Quel perentorio “Ai
posti di combattimento!” con cui si presentava in aula con i libri in mano
e spingendo la porta con un piede, il giorno in cui c’era compito in classe,
non era solo un invito alla massima concentrazione per l’impegno di quel
momento, ma era un monito universale, una sorta di precetto da osservare per
sempre durante la vita, una dura legge che nell’adolescenza si ignora
ancora. Quel simpatico incitamento era
un sistema inusuale, strambo e bizzarro per sollecitarci a guardare il futuro con
animo impavido, uno sprone ad armarci di forza e di coraggio per affrontare gli
ostacoli ed i casi della sorte.
Così Pietro Ferrari da Giulianova, come amava nominarsi, inculcava ad intere e successive generazioni
di studenti, sani principi esistenziali, sempre giocherellando con motti e
gesti tra il serio ed il faceto, tra citazioni e rime, forbiti richiami
classici e sontuose espressioni auliche. Una cultura infinita, sempre pronta ad
emergere dal suo aspetto austero ed umile al tempo stesso, imponente e carismatico, ma mai distaccato.
Tutto ciò che arrivava, in termini di insegnamento, giungeva
da una via diversa, insolita, affatto anomala. Imparavi a conoscere e ad
apprezzare un autore perché lui riusciva a farti ripercorrere a ritroso il
travagliato cammino che partiva dal tormento dell’ispirazione per culminare
poi nella genesi di un’opera, esaltando
la fase embrionale ed il conflitto
interiore che l’avevano generata. Forse perché Ferrari era lui stesso grande
poeta, scrittore e critico, uomo eccellente
che vibrava di ineffabili sensazioni dell’animo e di brividi di puro lirismo.
Pietro, Pierino come lo chiamavano gli amici del mare, della
sua sempre amata Giulianova, percorreva sentieri paralleli all’esistenza
terrena. Capivi che quell’aspetto fisico burbero e possente non apparteneva
alla comune realtà delle cose, al routinario procedere del tempo. La sua figura
massiccia era addolcita da una incomparabile sapienza, di cui non dava mostra
in modo indiscreto, ma che traspariva tuttavia
da ogni gesto e da ogni parola, come se tutto in lui sublimasse da un’ eburnea
base di conoscenza, non intaccabile da fuori.
Essere stato tra coloro che dai banchi del Liceo, durante i mitici
e favolosi anni sessanta, l’ascoltarono erudire, insegnare, o solo discorrere e
parlare, e poi declamare a memoria interi canti della Divina Commedia, non è
privilegio da poco. Coglievi nel suo
sguardo i fulminei raggi di un’indefinibile stravaganza, quasi come se volasse nell’etereo
spazio di una sua ascosa e impenetrabile dimensione alla quale sapevi che mai
avresti potuto accedere. Era un suo microcosmo, vago e indefinito, avvolto nella
coltre nebulosa di un continuo fastidio esistenziale, sempre altalenante tra “”amor vitae “” e “” cupio dissolvi”” come
bene avvertì il Santucci, che l’ebbe collega all’Università, recensendo alcune
sue “Esperienze liriche dell’inesistenza”
(“Il mio cuore sepolto, se lo sfiora un
richiamo di luce dalla vita, abbrividisce un attimo e rimuore”).
Tra i molteplici e mai negletti ricordi mi sovviene di un
mattino di novembre : la tenue luce di un pallido sole, il sapore appena aspro
dell’aria dell’autunno inoltrato, durante una gita scolastica. Con quel suo
fare sornione non smetteva di passare di continuo dal fare giocoso alla domanda
diretta, seria e cattedratica: mi chiese senza pudore ed ex abrupto l’aoristo passivo di “Orao”, comparendomi
davanti all’improvviso mentre m’ero coraggiosamente appartato con un amoretto
liceale in un angolino del ristorante, complice l’atmosfera di diversità che si
respirava così lontano dall’aula….
Eppure non mi parve inopportuna quell’intrusione. Faceva
parte del gioco d’insieme, del mirabile clima di goliardica complicità che
aveva instaurato con noi tutti e che lo rendevano un insegnante davvero “diverso”.
Anche per questi episodi così peculiari ed atipici Pietro Ferrari
non può essere descritto né definito senza onerosi stenti e senza che, vergando
il foglio, la penna esiti e indugi, perché il ricordo rende lucidi gli occhi e
genera un nostalgico groppo in gola.
Nelle pause e nei non molti momenti
confidenziali raccontava di sé, delle sue numerose sentimentali avventure
trascorse e dei suoi tormenti adolescenziali, sempre velando ogni frase ed ogni
espressione sotto un sottile strato di inquietudine e di mai sopita mestizia.
Quasi come se il tempo, così velocemente fuggendo (“Ruit
hora, fugit irreparabile tempus” sempre sentenziava) l’avesse privato di
qualcosa che si sarebbe aspettato come giusto seguito, trasferendolo da una primitiva
e inconsapevole dimensione di luce ad un consapevole spazio di tenebra
incombente (“”Come divenni, io infinito,
un uomo?””) .
Scrittore e poeta dall’animo sensibilissimo, usava il suo
cantare per difendersi dall’imperversare degli eventi, cui soggiaceva in modo
non inerte, affidandosi ad un fortissimo
sentire. Così raccontò una volta che travolto al largo dai marosi durante
un’uscita con la barca in mare, sul punto di cedere alla violenza dei flutti,
con tutto lo spirito guerriero che gli era dentro s’oppose indomito alla furia
degli elementi e dichiarò a se stesso che mai nella vita avrebbe ceduto alla
paura, e che sempre avrebbe preferito “” vivere
fortissimamente, oppure morire”.
Subiva il travaglio culturale in modo intenso e sofferto,
eppure da esso traeva linfa vitale, illuminazioni e valori di ricchezza morale
che con assoluta semplicità riusciva a trasferire ai suoi adepti, perché tali
per lui noi eravamo e non solo studenti di Liceo.
Durante le mirabili citazioni e declamazioni dei brani,
sempre recitati a memoria, sapientemente modulava l’accento tonico con volute
esagerazioni, esaltando il senso ed il significato del testo e solennizzando ogni singolo termine ed ogni parola fino a
sublimarne magicamente l’essenza.
Guardandolo con continuo interesse dal mio banco in prima
fila durante le lezioni, e cercando continuamente di cogliere in ogni suo gesto o in ogni
espressione del suo viso qualche particolare che potesse aiutarmi a decifrarne
la complessissima indole, sempre
immaginai che grande uniformità di sentire dovette covare in sé con lo “spirto guerriero” del Carducci, o con
l’animo nobile e ribelle di quel Farinata degli Uberti, di cui spesso
all’occorrenza in aula richiamava le doti di grande fierezza, mimando, dopo
essersi alzato in piedi sulla pedana della cattedra e gonfiato il torace in
modo buffo e curioso, il fatidico momento dell’incontro con Dante. “”Io avea il mio viso nel suo fitto, ed el
s’ergea col petto e con la fronte come avesse l’Inferno in gran dispitto……”
urlava con la possente voce che
rintronava simile al fragore del tuono per tutti i corridoi del Liceo e che
per il seguito dei nostri giorni noi avremmo
tante volte riudito rimbombare in testa come un monito ad affrontare la vita
con ferma determinazione ripudiando per principio ogni vile sottomissione.
Ferrari era maestro, guida e precettore. Il suo insegnamento travalicava gli schemi e
gli stereotipi del tradizionale sistema di erudizione e spaziava nel campo
esistenziale, sicchè tutto ciò che da lui si apprendeva avrebbe avuto, in
futuro, possibile ed utile applicazione nella quotidianità, fornendo preziosi
lumi per cercare di rendere intelligibile il “mistero della vita”. E proprio quel
grande mistero lo occupava, senza sosta e senza tregua, in ogni istante della
sua esistenza, ponendogli non pochi affanni, fino all’ultimo giorno (“”che io non ti abbia atteso invano”” si
legge sulla lapide del suo sepolcro nell’autonecrologio con riferimento
all’Essere Supremo del quale sempre avvertì con travaglio interiore, ma con
ferma convinzione, la reale esistenza).
Aveva mani tozze e rudi, callose e nodose, come quelle di un
vero marinaio. E davanti al mare, quando nei giorni di burrasca amava
rifugiarsi nel suo caro Trabocco sul porto, veniva fuori quel mirabile
contrasto tra il suo aspetto fisico forte e possente e la sensibilità del suo
animo capace di recepire i minimi sussulti del cuore.
Quando personaggi di tale ricchezza interiore entrano in
contatto con gli altri lasciano il segno. Noi sessantottini, liceali,
desiderosi di cambiare il mondo, travolti dagli eventi e dalle ideologie di
quegli anni difficili, avevamo tanto bisogno di essere guidati e portati per
mano per essere avviati sulla giusta strada.
Pietro Ferrari è stato il nostro grande maestro di vita.
Noi non lo dimenticheremo mai.