venerdì 3 agosto 2018

ULTIMO NATALE A LA BOUILLE - Racconto terzo classificato al Premio "GIAMMARIO SGATTONI 2018"



Dipartimento della Senna marittima, nell’alta Normandia. La Bouille. Gli anni dell’adolescenza.

A Natale La Bouille era per me la meta del più bel viaggio dell’anno. Bambino, poi adolescente, infine studentello diciottenne, andavo con i miei genitori a far visita alla nonna che viveva sola in una piccola dimora del paesetto,  sulle sponde della Senna.
 Fu durante quegli indimenticabili soggiorni oltralpe che iniziai a parlare anche francese ed a frequentare, per diletto,  i boulevards de la Seine.
C’erano tanti clochards che vivevano ai bordi del fiume.
Mi incuriosiva e mi addolorava quell’ affliggente modo di essere al mondo. Uno di loro, dall’aspetto laido e sgraziato e che era sicuramente piuttosto giovane, ma che appariva comunque  molto più invecchiato di quanto in realtà non fosse, finì, col tempo, per diventare mio amico.
Sempre fasciato di cenci lisi, reperiti con fatica, ma con perizia, nei fondi mefitici delle discariche di periferia, si cibava di avanzi e rimasugli, frutti di un’accattoneria abitudinaria ma non indiscreta.
Sempre lo vedevo aggirarsi con sussiego, non consono al suo stato, tra i bidoni dei rifiuti, davanti alle cucine di qualche taverna o di qualche ristorante del Lungosenna, mai triste, lo sguardo velato da ineffabile mistero. Dormiva, coperto di cartoni, su un giaciglio che era ascoso alla vista di ogni passante dai fronzuti rami di un cespuglioso leccio. Beveva acqua dalla fontana che apparteneva a tutti.
Mai lo vidi elemosinare, perché era d’animo mite,  ma altero e fiero.
Nobile clochard, misero e indigente, celava infatti dentro di sé un’indole eletta. Povero, poverissimo, viveva tuttavia ricco di una fidente indipendenza e di una libertà beata.
Era uno dei tanti peintres de la Seine. 
Ma diverso dagli altri.
 Andavo sempre a trovarlo, ogni anno a Natale, nel suo giaciglio lungo il fiume, per portargli in dono dolci natalizi tipici dell’Abruzzo, e poi, in seguito, anche tele da dipingere e colori e pennelli.
Poi come per tutte le vicende della vita, una volta fu l’ultima.
Morì poco dopo pure la nonna.
La casa di La Bouille fu venduta. Mi restò sempre nel cuore l’immagine del clochard pittore e non dimenticai mai la nostra strana ed insolita, ma meravigliosa amicizia, né quell’ultimo magico e funesto Natale trascorso in Francia.
  
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Non v’era luogo sulla terra così colmo di meravigliose evasioni come il verde e fiorente prato sui cui il clochard- pittore della Senna, quando dipingeva,  sembrava correre, a piedi nudi, affrancato da ogni vincolo terreno. Con le sue astrazioni librava l’animo indipendente sopra sconfinati vagheggiamenti di genialità. Luoghi di serena armonia interdetti ad ognuno, tranne che a me che gli chiesi, una volta, con un timido sorriso, di potervi accedere, in modo discreto, avendo cura che né un improvviso fremito né un molesto fruscìo potessero alterarne, neanche in parte, la sublime evanescenza. Le sue mani callose e rudi disegnavano  tratteggi fievoli, vaporosi, e poi il pennello, carezzando la tela, inventava paesaggi, scorci, vedute, mai turbati dalla presenza umana, che sarebbe apparsa, in quell’ascetica figurazione, inopportuna, ove non innaturale.
Mentre stava dipingendo una di quelle tele che, attraverso gli impulsivi sfioramenti delle tinte, tra loro amalgamate in modo seducente fino a sublimare in visuali fantastiche, diventava un dono inestimabile a me destinato, volle un giorno che mi avvicinassi a lui.
Mi invitò ad accostarmi con un cenno della mano appena percettibile, con una levità di movimento di cui mai l’avresti ritenuto capace, per mostrarmi un angolo visuale che nessuno avrebbe mai notato: iniziò a raccontare a me, imberbe studentello d’Accademia, particolari e ragguagli della sua policroma esistenza di clochard, attardandosi nella minuziosa descrizione degli episodi anche più banali, come stesse dipingendo. Colorava ogni vicenda decorandola con eccentriche stranezze, bagliori, credo, della sua mente sempre estasiata e vagheggiante, e mi conduceva per mano lungo una scala di vetro, luminosa come l’oro.
Salivamo allora insieme, con la fantasia, su quei fragili gradini lasciandoci alle spalle, nelle seducenti evoluzioni del suo narrare, le ipocrisie del mondo, gli inganni, le leggi inique, le regole infrante, gli omicidi, le rivoluzioni e le guerre. Con le sue storie mi conduceva in volo in uno spazio senza tempo, oltre le chiuse vessazioni della sorte che dispensa ciecamente le sue pene, oltre tutti i dolori del mondo. Al termine della scala di luce, in mezzo ad un prato verde di totale fulgore, Hervé, (così per celia avevo deciso di chiamarlo, come un orsacchiotto di peluche che mi era stato donato a Natale, mio migliore amico d’infanzia a la Bouille), spesso cantava in francese, ed appariva felice. Sul terreno senza confini di incontenibili  scorrerie cerebrali rifiorivano i suoi ricordi e gli irrefrenabili rimpianti. T’accorgevi che aveva il dono non comune di poter cogliere l’infinito nel semplice gioco della normalità, nel succedersi routinario degli eventi.
Mi raccontò di Aline.
Gli apparve, allora, in un subitaneo ed inatteso flash back l’episodio più bello della sua vita trascorsa.
Mi raccontò di Aline, e gli brillarono gli occhi umidi di lacrime, forse non solo per il freddo pungente. E mi sembrò che la stringesse in un tenero abbraccio, come quella volta del primo bacio, tanto tempo prima.                                                             
 S’era mutato ora lo sciabordio del fiume in musica soave ed ogni ghiacciolo appeso s’era tinto di una miriade di riflessi multicolori. Sorrideva Aline, bella e solenne, e lo
guidava, tenendolo per mano, verso un sentiero di lucentezza e di non descrivibile fulgore.
Poche decine di metri più in là, a fianco del fiume, i passanti sembravano automi senza nome e senza volto, imbacuccati nei loro giacconi invernali e nelle sciarpe avvolte intorno al collo. L’aspetto mondano, frivolo, gaudente e secolare del Natale degli altri strideva con il  mistico, disadorno e disperato mondo di Hervé, vittima sacrificale di un crudele ed inesplicabile gioco del destino.
Ma era proprio questa diversità che gli dava ampi margini di sopravvivenza.
Dove altri avrebbero visto solo il giorno morire lui coglieva le eccentriche fantasmagorie del più raro dei tramonti, trascendendo le ovvietà, ideando ogni più diversa sfumatura e leggendo tra le righe di uno spartito note ed armonie di cui nessuno, mai, avrebbe immaginato la presenza. Diventava poeta al pensiero del pianto sconsolato di una giovane vedova o di una madre al capezzale del figlio o davanti ad un indifeso pettirosso morente. Parlava tenendo lo sguardo sempre fisso lontano e colorava di azzurro lo sfondo della tela quando s’oscurava, alla sua narrazione, il cielo dei derelitti. Così il mendico oltrepassava i visibili segni della vita reale e scriveva uno spartito che solo alcuni eletti avrebbero saputo leggere, e forse eseguire.
Una musica che intonava note discordi da quelle dei canti, dei ritornelli e delle filastrocche di Natale che echeggiavano dai gruppi di musicanti, bandisti e sonatori sulla strada ai lati della Senna.
E forse proprio quella musica, a nulla comparabile e che accompagnava la sua vita, dava senso e significato vero alla ricorrenza del Natale. Mi chiedevo paradossalmente se non fosse davvero un privilegiato, un eletto, cui le ferme convinzioni di una fede inattaccabile conferivano la possibilità di guardare dall’alto ogni cosa, ogni persona, ogni pur infausto evento.
Mi chiedevo se alla fine non fosse da leggere nella sua miserevole esistenza il valore autentico del Natale, il momento del riscatto degli umili e dei derelitti, il trionfo  degli ultimi e degli afflitti.
Per sua volontà mi chiamò adepto, probabilmente per via di un comune sentire, anche se in quei giorni speciali ed in quei momenti di serenità cristiana che lui abbracciava, felice per la nascita del Redentore, io gli parlavo del morire come momento di assoluta fine, e della morte come estremo compimento ed epilogo fatale. E ciò contrastava con il clima natalizio, con il miracolo di quella nascita che lui sentiva fortemente e  che lo riscattava da una vita d’inferno, sublimata solo dal pensiero di una migliore esistenza post-terrena e dalla mistica atmosfera natalizia che aleggiava                                                             
d’intorno e che sembrava scaturire dagli effluvi del fiume e dal sapore salmastro dell’aria circostante.
Ma il pittore povero non voleva che di fronte al mistero della vita, e soprattutto della morte, entrassero tra i possessi della sua mente le mie infedeli elucubrazioni mentali, i miei dubbi, le mie professate perplessità, le affliggenti angosce giovanili.
 Con il capo ormai quasi completamente calvo e seminascosto da un berretto nero di lana, lurido e lercio, tra i fetori di quel suo sgradevole giaciglio, senza mai distogliere lo sguardo dalla  tela che stava  dipingendo, scuotendo la testa perché contrariato e mai convinto dalle mie parole, mi portava con sé, tra immagini dipinte e musiche che sembrava comporre, oltre la banalità del quotidiano, per un percorso fulgente lungo il quale rivisitai sotto nuova luce i suoi desideri infranti, i sogni mai avverati, le speranze svanite, le disillusioni e i disincanti.
Hervé governava da grande maestro quel regno di liberazione e di inossidabile fede, senza nessuna afflizione, ma con tanta appagante letizia. M’accorsi, anno per anno, nel corso dei nostri successivi e reiterati incontri, che da ogni patito inganno aveva sempre tratto precetti per vivere ancora. Da ogni sconfortante  traversia liberava forza e vigore per non cedere, giorno dopo giorno, alla ventura avversa che ne minava il corpo, ma che non scalfiva, in nessun modo, la sua imperitura speranza in ciò che sarebbe accaduto dopo. Aprés la mort, come diceva.
 Per il clochard de la Sèine nella vita terrena non c’era sentiero, per quanto impervio ed erto, che non fosse percorso da ciascuno con un preciso fine stabilito ed assegnato, sulla base di un progetto a noi ignoto, ma sicuramente apportatore di felicità futura.
Così convinto credente, carismatico e seducente ammaliatore, parlava del Natale al mio animo agnostico, eppure nondimeno in quel tempo inevitabilmente plagiato dalle promesse della vita, e mi indicava come estremità della strada la fine di una lucente scala di luce. Nel rassicurante silenzio di quell’ineffabile plaga che s’era creato, il mio importante precettore francese, emarginato dagli uomini, dipingeva sulle sue tele, illuminandole di speranza, albe e tramonti, fiumi, monti e  città e profondità del mare, luoghi mai conosciuti, colorati, variopinti, sereni, limpidi e tersi, in uno scenario serafico che lo portava lontano dalla gente e dal mondo, dalla vita visibile.
Pochi giorni prima del Natale di quell’anno, che fu l’ultimo, mi aveva voluto accanto a sé in una di queste fantastiche divagazioni. Dalla tavolozza chiamò a raccolta le tonalità dell’azzurro del mare più profondo ed io avvertii i singulti della sua voce stanca, che ormai mi giungeva lieve. Dipinse sulla tela, solo per me, il più ambito dei doni, una “Nativité” malinconica e triste sullo sfondo di un cielo plumbeo di nuvole bigie e minacciose, foriere di un burrascoso fortunale, in arrivo per lacerare forse ancor più quel suo logoro pastrano, per devastare il suo giaciglio di cartoni. Un’imminente, ennesima, ineluttabile sciagura di cui però, come sempre,  non avrebbe avuto tema alcuna, perché confidava nel miracolo di quella nascita soprannaturale.
Tutto mentre al tepore delle diverse  dimore ubicate ai fianchi della Senna il mondo                                                                 
degli altri si colorava delle mille fantasmagorie di luci e del calore mistico che entra nei cuori di ognuno durante le celebrazioni del Natale.


L’ULTIMO NATALE

Ora giaceva immobile, e lo sarebbe stato per sempre, rannicchiato all’interno di un tubo di cartone che la pioggia battente aveva reso ormai fradicio e grondante. Gli era servito per proteggersi, ahimé in modo non bastevole, dal freddo acuto e pungente della gelida notte francese, sotto il pur confortevole abbraccio di un cespuglio amico, preferito a tutti gli altri, chissà perché, sulla sponda della Senna, quel mattino sontuosa come non mai nel suo silenzio sovrano. Né poteva più essergli di conforto o giovamento il timido raggio di un sole sbiadito che, insidiatosi tra le foglie, disegnava ghirigori di luci ed ombre sul suo viso freddo,  emaciato e stanco, celato dalla fitta barba incolta, vuoto da tempo di ogni desiderio ed avvezzo ormai alla disillusione non meno che ad una dignitosa rassegnazione.
Rannicchiato all’interno della scatola di cartone, ormai zuppa per la neve che veniva giù lenta e copiosa e che un generoso platano, con le sue foglie aperte, riusciva a contenere solo in parte, Hervé passava dal sonno leggero al dormiveglia, ruotando spesso su se stesso per lenire il dolore alle ossa, compresse sui sassi del Lungosenna.
Aveva le mani gelate ed il bavero del lacero e consunto cappotto tirato su fino alle orecchie. Gli era di compagnia solo il ritmato e sinuoso sciabordio del fiume, unica voce amica nell’ancora buia alba francese.
Ogni tanto gli giungevano da lontano gli abbagli delle luci colorate e dei riflessi argentei e dorati del Natale degli altri, di coloro che la sorte aveva trattato in modo diverso, chissà perché.
Ma Hervé non aveva astio né contro gli uomini né contro il suo iniquo destino. L’irreversibilità del suo stato gli aveva sempre assicurato una sorta di rassegnazione che gli permetteva di vivere in simbiosi anche con gli elementi più ostili della natura: con il vento freddo, con la neve e con il gelo, con i dolori alle ossa, i brividi, i tremori ed ogni altro disagio fisico e mentale con cui conviveva da sempre.
Quella, però, era una notte speciale. 
 La luce vaga della nebbioso mattino avviluppò in un ultimo abbraccio il corpo esanime del clochard, intriso degli umori e degli effluvi della rugiada, avvolto nel lurido pastrano grigiastro, sulla panchina gocciolante, mentre l’umanità malvagia, che mai ne conobbe l’indole candida e schietta, impattava la realtà del giorno nascente e la mistica atmosfera del Natale, davanti all’evolversi dell’attività quotidiana, come sempre, non diversamente da sempre, senza occuparsi di lui.
Se ne occupavano invece, non volentieri in quel giorno particolare, gli addetti del parco, infastiditi da quel cerimoniale fuori programma che alterava il metodico procedere della routine abituale e che li costringeva, loro malgrado, al rito inviso ed                                                           
ineludibile dello sgombro di quel corpo inerte. Tutto avveniva con distacco ed indifferenza.
Sempre, gli altri, erano stati indifferenti a quel peintre de la Sèine, per loro uno dei tanti.
Nel tascapane di pezza che Hervé portava sempre a tracolla, logoro e consunto, gli svogliati necrofori, avvolti dalla nebbia uggiosa di quel giorno esiziale, rinvennero forse un’ampolla con le sue lacrime versate guardando un pettirosso morire, o un uomo piangere di solitudine infinita. Uno di loro raccolse da terra la ciotola di latta del cane Rouge, nutrito con l’affetto, e solo con l’affetto, e poi trasse da quella misera sacca i colori che il mendico suggeva dai suoi paradisi mentali e che mescolava sulla tavolozza per  aleggiare sulle isole incantate di una sfavillante fantasia. Suo unico, reale, immacolato possesso.
Era l’alba di quell’ultimo Natale.

Oggi, dopo tanti anni, a la Bouille, cammino ancora su una delle sponde della Senna e respiro l’aria gelida di una fredda serata invernale.
Mi incammino ancora, come tanto tempo fa, lungo quell’umido viottolo che fiancheggia il fiume.
Non c’è più il cespuglio di leccio.
C’è ancora qualche vecchio clochard.
Un cane, accanto al suo padrone, col pelo arruffato guaisce davanti ad una ciotola apparentemente vuota, ma ricolma di affetto.
Nel brumoso crepuscolo decembrino un rozzo pittore, incurante del freddo, avvolto nel suo vecchio pastrano e nel diafano velo della nebbia, vestito di stracci, dipinge paesaggi su una  tela, stringendo goffamente il pennello tra le dita della mano ruvida e callosa.

Come quella di Hervé.