mercoledì 1 luglio 2015

PIETRO FERRARI DA GIULIANOVA

Quel perentorio “Ai posti di combattimento!” con cui si presentava in aula con i libri in mano e spingendo la porta con un piede, il giorno in cui c’era compito in classe, non era solo un invito alla massima concentrazione per l’impegno di quel momento, ma era un monito universale, una sorta di precetto da osservare per sempre durante la vita, una dura legge che nell’adolescenza si ignora ancora.  Quel simpatico incitamento era un sistema inusuale, strambo e bizzarro per sollecitarci a guardare il futuro con animo impavido, uno sprone ad armarci di forza e di coraggio per affrontare gli ostacoli ed i casi della sorte.
Così Pietro Ferrari da Giulianova, come amava nominarsi,  inculcava ad intere e successive generazioni di studenti, sani principi esistenziali, sempre giocherellando con motti e gesti tra il serio ed il faceto, tra citazioni e rime, forbiti richiami classici e sontuose espressioni auliche. Una cultura infinita, sempre pronta ad emergere dal suo aspetto austero ed umile al tempo stesso,  imponente e carismatico, ma mai distaccato.
Tutto ciò che arrivava, in termini di insegnamento, giungeva da una via diversa, insolita, affatto anomala. Imparavi a conoscere e ad apprezzare un autore perché lui riusciva a farti ripercorrere a ritroso il travagliato cammino che partiva dal tormento dell’ispirazione per culminare poi  nella genesi di un’opera, esaltando la  fase embrionale ed il conflitto interiore che l’avevano generata. Forse perché Ferrari era lui stesso grande poeta, scrittore e critico,  uomo eccellente che vibrava di ineffabili sensazioni dell’animo e di brividi di puro lirismo.
Pietro, Pierino come lo chiamavano gli amici del mare, della sua sempre amata Giulianova, percorreva sentieri paralleli all’esistenza terrena. Capivi che quell’aspetto fisico burbero e possente non apparteneva alla comune realtà delle cose, al routinario procedere del tempo. La sua figura massiccia era addolcita da una incomparabile sapienza, di cui non dava mostra in modo  indiscreto, ma che traspariva tuttavia da ogni gesto e da ogni parola, come se tutto in lui sublimasse da un’ eburnea base di conoscenza, non intaccabile da fuori.
Essere stato tra coloro che dai banchi del Liceo, durante i mitici e favolosi anni sessanta, l’ascoltarono erudire, insegnare, o solo discorrere e parlare, e poi declamare a memoria interi canti della Divina Commedia, non è privilegio da poco.  Coglievi nel suo sguardo i fulminei raggi di un’indefinibile stravaganza, quasi come se volasse nell’etereo spazio di una sua ascosa e impenetrabile dimensione alla quale sapevi che mai avresti potuto accedere. Era un suo microcosmo, vago e indefinito, avvolto nella coltre nebulosa di un continuo fastidio esistenziale,  sempre altalenante  tra “”amor vitae “” e “” cupio dissolvi”” come bene avvertì il Santucci, che l’ebbe collega all’Università, recensendo alcune sue “Esperienze liriche dell’inesistenza (“Il mio cuore sepolto, se lo sfiora un richiamo di luce dalla vita, abbrividisce un attimo e rimuore”).
Tra i molteplici e mai negletti ricordi mi sovviene di un mattino di novembre : la tenue luce di un pallido sole, il sapore appena aspro dell’aria dell’autunno inoltrato, durante una gita scolastica. Con quel suo fare sornione non smetteva di passare di continuo dal fare giocoso alla domanda diretta, seria e cattedratica: mi chiese senza pudore ed  ex abrupto l’aoristo passivo di “Orao”, comparendomi davanti all’improvviso mentre m’ero coraggiosamente appartato con un amoretto liceale in un angolino del ristorante, complice l’atmosfera di diversità che si respirava così lontano dall’aula….
Eppure non mi parve inopportuna quell’intrusione. Faceva parte del gioco d’insieme, del mirabile clima di goliardica complicità che aveva instaurato con noi tutti e che lo rendevano un insegnante davvero “diverso”.
Anche per questi episodi così peculiari ed atipici Pietro Ferrari non può essere descritto né definito senza onerosi stenti e senza che, vergando il foglio, la penna esiti e indugi, perché il ricordo rende lucidi gli occhi e genera un nostalgico groppo in gola.
   Nelle pause e nei non molti momenti confidenziali raccontava di sé, delle sue numerose sentimentali avventure trascorse e dei suoi tormenti adolescenziali, sempre velando ogni frase ed ogni espressione sotto un sottile strato di inquietudine e di mai sopita mestizia. Quasi come se il tempo, così velocemente  fuggendo (“Ruit hora, fugit irreparabile tempus” sempre sentenziava) l’avesse privato di qualcosa che si sarebbe aspettato come giusto seguito, trasferendolo da una primitiva e inconsapevole dimensione di luce ad un consapevole spazio di tenebra incombente (“”Come divenni, io infinito, un uomo?””) .
Scrittore e poeta dall’animo sensibilissimo, usava il suo cantare per difendersi dall’imperversare degli eventi, cui soggiaceva in modo non inerte, affidandosi ad un  fortissimo sentire. Così raccontò una volta che travolto al largo dai marosi durante un’uscita con la barca in mare, sul punto di cedere alla violenza dei flutti, con tutto lo spirito guerriero che gli era dentro s’oppose indomito alla furia degli elementi e dichiarò a se stesso che mai nella vita avrebbe ceduto alla paura, e che sempre avrebbe preferito “” vivere fortissimamente, oppure morire”.
Subiva il travaglio culturale in modo intenso e sofferto, eppure da esso traeva linfa vitale, illuminazioni e valori di ricchezza morale che con assoluta semplicità riusciva a trasferire ai suoi adepti, perché tali per lui noi eravamo e non solo studenti di Liceo.
Durante le mirabili citazioni e declamazioni dei brani, sempre recitati a memoria, sapientemente modulava l’accento tonico con volute esagerazioni, esaltando il senso ed il significato del testo e solennizzando  ogni singolo termine ed ogni parola fino a sublimarne magicamente l’essenza.
Guardandolo con continuo interesse dal mio banco in prima fila durante le lezioni, e cercando continuamente  di cogliere in ogni suo gesto o in ogni espressione del suo viso qualche particolare che potesse aiutarmi a decifrarne la complessissima indole,  sempre immaginai che grande uniformità di sentire dovette covare in sé con lo “spirto guerriero” del Carducci, o con l’animo nobile e ribelle di quel Farinata degli Uberti, di cui spesso all’occorrenza in aula richiamava le doti di grande fierezza, mimando, dopo essersi alzato in piedi sulla pedana della cattedra e gonfiato il torace in modo buffo e curioso, il fatidico momento dell’incontro con Dante. “”Io avea il mio viso nel suo fitto, ed el s’ergea col petto e con la fronte come avesse l’Inferno in gran dispitto……”  urlava con la possente voce che rintronava simile al fragore del tuono per tutti i corridoi del Liceo e che per  il seguito dei nostri giorni noi avremmo tante volte riudito rimbombare in testa come un monito ad affrontare la vita con ferma determinazione ripudiando per principio ogni vile sottomissione.
Ferrari era maestro, guida e precettore.  Il suo insegnamento travalicava gli schemi e gli stereotipi del tradizionale sistema di erudizione e spaziava nel campo esistenziale, sicchè tutto ciò che da lui si apprendeva avrebbe avuto, in futuro, possibile ed utile applicazione nella quotidianità, fornendo preziosi lumi per cercare di rendere intelligibile il “mistero della vita”. E proprio quel grande mistero lo occupava, senza sosta e senza tregua, in ogni istante della sua esistenza, ponendogli non pochi affanni, fino all’ultimo giorno (“”che io non ti abbia atteso invano”” si legge sulla lapide del suo sepolcro nell’autonecrologio con riferimento all’Essere Supremo del quale sempre avvertì con travaglio interiore, ma con ferma convinzione,  la reale esistenza).
Aveva mani tozze e rudi, callose e nodose, come quelle di un vero marinaio. E davanti al mare, quando nei giorni di burrasca amava rifugiarsi nel suo caro Trabocco sul porto, veniva fuori quel mirabile contrasto tra il suo aspetto fisico forte e possente e la sensibilità del suo animo capace di recepire i minimi sussulti del cuore.  
Quando personaggi di tale ricchezza interiore entrano in contatto con gli altri lasciano il segno. Noi sessantottini, liceali, desiderosi di cambiare il mondo, travolti dagli eventi e dalle ideologie di quegli anni difficili, avevamo tanto bisogno di essere guidati e portati per mano per essere avviati sulla giusta strada.
Pietro Ferrari è stato il nostro grande maestro di vita.
Noi non lo dimenticheremo mai.