’ora di pranzo arrivarono alla spicciolata e scortati da militari quelli ritenuti i responsabili dello scandalo. L’allora governatore della Banca Romana Tanlongo questionò i titoli del Funzino "chi sarebbe lei?". Subito zittito da un sonoro schiaffatone, tutto capì e, piangendo, si tacque."
Terminiamo dicendo che il commissariamento di fatto della Banca Romana, non riportato in alcun documento storico ufficiale, durò complessivamente 24 ore (dall’alba del 25 dicembre 1892 all’alba del 26 dicembre dello stesso anno). Come riportano le testimonianze "Chiamato ognuno al suo cospetto, chiusa la porta e rimasto solo con l’imputato, a ciascuno dava secondo le colpe. Tutti, piangendo, si pentirono. Giustizia fu fatta."
Al processo ai giudici fu detto "C’ha penzàte Funzin". Furono clementi.
P.S. Narrano cronache successive che fu poi acclarato che il buon Funsino avrebbe "analizzato" ognuno dei suoi interlocutori, fisicamente e psicologicamente, fino a trarne il massimo risultato soddisfacente per lui e per gli altri.
martedì 19 giugno 2012
PATENTI E PATENTATI
Per conseguire la patente di guida occorre superare un esame attitudinale, dopo aver risposto correttamente ai famosi quiz che il Ministero dei Trasporti propone e per avere ragione dei quali è necessaria una lunga e attenta preparazione sui testi all’uopo predisposti e forniti dalle varie Scuole Guida che operano in tutto il Paese. Fin qui tutto regolare. Poi nel corso della carriera automobilistica del patentato, però, le cose cambiano. Innanzitutto non è previsto mai un corso di aggiornamento (anche senza esame) per avere cognizione dei vari mutamenti che avvengono durante gli anni e che a volte sono anche significativi e sconvolgenti. Si apprende solo dall’uso pratico, ad esempio, che nelle rotonde bisogna dare la precedenza a sinistra, pur non avendolo mai letto né studiato su alcun testo e pur non avendo mai risposto in proposito a specifici quiz inerenti alla nuova regola. E’ solo un esempio. Altri se ne potrebbero citare, non ultimo quello relativo alla presenza di nuovi segnali stradali che un conducente con preparazione anni ’60 non ha mai visto. Passi. E che dire della nuova normativa che impedisce ai giovani neo patentati di guidare una moto di cilindrata 300 se non sono in possesso di specifico patentino "A"? Giusto, corretto e prudente. Ma come mai chi ha conseguito la patente prima della Riforma può farlo pur non essendo mai salito su una moto? Mistero. Mistero con conseguenze a volte risibili. Mio figlio trentenne patentato che guida correntemente lo scooter 50 non può salire sulla Vespa 300. Mia moglie, patentata anni ’60 che non è mai salita su uno scooter nella parte anteriore e che ha sempre fatto la passeggera, volendo, potrebbe guidare la mia moto Tenerè 600 enduro fuori strada che, se cade, ha bisogno di tre persone per essere risollevata.
Misteri della Motorizzazione civile .
giovedì 5 aprile 2012
LA CRISI - FALSI SIGNORI E VERI IGNORANTI
LA CRISI – FALSI SIGNORI E VERI IGNORANTI
E se questa crisi fosse come una coperta che viene tolta all’improvviso e che svela le nudità di coloro che sotto di essa ascondevano lacune e peccati, ignoranza, presunzione, mancanza di cultura, e mille altri difetti ancora che solo il dio denaro era in grado di non far apparire alle genti? Se davvero tutti questi felici plutocrati fossero smascherati dall’improvviso tsunami della recessione e messi in condizione di apparire così come mamma li fece, ossia non più vestiti dell’etereo velo dell’apparenza, ma ignudi e palesemente esposti al giudizio degli altri? Ecco che allora, caduto il castello della loro apparente solidità, verrebbe fuori in tutta la sua portata la loro reale essenza, il loro basso o inesistente acculturamento, la mala educazione, l’ignoranza, il cattivo gusto, la viltà. Sei grande e sei qualcuno perché possiedi del denaro? Perdi il denaro e non sei più nessuno.
Questo potrebbe generare di positivo la crisi. Andare a vuotare le tasche di coloro che forti della propria potenza economica hanno costruito una finta egemonia, millantando doti e virtù che non hanno mai posseduto ma che il denaro ha virtualmente inventato per loro, favorendo false apparenze e presentandoli all’opinione pubblica come personaggi degni di ogni rispetto e di ogni riverente attenzione. Un micidiale cocktail di nulla presentato come un insieme di valori destinato a creare carisma negli altri.
Chi è in grado di esibire la propria appartenenza al ceto dei prediletti dal dio denaro è considerato persona di cultura, di buone doti morali, di alte capacità sociali, di encomiabile educazione, di raffinato gusto. Ma se la coperta salta e le tasche si vuotano per l’impetuosità del vento che rinnova l’economia e se i ricchi ma finti signori diventano veri poveri la musica cambia. Allora emerge la loro originaria natura che li espone al ludibrio ed al giudizio degli altri senza la protezione di quel velo di ipocrisia con cui il dio denaro li aveva protetti fino a quel momento.
Ecco che allora il ricco ignorante, tornato solo ignorante, non ha più dalla sua la possibilità di camuffare la propria incultura e torna nell’indifferenziato cosmo dell’anonimato e dell’inettitudine. Ora nessuno più è disposto a perdonargli inurbanità, sgarbatezze e villanie e nessuno più è propenso a stare ad ascoltarlo, ad assecondarlo nelle sue amenità a passar sopra alle sue prevaricazioni.
Questa è la potenza del dio denaro.
Questo potrebbe essere un effetto positivo della crisi.
lunedì 12 marzo 2012
RUSSELL E FUNSINO
L'ennesimo messaggio del mio amico ricercatore se da un lato riporta ancora un episodio della intensissima esistenza di Funsino de Battaje, d'altro canto apre questa volta uno scenario importante a chi vuole veramente comprendere il significato di questo personaggio nella storia dell'uomo. Si dia dunque la giusta lettura all'avvenimento descritto e chi vuole comprendere comprenda perchè in ogni epoca della storia un "Funsino" è davvero sempre presente.......
Caro Sergio,
Se non sapessi vero quello che ti sto per raccontare, ti giuro che non lo crederei. Ti pongo ancora, dunque, questo interrogativo: "e' mai possibile che una figura di tale importanza sia passata inosservata nello scorrere della storia?". Forse ciò e' conseguenza della FILOSOFIA DELLA VITA che Funsino praticava e praticamente insegnava. Quello che segue ti convincerà della bontà di tale interpretazione.
Secondo quanto riportato dal logico Ludwig Wittgenstein, grande amico di Lord Bertrando Russell - il grande filosofo britannico - Funsino nel 1912 si aggirava nei pub di Cambrige dove ebbe occasione di incontrare il grande pensatore d'oltre manica. Il naturale magnetismo del Grande Funsino non poté non attrarre a se', come una calamita, la curiosità e l'attenzione del filosofo. Egli, il filosofo, stava in quel tempo approfondendo nei suoi "Principia Mathematica" la possibilità di dimostrare l'esistenza di principi logico-matematici evidenti ed assoluti, non subordinati all'esistenza della mente pensante. Russell si proponeva di dimostrare se l'assunto 2+2=4 fosse vero in assoluto, o se la veridicità dello stesso fosse subordinata alla struttura della mente che eseguiva l'operazione. Bel dilemma davvero. Alfonsino dal canto suo girovagava ramingo come ormai siamo abituati ad immaginarcelo.
Un freddo giovedì di fine novembre del 1912, in un pub frequentato dagli studenti dell'università di Cambridge dove Bertrando era giovane professore, lo stesso si imbatte' nel volto inquieto e pensoso di Funsino. Credendolo, come e', un Grande Uomo gli si avvicino' e comincio' ad esporgli la sua teoria. Funsino, una pinta dopo l'altra, lo guardava silente mostrando solo raramente segni di fastidio. Ormai prossimi all'alba, con un brusco gesto della mano il Camplese zitti' Russell e pronuncio' la storica frase: "Cuio', vid ch'ncula ae' nandre cose ch'esse nculate".
Ecco la filosofia della vita di Funsino basata sulla persuasione, a volte dolorosa, dell'evidenza empirica. Da allora Bertrand Russell abbandono' i principi matematici.
Un saluto
Fai clic qui per rispondere, rispondere a tutti o inoltrare il messaggio
Caro Sergio,
Se non sapessi vero quello che ti sto per raccontare, ti giuro che non lo crederei. Ti pongo ancora, dunque, questo interrogativo: "e' mai possibile che una figura di tale importanza sia passata inosservata nello scorrere della storia?". Forse ciò e' conseguenza della FILOSOFIA DELLA VITA che Funsino praticava e praticamente insegnava. Quello che segue ti convincerà della bontà di tale interpretazione.
Secondo quanto riportato dal logico Ludwig Wittgenstein, grande amico di Lord Bertrando Russell - il grande filosofo britannico - Funsino nel 1912 si aggirava nei pub di Cambrige dove ebbe occasione di incontrare il grande pensatore d'oltre manica. Il naturale magnetismo del Grande Funsino non poté non attrarre a se', come una calamita, la curiosità e l'attenzione del filosofo. Egli, il filosofo, stava in quel tempo approfondendo nei suoi "Principia Mathematica" la possibilità di dimostrare l'esistenza di principi logico-matematici evidenti ed assoluti, non subordinati all'esistenza della mente pensante. Russell si proponeva di dimostrare se l'assunto 2+2=4 fosse vero in assoluto, o se la veridicità dello stesso fosse subordinata alla struttura della mente che eseguiva l'operazione. Bel dilemma davvero. Alfonsino dal canto suo girovagava ramingo come ormai siamo abituati ad immaginarcelo.
Un freddo giovedì di fine novembre del 1912, in un pub frequentato dagli studenti dell'università di Cambridge dove Bertrando era giovane professore, lo stesso si imbatte' nel volto inquieto e pensoso di Funsino. Credendolo, come e', un Grande Uomo gli si avvicino' e comincio' ad esporgli la sua teoria. Funsino, una pinta dopo l'altra, lo guardava silente mostrando solo raramente segni di fastidio. Ormai prossimi all'alba, con un brusco gesto della mano il Camplese zitti' Russell e pronuncio' la storica frase: "Cuio', vid ch'ncula ae' nandre cose ch'esse nculate".
Ecco la filosofia della vita di Funsino basata sulla persuasione, a volte dolorosa, dell'evidenza empirica. Da allora Bertrand Russell abbandono' i principi matematici.
Un saluto
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mercoledì 15 febbraio 2012
SI’, MA IL FESTIVAL ?
Ho gli stessi anni del Festival di Sanremo. Si può dire, quindi, che siamo nati e cresciuti insieme e che entrambi abbiamo attraversato periodi della vita caratterizzati da gioie, dolori, piaceri, inganni, illusioni, vittorie, sconfitte. Tutto ciò, insomma, che fa parte del paniere dell’esistenza e che si snoda nel corso del tempo, in modo alterno ed imprevedibile, a volte casuale, a volte conseguenza di scelte personali, giuste o sbagliate che siano. Il mio coetaneo, come accade a tutti e come è accaduto anche a me, è cambiato durante il procedere degli anni, modificando la sua struttura, tanto che oggi faccio fatica a riconoscerlo.
Quando lo guardavo possedevamo in casa un televisore di quelli a manopole, collegato ad uno stabilizzatore di corrente, ed il cui schermo, tutt’altro che piatto, era spesso velato da un fastidiosissimo effetto neve, eliminabile solo con l’intervento di un tecnico che non arrivava mai. Ci si riuniva in tanti per seguire la trasmissione davanti alla Tv, anche perché c’era un solo canale disponibile, e nessuna possibilità di scelta. Ma lui, il Festival, era diverso. Un presentatore, ben vestito, educato, molto formale. Una madrina, composta, garbata, aggraziata e gradevole non necessariamente impegnata ad apparire intelligente. Dodici o più cantanti in coppia, ben vestiti, pettinati, educati. Esibizioni divise in tre serate. Prima serata, alcuni promossi, alcuni eliminati. Seconda serata, alcuni promossi, altri eliminati. Terza serata finale, il sabato, solo i promossi. Poi tre canzoni vincitrici. Senza conoscere l’esito si ascoltavano nell’ordine la terza classificata, poi la seconda, poi la prima. Tutto molto semplice, lineare, di facile lettura. Nessun ripescato, nessun calcolo cervellotico per l’assegnazione dei punteggi, nessuna alchimia che rendesse tutto comprensibile solo ai laureati in ingegneria nucleare. Chi ha più punteggio vince. Non ospiti d’onore provenienti da oltre oceano, nessun messaggio da trasmettere, nessuna valenza sociologica. Solo canzoni, ritornelli, cantanti in giacca e cravatta e donne in eleganti decolté. E tutti i fiori di Sanremo.
Il mio amico Festival veste oggi abiti diversi. E’ sofisticato, ridondante, carico, artificioso, pedante, sofistico. Ha l’aspetto di un Congresso di filosofi, il volto di un meeting di cervelloni, non è più genuino ma adulterato dal pressante bisogno di assumere un abito ideologico, di tener dietro ad una mission, quella di apportare valori alla Società, di trasmettere precetti e dottrine, di erudire gli astanti. Se i cantanti non ci fossero sarebbe la stessa cosa. E’ un’altra persona, un saccente educatore, un dottorale pedagogo che sentenzia e pontifica da uno scanno. Una sorta di saggio moderno, un critico, un censore, un giudice.
Ma chi gli ha detto di essere cosi? Perché un evento canoro, peraltro degno di ogni rispetto, come un vecchio canuto e stanco, assurge a paladino del bene collettivo, diventando uno strumento di perbenismo e di epurazione?
E se pure volessimo accoglierlo per tale perché chiamarlo ancora il “Festival della canzone italiana?”
Quando lo guardavo possedevamo in casa un televisore di quelli a manopole, collegato ad uno stabilizzatore di corrente, ed il cui schermo, tutt’altro che piatto, era spesso velato da un fastidiosissimo effetto neve, eliminabile solo con l’intervento di un tecnico che non arrivava mai. Ci si riuniva in tanti per seguire la trasmissione davanti alla Tv, anche perché c’era un solo canale disponibile, e nessuna possibilità di scelta. Ma lui, il Festival, era diverso. Un presentatore, ben vestito, educato, molto formale. Una madrina, composta, garbata, aggraziata e gradevole non necessariamente impegnata ad apparire intelligente. Dodici o più cantanti in coppia, ben vestiti, pettinati, educati. Esibizioni divise in tre serate. Prima serata, alcuni promossi, alcuni eliminati. Seconda serata, alcuni promossi, altri eliminati. Terza serata finale, il sabato, solo i promossi. Poi tre canzoni vincitrici. Senza conoscere l’esito si ascoltavano nell’ordine la terza classificata, poi la seconda, poi la prima. Tutto molto semplice, lineare, di facile lettura. Nessun ripescato, nessun calcolo cervellotico per l’assegnazione dei punteggi, nessuna alchimia che rendesse tutto comprensibile solo ai laureati in ingegneria nucleare. Chi ha più punteggio vince. Non ospiti d’onore provenienti da oltre oceano, nessun messaggio da trasmettere, nessuna valenza sociologica. Solo canzoni, ritornelli, cantanti in giacca e cravatta e donne in eleganti decolté. E tutti i fiori di Sanremo.
Il mio amico Festival veste oggi abiti diversi. E’ sofisticato, ridondante, carico, artificioso, pedante, sofistico. Ha l’aspetto di un Congresso di filosofi, il volto di un meeting di cervelloni, non è più genuino ma adulterato dal pressante bisogno di assumere un abito ideologico, di tener dietro ad una mission, quella di apportare valori alla Società, di trasmettere precetti e dottrine, di erudire gli astanti. Se i cantanti non ci fossero sarebbe la stessa cosa. E’ un’altra persona, un saccente educatore, un dottorale pedagogo che sentenzia e pontifica da uno scanno. Una sorta di saggio moderno, un critico, un censore, un giudice.
Ma chi gli ha detto di essere cosi? Perché un evento canoro, peraltro degno di ogni rispetto, come un vecchio canuto e stanco, assurge a paladino del bene collettivo, diventando uno strumento di perbenismo e di epurazione?
E se pure volessimo accoglierlo per tale perché chiamarlo ancora il “Festival della canzone italiana?”
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