giovedì 29 dicembre 2011

"CHI NON CONOSCE IL PROPRIO PASSATO NON CONOSCE IL PROPRIO FUTURO".

Sotto l'albero di Natale, dentro un modesto ma prezioso pacchetto avvolto con sapiente maestria e con religiosa cura, trovo questo logoro manoscritto, ennesimo graditissimo dono del mio amico ricercatore, instancabile ed indefesso nel lavoro di ricostruzione della sempre più sconcertante vita di Fonsino:



Il passato del biblico Matusalemme, del giusto Salomone e' attraversato da questa figura direi miracolosa, che insegno' l'ingiustizia ai giusti, l'odio ai compassionevoli, la nefandezza ai puri ma anche l'intelligenza agli stolti e la correttezza a coloro che Egli definiva, con sottile ironia, "sctronzi pezz de mmerde".
A tal proposito voglio riportare alla luce un fatto che vale più di mille chiacchiere. Per farlo dobbiamo ricordarci che le origini del Grande sono di molto antecedenti a quello che si pensa. Ai tempi di Pietro il Grande, in Russia si era sparsa la voce di un saggio vagabondo che errava per le sconfinate steppe del Don. Costui, si diceva, vestito solo di pelli  selvagge e irsuto come un caribù, divenne famoso per le perle di saggezza che sapeva dispensava.
Fu così che la sua fama giunse all'orecchio dell'Imperatore che lo volle incontrare. Avvicinato il saggio dagli Ussari di Pietro, questi pose l'unica condizione che l'incontro fosse a due. Arrivato alla corte dello Zar in groppa ad un asino puzzolente il Saggio, di cui tu accorto lettore avrai indovinato l'identità, scese a terra e fiero, riferendosi a Pietro, con un cenno "yome" gli si rivolse. Stettero chiusi nello studio privato dello zar per 3 ore e 40 minuti circa. All'uscita Pietro era pallido come un lenzuolo e traballante sulle gambe malferme mentre Alfonso usciva con un sorrisino sulle labbra. Si lascio' sfuggire solo una frase criptica per l'idioma cosacco "kustu' ae' nan'tre cujon".
Ecco il grande Alfonso, più Grande dei grandi, ma anche sconosciuto e miserando.
Ecco il mio regalo di Natale a questo mondo che non sa piu' credere, sperare ed amare.
Un saluto

mercoledì 19 ottobre 2011

ECCO PERCHE’ FUNSINO E’ STATO E SARA’

Un manoscritto appena leggibile, di epoca imprecisata ed imprecisabile, pare far luce sul misterioso dilemma che avvolge la figura di Alfonso di Battaglia, i cui riferimenti storici sembrano conferire credibilità ad un’ impossibile leggenda metropolitana, in base alla quale il buon Funsino avrebbe partecipato a tante vicende, in epoche così diverse e tra loro lontane, da legittimare la credenza di una sua longevità che andrebbe a superare i 170 anni di vita.
A fronte di questa inverosimile congettura, il recente ritrovamento del manoscritto fa luce in modo abbastanza plausibile su ogni fantasiosa supposizione, andando a chiarire alcuni punti essenziali di quella esistenza, per alcuni tratti così mitizzata da apparire addirittura inventata e non reale.
Si legge, a stento e con difficoltà, nel manoscritto, che per venire a capo di tutta la vicenda e per comprendere appieno la verità insita nella tormentata biografia di Alfonso di Battaglia, occorre procedere ad un’analisi fonetica e semantica del suo nome di battesimo, più in particolare del suo nome di battesimo così come pronunciato nel dialetto del suo paese di origine (Ripattoni di Bellante), ossia “Funsino”.  E’ lì la chiave del mistero. Chiarisce il manoscritto, infatti, che in testi più recenti il nostro onnipresente eroe viene spesso chiamato Enzino de Battaje”, o, in alcune scritture, anche “E’nzino” ove la grafia con il desueto accento sulla “E” all’inizio della parola starebbe ad indicare la terza persona singolare del verbo essere, esistere. In buona sostanza attesterebbe l’esistenza in vita del personaggio al momento in cui si svolgono le vicende che si vanno narrando. La grafia “Funsine”, a questo punto, non può che riferirsi ad un individuo già vissuto (lo chiarisce il “Fu”all’inizio della parola) per cui tutti gli eventi che fanno ad esso riferimento vanno attribuiti a persone e personaggi che, intrisi della sua stessa natura, si comportano così come egli si sarebbe comportato se fosse stato in vita in quel momento.
Questa strepitosa e per  certi versi sconvolgente scoperta fa luce sui mille episodi che vedono protagonista il nostro Funsino e rende finalmente giustizia alle malevole detrazioni dei suoi calunniatori e di tutti coloro che hanno dubitato, anche per  un attimo soltanto, della veridicità dei racconti e delle vicende che continuano ad emergere dai polverosi manoscritti del nostro solaio.

QUEL FATIDICO GIORNO

Non so se credere o non credere a questa davvero sconvolgente notizia che traggo da un settimanale sconosciuto che data agosto 1969 e del quale è andata perduta la prima pagina di copertina, cosa che rende impossibile risalire alla testata. Trovo la rivista semidistrutta all’interno della cassapanca del solaio, sul fondo, rosa dai topi. Quello che riesco a leggere, con i brividi addosso, è questo brano, parziale ricostruzione del pezzo originale:

“”” Nel momento in cui il primo astronauta (Armstrong alle 4,57 ora italiana del 21 luglio 1969, ndr) ha posto piede sulla luna , precedendo di poco  il collega Aldrin, ha pronunciato le seguenti parole “Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande passo per l’umanità”…….
…….. La cosa curiosa, però, è che nel pronunciare la frase ha dato l’impressione di  leggere una sorta di scritta  posta su un cartellone di cartone, qualche metro davanti a lui………
…….. Da un esame approfondito della prima foto pervenuta alla Nasa, con un forte ingrandimento, sembra potersi ricostruire, a stento e con molta difficoltà, questa strana iscrizione “”quoste aè nu passotte pe l’ommene, ma nu passe grosse pe lu monne, Fdb””

Un’attenta ricognizione conferma che nessun altro giornale dell’epoca ha fatto riferimento a questo sconvolgente episodio. Nessuno, d’altro canto, avrebbe potuto decifrare la scritta, se non uno in grado di interpretare la grafia del dialetto abruzzese. Ma cosa pensare di questa storia? Quella sigla finale che vuol dire? Davvero significa Funsine de Battaje?
L’ipotesi, sconvolgente e sconcertante, quantunque incredibile, è che Funsino avesse preceduto di poco (ma come, ma quando?) l’arrivo del LEM sulla luna, dopo aver viaggiato, da clandestino, all’interno del modulo di Comando “Columbia” insieme con gli altri tre astronauti.
A questo punto la famosa frase sopra riportata sarebbe da attribuire a lui, e risulterebbe solo tradotta da Armstrong, capace non si sa come di comprenderne immediatamente il senso, pur nella per lui difficilissima grafia italo-dialettale.

FORTUNA E SFORTUNA

Se non hai mai vinto alle lotterie, se non riesci a fare il lavoro che ti piacerebbe fare, se non ti puoi permettere di vivere senza lavorare o di poter viaggiare per tutto il mondo frequentando alberghi a 5 stelle, se non tanti anni senza accusare gravi problemi di salute, se non hai una barca o un cospicuo conto in banche italiane ed estere allora tu hai più sfortuna dei milioni di persone che questa settimana conducono quel tenore di vita.

Se non hai mai vissuto i pericoli della guerra, la solitudine di essere carcerato o l’afflizione della fame stai meglio di 500 milioni di esseri umani; se ti sei alzato questa mattina con più salute che malattie, allora tu hai più fortuna dei milioni di persone che non sopravvivono questa settimana.

giovedì 13 ottobre 2011

DE MORALITATE FUNSINI




Tra le polverose carte del vecchio solaio, già preziosa fonte di molte altre importanti scoperte, ho avuto la fortuna di rinvenire un vecchio manoscritto, probabilmente un appunto anonimo e riservato, dimenticato in mezzo ad un  gruppo di verbali relativi a  deliberazioni licenziate durante le sedute di qualche antico Consiglio di Amministrazione all’interno del quale, a quanto pare,  Alfonso doveva ricoprire una carica di grande prestigio.
La lingua, non più latina e non ancora italiana, consente una datazione approssimativa, correlata alle prime espressioni del volgare italiano:

Narrant historiae Alfunsinum battagliae fuisse magnum porcum in rapportis cum mulieribus suorum amicorum. Dicitur, infattim, habuisse magnam abilitatem in inventamento scusas finalizzatas ad unum solum scopum: giacere supinus cum moglibus amicorum in assentiam maritorum.
Ad ottenendum tale risultatum convocavat spessum riuniones cum suis sottomissis et durante sedutam, cum scusa improvvisa urgentia urinaria, se allontanabat in cessum ubi eum attendebat mulier sbardellata uni consilieri et avec custim  ipse Alfunsinu  copulavat cum rapida sveltina.
Avvenit olim diavolum mettisse codam et esecrabile eventum disturbavit quietam copulationem Alfunsini. In media fase amplessi , infattim, se presentavit in cessum consilieris affettus improvvisa  cacarellatio  avec spruzzum et pertantum bisognosus impellentemente cessi.
Ubi vidit Alfonsinum giacentem cum sgualdrina muliere, consilieris riconobbit suam mogliem ergo fuit presus magna irritatione et iniziavit spruzzamentum merdae addossum Alfunsini et concubinam sicut cannonem.
Narrant historiae Alfunsinum habuisse magnam sveltezzam ad evitandam merdam sed colpivit cum nuca spigolum cessi et cascavit svenutum. Solum in seguitum, ad risveglium, fecit ritornum in aulam ubi erat ancora in corso seduta consilii et, cum magna sagacia, riuscivit convincere astantes suae innocentiae. Dixit, infattim, in media sua pisciatione, vedisse consilierem giacentem cum propria muliere in cesso et  fronte tanta insolentia habuisse mancamentum, causa magnam offesam arrecatam suae moralitati et suae profondae rettitudini.

martedì 11 ottobre 2011

IL CONGIUNTIVO SCONOSCIUTO





L’esame comparato della lingua parlata e di quella scritta da parte della maggior parte della popolazione italiana, con particolare e più specifico riferimento ad una ben definita fascia di età (16/25 anni), richiede un intervento immediato, ristoratore, mirato alla salvaguardia del corretto uso del congiuntivo. Bistrattato, eluso, mortificato, ignorato e vilipeso, il congiuntivo necessita di aiuto, per essere riportato in auge, e per essere riposizionato nel suo giusto ruolo linguistico. Un’operazione che è senza dubbio più difficile di quanto possa sembrare, atteso che il parlante fa di tutto per evitare l’incontro diretto con questo modo verbale e per relegarne  l’uso ad una mera esibizione di eleganza riservata a pochi eletti. Non è così, naturalmente. Stride sentir utilizzare da giovani professionisti esperti in diversi settori dello scibile il modo indicativo, così povero e mal vestito, preferito tuttavia al forbito congiuntivo al quale, peraltro, viene tolta in modo forzoso ed ingiusto la doverosa allocazione all’interno della frase.


Non sembra d’altro canto che la cosa rappresenti un cruccio, dal momento che nessuna inibizione e nessun minimo imbarazzo si evincono  in chi ripetutamente applica alle coniugazioni verbali questo nuovo ed attuale modo temporale che, con ardito neologismo, registrerei nella grammatica come “congiuntivo sconosciuto” .
Il congiuntivo sconosciuto trova applicazioni diverse, sostituendo l’arcaico congiuntivo presente (“è inutile che io venga”  con il più moderno indicativo  “è opportuno che io vengo”) oppure anche semplificando proposizioni consecutive e concessive ( “devi parlare in modo che io possa capire” diventa “devi parlare in modo che io capisco;  benché io non sappia nulla di questa storia diventa “benchè io non so nulla di questa storia”) e così via.  Questa forma semplificativa danneggia ovviamente l’udito ma rende la vita facile al parlante, evitandogli pericolosi passaggi nei meandri di un intricato gioco di congiungimenti verbali in mezzo ai quali finirebbe per perdersi senza possibilità di scampo per via della sua meno che mediocre preparazione grammaticale.


Così nei discorsi di questi nuovi linguisti e di questi grandi  trasgressori che stravolgono la funzione di quello che a buona ragione può essere considerato il costituente più importante della frase, il congiuntivo subisce reiterate umiliazioni che non devono e non possono essere tollerate.
A giusto diritto, quindi, facendomi portavoce di analoghe istanze sollecitate da parlanti che, come me, inorridiscono di fronte a tanto scempio, per le ragioni esposte, delle quali peraltro molto più a lungo si potrebbe scrivere e parlare,  ho il piacere e l’onore di comunicare ai lettori del Blog la nascita e la costituzione ufficiale della “”NUOVA ACCADEMIA ITALIANA PER LA RIABILITAZIONE DEL MODO CONGIUNTIVO””” alla quale sono iscritti d’ufficio tutti coloro che si dicono disposti a togliere immediatamente il saluto a chi fa uso del “se” con il condizionale.

Altri criteri di ammissione sono la perfetta conoscenza della lingua italiana e la capacità di convertire in modo estemporaneo ogni frase che lo richieda con l’inserimento del modo congiuntivo nei suoi tempi, semplici e composti.
Chi pur non essendo in possesso dei citati requisiti volesse comunque diventare membro dell’ Accademia dovrà cospargersi il capo di cenere ed improntare un discorso davanti alla Commissione ammettendo di aver umiliato fino ad oggi il Modo Congiuntivo, escludendolo dalla sua parlata quotidiana, e dirsi altresì disposto a riammetterlo incondizionatamente nelle frasi e nelle proposizioni che andrà ad usare per il resto dei suoi giorni.
Tutto ciò perché non si dica che l’Accademia è una setta linguistica riservata a pochi eletti……

L’ONNIPRESENTE FUNSINO



Il mio amico ricercatore, che per via della sua onestà intellettuale non mi invia materiale se non quando esso trovi effettivo riscontro nella storia e nei suoi più sconosciuti eventi, dopo lunghe ed estenuanti indagini mi relaziona in merito ad un periodo della vita di Alfonso di Battaglia che trova agganci in epoca relativamente a noi vicina, a riprova della longevità del personaggio cui la sorte regalò onnipresenza nei periodi topici della storia umana:


Caro Sergio,
tu che ancora, impavido e burbero, scacci le false voci della vanità, tu solo puoi capire l'ardente fuoco e brama di verità che mi costringe ad andare avanti per la stretta ed erta via della conoscenza.
Sulle tracce di Alfonso Di Battaglia. Un brandello di verità, un racconto sommesso, leggende metropolitane. Non riesco a discernere il vero dal falso.
Fatto sta che lo ritroviamo, ormai vecchio e sdentato, a fianco del Vate nell'impresa di Fiume. Ancora Lui in testa alla marcia su Roma.
Pare che lo stesso Duce lo venerasse come un idolo. Solo al Venerabile erano concesse certe impudenze, se e' vero, come non ho ragione di dubitare, che durante l'udienza dell'ambasciatore Inglese nella Sala del Mappamondo, all'usuale invito del fascistissimo Starace, "saluto al Duce!", rispondeva il sonoro pernacchio dell'astante Alfonso, sotto lo sguardo indulgente di Benito.
Che fosse fascista non possiamo dirlo. Anzi alcuni lo dicono il vero simbolo della lotta partigiana. Ormai quasi centenario, ma ancora attivissimo, inizio' ad apostrofare Mussolini come "llu' scuppat panzon" tra una bestemmia ed una blasfemia. Continuo a trovare testimonianze che vanno avanti nel tempo. Ma sono vie che non voglio seguire. Che mi portano quasi fino ai giorni nostri. Ciò non può essere, che' avrebbe quasi 170 anni.

Caro Sergio, anche se ti conosco oberato dalle gioie del mogliume, figliume, nipotume, tennisume e ufficiume, in questi momenti di ritrovata libertà, in questi attimi fugaci che ci fanno intravedere un futuro migliore di un passato peggiore per colpa dei delinquenti che appestano il mondo, caro Sergio dicevo appunto, immergi anche tu le mani nella melma della storia e nutri la sacra fiamma della verità e della giustizia.

Viva l'Italia!

giovedì 22 settembre 2011

IL NOSTRO ANNIVERSARIO

23 settembre 2011
Per il trentatreesimo anniversario di matrimonio


Fu passione vera quel giorno lontano,
sentimento profondo e arcano,
incantevole unione di sensi
che non avrebbe patito, con l’età,
la corrosione uggiosa dell’abitudine.

Dopo più di trent’anni insieme
la nostra quotidianità
è per me oggi la più bella consuetudine.

Da due radici diverse, nel tempo,
un’unica pianta è nata e sviluppata.

Ma la scena più cara
di questo film ancora in svolgimento,
che è la nostra vita ormai quasi passata,
il dono che per me si rinnova ogni momento,
è l’incanto fatale del giorno che t’ho incontrata…

venerdì 2 settembre 2011

LA VITA MIGLIORE

E’ meglio vivere a lungo, anche se non felicemente, o è meglio vivere felicemente, anche se non a lungo? E’ un dilemma che affligge il genere umano, esclusa ovviamente la terza scelta , ossia quella di vivere a lungo e felicemente.
Il tema, universale, non poteva mancare nel repertorio delle profonde elucubrazioni del Leopardi che nel “Dialogo di un fisico e di un metafisico”, scritto in cinque giorni nel maggio del 1824 e ricompreso nella raccolta delle Operette Morali,  affronta il problema interrogandosi su una questione fondamentale dell’esistenza, quantunque affrancata dalla volontà dell’individuo, se si esclude la scelta del suicidio.
Il fisico insiste nel sostenere che è insito nell’animo umano un istinto primordiale alla sopravvivenza , anche se in condizioni precarie e disagiate, in una parola infelici, e conflittuali con la vita stessa. Ciascun uomo celerebbe nell’animo il desiderio di vivere a lungo, in eterno se fosse possibile, perché tale sentimento fa parte della sua particolare natura, diversa da quella di tutti gli altri esseri viventi. Ciò spiegherebbe perché tanti derelitti che vivono ai margini della società “civile” , clochard soli e abbandonati, o persone afflitte da qualsiasi altra calamità, non rinunciano tuttavia volontariamente alla vita, ma la trascinano come un oneroso fardello, in ossequio ad un impulso ancestrale. Di diverso avviso il parere del metafisico il quale, a sostegno della sua tesi, pone sull’altro piatto della bilancia proprio il suicidio, come estremo atto comprovante l’incapacità dell’uomo a vivere in modo infelice, e quindi rassegnato a togliersi spontaneamente la vita pur di non condurre un’esistenza priva di piacere.
Lo stesso metafisico rincara la dose portando ad esempio casi celebri di eroi e martiri del passato, ai quali la morte fu offerta come dono supremo, quasi liberatorio e purificatore, catartico e comunque definitivo ed esiziale.
Naturalmente è di tutta evidenza l’attualità del tema in discussione nell’edonistica società moderna, così vuota di valori e di paletti morali, interamente votata al benessere inteso come potere economico.  Oggi  vale chi ha, chi si mostra per uno che ha, chi vive felice perché gli altri credono che lo sia. Il desiderio di apparire trascende la condizione reale e la sublima, fino a dilagare nell’apologia del millantato credito.
Chiedete a costoro se vogliono vivere a lungo o morire felici come i martiri del passato…

giovedì 21 aprile 2011

LA POLIZIA URBANA A GIULIANOVA NEI PRIMI ANNI DEL NOVECENTO

Una deliberazione del Consiglio Comunale di Giulianova, licenziata in data 30 novembre dell’anno 1900,  stabiliva, in uno specifico Regolamento sottoposto all’approvazione dei consiglieri presenti alla seduta, regole comportamentali riservate alle Guardie Municipali, disponendo precisi  criteri da adottare in fase di assunzione e peculiari obblighi che ognuno avrebbe dovuto rispettare durante il servizio.
La riunione, presieduta dall’assessore anziano, facente funzioni di sindaco, dott. Giuseppe De Bartolomei, si teneva in “seduta autunnale", alla presenza di dieci consiglieri (oltre al Presidente) sui sedici previsti, numero sufficiente per garantire la legalità dell’adunanza. All’ordine del giorno, come si diceva, l’approvazione del “”Regolamento per le Guardie Municipali”, ritenuto strumento ormai ineludibile per disciplinare il lavoro degli addetti al controllo della pubblica sicurezza e di altri settori della vita pubblica cittadina.
La lettura del disciplinare appare quanto mai interessante, soprattutto in rapporto alle successive evoluzioni che, nel corso degli anni, avrebbero poi modificato le stesse regole,  apportando variazioni o addirittura rivoluzionando completamente le norme, giustamente adattate, tempo per tempo, alle nuove esigenze sociali. La giunta Municipale, all’epoca, avocava a sé la nomina ed il licenziamento del Corpo di Guardia. Sulla base delle prove di un concorso pubblico si procedeva a valutare l’idoneità dei richiedenti, la loro eventuale attitudine a ricoprire il ruolo e la capacità a sostenere il servizio che veniva affidato, ai vincitori, per la durata di anni due, con possibilità di procedere poi al rinnovo del capitolato. Requisiti richiesti, età di almeno ventuno anni, ma non più di quaranta, statura non inferiore a metri 1,65, sana e robusta costituzione fisica, assoluta irreprensibilità morale. Dal punto di vista culturale si richiedeva al candidato di essere capace di leggere e scrivere e di saper  stilare un verbale o un testo similare per poter relazionare ai superiori sugli eventi occorrenti. Naturalmente qualsiasi condanna subìta, dalla quale fosse derivata un pena restrittiva della libertà personale, avrebbe rappresentato motivo sufficiente per giustificare l’immediata espulsione dal Corpo. Ma le cause di allontanamento erano anche altre: chiunque avesse commesso delitti a danno della proprietà, della pubblica amministrazione, della fede pubblica, del buon costume, o avesse apportato danni di qualsiasi natura alle persone o all’ordine della famiglia, avrebbe infatti subìto la stessa ignominiosa sorte.
A ciascuna Guardia, una volta assunta in servizio, veniva corrisposto un assegno di lire 120 perché provvedesse, per proprio conto, all’acquisto di capi di  vestiario  sufficienti per la durata di un anno. Nessuno, naturalmente, poteva però scegliere in piena libertà il modello o il colore della propria divisa, che doveva essere invece perfettamente corrispondente ad una tipologia base approvata dal Consiglio Comunale.
L’impegno, la responsabilità, le onerose mansioni quotidiane rendevano pressoché impossibile l’assunzione di qualsivoglia incarico collaterale. D’altro canto era vigente l’assoluto divieto, per una Guardia, di esercitare, in proprio, o per interposta persona, attività nel settore dell’industria o del commercio. Ognuno era vincolato al proprio ufficio in modo talmente cogente che non poteva allontanarsi neanche momentaneamente dal servizio, né tanto meno assentarsi dal perimetro del territorio comunale, se non per ragioni di estrema e documentata urgenza,  e comunque sempre e solo previo permesso del Sindaco.
Gli oneri economici connessi alla gestione di un periodo di malattia o di ricovero in Ospedale erano a carico individuale di ciascuna Guardia municipale che doveva, di tasca propria, corrispondere l’indennità dovuta autorizzandone il prelievo direttamente dallo stipendio mensile. Solo nel caso in cui la malattia fosse stata contratta per ragioni di servizio il  Comune interveniva assumendosi in proprio il carico delle spese.
Miglior trattamento era invece riservato, dal punto di vista finanziario, a chi elevava una contravvenzione di qualsiasi genere o di qualsiasi natura nell’ambito del territorio comunale. I proventi , infatti, erano divisi a metà  e finivano in parte nelle casse municipali ed in parte in tasca alla Guardia stessa  che aveva così modo di arrotondare i propri emolumenti mensili  a scapito di cittadini  colpevoli di aver violato in qualche modo la legge o di aver trasgredito puntuali normative o disposizioni.
Il verbale di contravvenzione era redatto dalla Guardia  in piena autonomia e doveva recare  chiaramente dettagliati  i fatti che avevano generato l’opportunità di procedere alla rilevazione della trasgressione, descrivendo minuziosamente l’accaduto nei minimi particolari, sicchè fosse facilmente individuabile l’autore della violazione.  D’altro canto  v’era obbligo, per ciascuna Guardia, di stilare comunque una relazione scritta, al termine del servizio, in modo da  informare le Autorità preposte sugli  episodi occorsi, ancorchè non fossero state elevate contravvenzioni di sorta.
Libero accesso era consentito ai “vigili” dell’epoca in ogni bottega, in ogni caffè, nelle varie officine, negli stabilimenti ed in ogni altro luogo pubblico. Avevano la licenza di fermare qualsiasi persona, anche semplicemente per identificarla. E chi si fosse rifiutato di declinare le proprie generalità, o fornendole non fosse risultato attendibile,  era accompagnato presso l’Autorità di Pubblica Sicurezza  perché fosse espletata ogni necessaria azione utile alla sua  identificazione..
Erano armate, le Guardie di inizio secolo, ma nessuno di loro avrebbe potuto far uso dell’arma in dotazione senza un legittimo e plausibile motivo. E questo principio era sempre valido, perché ogni Guardia Municipale doveva ritenersi continuamente in servizio, ovunque fosse, in qualunque momento del giorno o della notte, anche dopo il regolare turno di lavoro. Ed era anche sempre vigente l’obbligo di ben vestire, di tenere costantemente curata la persona, di avere assiduamente contegno urbano e rispettoso nei confronti di tutti.
Al Corpo di Guardia era preposto un “Capo Guardia” cui era demandato, in aggiunta ai compiti istituzionali, anche l’onere di mantenere l’ordine e la disciplina dei sottoposti, di tenerli costantemente aggiornati sui doveri e sulle disposizioni di legge, di curare che gli ordini impartiti dall’alto fossero eseguiti con celerità e nel modo migliore. Lo stesso preposto stabiliva i vari turni diurni e notturni stilando un apposito ordine di servizio.
Il “Regolamento per le Guardie Municipali”, così come descritto, composto da 20 articoli, fu approvato senza osservazione alcuna, all’unanimità, dal Consiglio Comunale il giorno 30 novembre dell’anno 1900 presso la Sede Municipale di Giulianova dagli undici  consiglieri presenti e votanti, ( Francesco Contaldi, Andrea Acquaviva, Luigi Crocetti, Serafino Trifoni, Donato Pedicone, Luigi Migliori, Ciriaco Paolini, Gaetano Capone Braga, Giacinto Cavalli e Luigi Orsini), quanti bastavano per rendere legale l’adunanza , con l’assicurazione che subito dopo la Giunta avrebbe reso operative le norme previste nel documento.


NUOVI INCREDIBILI FATTI DEL PASSATO

Mi aspettavo, in verità, che il mio amico ricercatore e storico potesse regalarmi, in coincidenza con le festività pasquali, qualche mirabolante sorpresa. E devo dire che egli non mi ha deluso, avendomi inviato, ieri notte, questa missiva così densa di scoperte storiche da fa rabbrividire il più preparato degli studiosi. Emergono, dalla lettura, aneddoti inediti e apparentemente non credibili. Protagonista sempre il mitico Funzine de Battaje, poliedrica figura del passato, le cui gesta il tempo ha avvolto in un velo di fitta nebbia che il mio amico, grazie alla sua indefessa perseveranza, sta lentamente dissolvendo. Questo il prezioso testo che ho ricevuto:




Caro Sergio,
Mi scuso con te per non essere riuscito a darti nuove notizie sulle
ricerche storiografiche che sto faticosissimamente portando avanti. Da
giornalista, conosci il valore della verità e sai come sia a volte
difficile distinguerla dalle menzogne; cosa tanto piu' vera se i fatti
che ci accingiamo ad esaminare appartengono ad altri tempi, a diverse
tradizioni ed a mondi al nostro pensar alieni.
Questo certosino lavoro di vaglio critico delle fonti e' ancor piu'
stressante se si considera l'oggetto del nostro cercare, quest'uomo
nuovo del secolo decimonono che pare, a ben osservarlo attraverso la
lente del tempo, aver impresso un moto tutto suo alla storia come oggi
la conosciamo. Sai bene, caro amico, quanto mi sia costato ricostruire
quei pochi attimi della Sua vita, attimi di eroismo scaturiti in
imprese che sarebbero bastati ad illuminare la storia di grandi
casate. Il Nostro, invece, pare scivolare timido e riottoso tra le
pieghe della storia, ora sostenendo la causa della democrazia in
America, ora sostenendo l'Italia, pur sempre la sua Patria.
Lo sappiamo intimo di Lincoln, ho accennato al suo contributo a favore
dell'esercito Prussiano nel 1870 a Sedan contro la Francia di
Napoleone III. E' un fatto storico dimostrato da più di un documento
ufficiale che Helmuth Karl Bernhard von Moltke fosse costantemente
accompagnato da un individuo, "grande uomo di Battaglia", che "si
esprimeva in un ottimo inglese, ma imprecava in uno sconosciuto idioma
tribale". Il generalissimo prussiano lo consultava per qualsiasi
decisione. Il "consigliere battagliero" non venne pero', al momento
del trionfo, premiato per la sua opera se e' vero, come e' dimostrato,
che si dice abbia testualmente detto:" SE 'NNA ERA PE MME SCTU' CAFONE
STEVE ANGoRE A CAVA' LI PATANE" prima di sputare per terra.
Lo ritroviamo in Italia da dove frettolosamente scappava per portare
la sua esperienza militare, ormai riconosciuta in 4 continenti, al
servizio dell'imperatore Meiji. Qualcuno dice che, ma su questo caro
Sergio non posso dare conferme, che la sua fuga sia dovuta
all'assassinio di Giuseppe Mazzini Nel 1872. L'episodio sarebbe
evocato dai versi dell'epitaffio che recita "tu in tante battaglie
duce, morto per Battaglia". Il maiuscolo ha fatto pensare Alfonsino di
Battaglia.
Ho scoperto, come dicevo, i documenti della sua permanenza in Giappone
ospite per diversi anni nella residenza dell'imperatore, onore
riservato solo a lui. Sai bene che in quel periodo il Giappone stava
riorganizzandosi dopo un lungo periodo di feudalesimo. Alfonso diede
il suo apporto nell'organizzazione dell'esercito.
Riportano le cronache imperiali:
" Alfio il Battagliatore e' il solo che può parlare guardando il
Grande Meiji. Entra ed esce dalla sua camera quando ne avverte la
voglia". Bisogna dire che al tempo l'imperatore era poco più che un
adolescente. Questa vita agiata forse lo aveva stancato se e' vero
che, Nel corsoc della rivolta di Satsuma nel 1877, alzandosi da tavola
e ruttando in faccia al Divino abbia esternato: "je so nu cujone
arrete stu cellancule" (frase ricostruita dall'onomatopea riportata
sulle fonti). E' un fatto storico che Alfonso compare nella battaglia
decisiva di Shiroyama tra le fila dei Samurai dissidenti avversi al
potere imperiale. E qui accade un fatto storico importantissimo a mio
avviso, e sul quale sto raccogliendo ancora documenti. Te lo propongo
come credo di averlo capito analizzando sia il racconto degli
imperiali sia le leggende tramandate dai pochi samurai superstiti.
Nel corso della battaglia si viene a creare una situazione di netta
superiorità delle forze imperiali. Alfonso guida l'ultimo disperato
arrembaggio quando, ritrovatosi solo di fronte al fuoco nemico, visto
il cadavere di un ufficiale imperiale e velocemente requisita
l'uniforme, si ritira dietro un cespuglio e ne esce ufficiale
Dell'Impero pronto a guidare il decisivo attacco agli ormai inermi
Samurai.
Si dice che, nel "cambiare casacca" dietro il cespuglio, abbia causato
la fuga di una quaglia da che deriverebbe l'espressione "salto della
quaglia". Tuttavia io non mi curo di tali leggende non suffragate da
documenti precisi e testimonianze attendibili. E' un fatto storico
pero' che nel teatro della sanguinosa battaglia si fronteggino due
statue monumentali, di eta' diverse, una raffigurante la disperata
furia guerriera del Samurai, l'altra la determinata azione
dell'Ufficiale Imperiale.
Entrambe tratteggiano i lineamenti ormai ben conosciuti di questo
Grande, troppo sconosciuto alla Storia, Alfonsino Di Battaglia.
Sto raccogliendo altri dati, frammenti, informazioni, brani di
leggende che mi permettano di andare avanti nella mia ricerca. Conosci
la mia volontà di non diffondere opinioni o congetture ma solo solide
realtà storiche.
Il lavoro e' duro, e ti ringrazio ancora per il conforto che mi offre
la tua disinteressata curiosità.

lunedì 28 marzo 2011

COME NACQUE IL TENNIS A GIULIANOVA
Era un tennis pionieristico, contava non più di dieci adepti, una sorta di ritrovo tra amici per praticare uno sport ai più non conosciuto, del quale si sentiva parlare come di un curioso nuovo modo di giocare, servendosi di uno strano aggeggio in legno e di alcune palle pelose. Una forma inconsueta di svago, riservata a pochi.  E quei pochi, muniti di tanta buona lena e di primitiva passione, mettevano in piedi una vecchia rete di pescatori sorretta da due pali e su un improvvisato campo non delimitato da linee né da spazi, inventavano le prime partite della storia tennistica cittadina.
Accadeva a Giulianova nell’immediato dopoguerra, quando il boom economico  cominciava a trapelare e le ragazze avvolte in fascinose gonne strette e in stretti corsetti a pois salivano in modo civettuolo sul sedile posteriore della Vespa o sulle seicento con gli sportelli a vento…
Così, a poco poco, prendeva forma un embrione inconsueto, uno sport individuale fatto di cortesia e di bon ton, assai diverso dal dilagante calcio già allora violento e maleducato. E in questa evidente antitesi trovavano facile spazio le sprezzanti ironie di coloro che il tennis ritenevano sport di femminucce, non destinato ad avere futuro al di fuori di quel ristretto numero di audaci pionieri, vittime essi stessi di una timida moda proveniente chissà da dove. Ma furono costoro non credibili profeti, se è vero che, di lì a breve, quel curioso modo di “giocare a tamburello” avrebbe avuto un suo dignitoso riconoscimento ufficiale. Anche a Giulianova. Sorsero allora i primi due campi, presso l’indimenticabile Golf Garden Bar del Lungomare Spalato, gestiti dall’allora imperante Azienda di Soggiorno e Turismo. Iniziava una nuova era.
Il numero dei praticanti crebbe in breve a dismisura. Non v’era Circolo, ma si svolgevano regolari “tornei sociali” nei quali primeggiarono per lungo tempo gli stessi nomi. Finale di rito Franco Croci- Umberto Giovagnoli, gli altri Tonino Albini, Carlo Bellocchio, Vincenzo Monina, Titì Orsini, Iwan Costantini, Giovanni Di Giovanni, Tancredi Ricchi D’Andrea . Questi furono i primi Poi a poco a poco nomi nuovi, attratti da quel mondo magico che andava  arricchendosi di episodi e di fatterelli, di dispute sornione e dei primi sfottò.
Si giocava spesso un doppio d’elite la domenica alle ore dodici, sotto il sole d’aprile, ed essere convocato lì, per i nuovi adepti, ai quali chi scrive all’epoca si unì, era dono indicibile.  Entrare in quel giro significava il riconoscimento ufficiale delle proprie capacità da parte di un collegio di santoni che apparivano come depositari delle verità tennistiche di allora. E molti a poco a poco furono “canonizzati”: i fratelli Sergio e Danilo Di Diodoro, Marcello Ferrari, Toni Sorgi, Lucio Spinozzi, Marcello Ciprietti, Battista Di Bonaventura, Nando Cardamone, Gabriele Dell’Ovo, Claudio Ciacci, Mauro Pantaloni, poi Gianfranco Falini, Enrico Robuffo, Nino Rastelli, il compianto Alfredo Cordoni, Sabatino………, Ludovico, Carlo e Umberto Raimondi, Rizzardo Costantini, Marco Monina,e tra le donne Luisa De Santis, Loredana Nazziconi, Valeria Di Pietrangelo, Elisa Strozzieri, Emma ed Emilia Solipaca.
Poi venne un uomo e qualcosa cambiò radicalmente. Giacomo Canini, romano, personaggio indimenticabile che amò il tennis oltre ogni misura, pose la prima pietra e gettò le basi di un progetto che all’epoca parve a molti esagerato.
Dai suoi primi e inevitabilmente incerti tentativi, da una traballante macchina cigolante, impacciata e goffa, sarebbe scaturita l’intera storia del Circolo tennis Giulianova , la prima sgangherata sede sociale, il primo banale giornalino, il primo torneo con tanto di giudice di sedia, giudici di linea e raccattapalle, la prima embrionale scuola tennis affidata a volontari e improvvisati “maestri” reclutati tra i più assidui frequentatori del Golf Bar.
Nel suo incerto procedere il timido sodalizio, cui non era ancora conferito crisma di ufficialità, muoveva i primi passi, tra un torneo e l’altro.
Famosi i “gialli” di allora che regalarono alla storia del tennis giuliese personaggi mai dimenticati, il tassista romano Gramiccia, il tedesco “crande Peppe”, e poi prodotti locali che nei gialli imperversavano, Paolo Vasanella, lo stesso presidente dell’AAST Claudio Posabella, Lino Coccia, il compianto Nino Marà, Paolo Gasparroni,  Raffaele Piccinini, Alessandro Pennesi, cui si univano anche racchette provenienti da fuori confine come Danilo e Riccardo Lucantoni di Teramo, …………………
Non meno famosa fu anche la prima e unica edizione della “Coppa di legno”, sorta, come un antipapa, in antitesi alla manifestazione dei “guru”del tempo….
Costruite queste prime fragili basi si cominciò a vivere con assidua quotidianità all’interno di un ambiente sempre più familiare, nel quale aveva un suo ruolo di ben definito protagonista il buon Domenico, custode tuttofare, giardiniere, segretario, operaio, tecnico della terra rossa, cliente non occasionale dei vicini bar e onnipresente nella spensierata vita del nascente sodalizio.
Presto i tempi furono maturi per un radicale mutamento. Dal pionieristico avvio ci si incamminò per un nuovo sentiero più professionale. Il Circolo assumeva una sua precisa fisionomia ed una sua identità fornendosi di un regolare Statuto, dell’auspicata affiliazione alla FIT,  di un Presidente, di consiglieri, di un regolamento sociale. Nel 1974 arrivò il primo torneo regolarmente riconosciuto dalla Federazione, sul campo 1, doveroso tangibile omaggio alla dedizione e alla perseveranza di chi aveva sempre fermamente creduto nell’avverarsi di un sogno.
Gli anni che seguirono,  il  successivo trasferimento presso i campi di via Ippodromo, la tormentata sequenza dei vari presidenti e dirigenti è storia dei nostri giorni. Le sorti del Circolo tennis di Giulianova, ancorchè ufficialmente affidate a  un ristretto numero di governanti sono oggi, in realtà, nella mani di tutti. Di tutti coloro che hanno amato ed amano questo sport, che lo praticano per diletto, per divertimento, per desiderio di stare insieme agli altri in un ambiente sano e sereno

mercoledì 9 marzo 2011

ALFONSO DELLA BATTAGLIA – CHI ERA DAVVERO?


Il lungo silenzio del mio amico ricercatore ha alimentato in me la speranza che potessero arrivare, dopo così lunga pausa, notizie estremamente interessanti con riferimento al suo certosino lavoro di indagine nei meandri della storia.
L’attesa, in effetti, non è stata vana. Mi giunge, assai gradito, questo incredibile aggiornamento, frutto di un lavoro condotto con tanta passione e con estrema puntigliosità. Che dire delle suggestive supposizioni e delle temerarie congetture di questo pertinace studioso, egli stesso così sconvolto dalla  sconcertante rilevanza del materiale in suo possesso?
Così mi scrive:                         

Caro Sergio,

e' da tanto che non hai mie notizie, da quando, lasciata Washington, sono tornato in Europa sulle orme di Alfonso Di Battaglia. La ricerca non e' stata vana. Al Museo Borbonico di Napoli ho trovato, non senza fatiche, una copia fotostatica della Domenica del Corriere che ti invierò per posta. Il servizio giornalistico, datato 1901, parla di un personaggio poco  noto agli storici del tempo, e in effetti poco noto al giornalista stesso se e' vero, come leggo, che lo descrive solo come "un connazionale degli Abruzzi". Riporto integralmente il pezzo:

"Nelle vallate degli Abruzzi, vicino Teramo pare sia nato un personaggio tanto influente per la storia del nostro tempo quanto nascosto agli occhi della folla.
Questo nostro connazionale, amico di Garibaldi, l'eroe dei due mondi, fu spedito dallo stesso negli Stati Uniti  per dar man forte alla nascente democrazia. Comandante in capo delle truppe nordiste, pare abbia inflitto numerosi colpi alle forze schiaviste. Molti dei suoi successi furono attribuiti al generale Grant, che da allora si fregio' dell'amicizia dell'uomo. Tanto schivo che non conosciamo il suo vero nome: alcuni lo chiamano "l'italiano  battagliero", altri "Alfonso della battaglia" con riferimento si pensa alla battaglia di Pittsburgh nella cui piazza centrale si erge maestosa l'immagine, pare, del nostro condottiero confratello.
Uomo schivo ma efficace pare sia stato lui a scrivere di suo pugno il XIII emendamento della Costituzione Americana, che passo' al suo intimo Abramo Lincoln. Al funerale del grande Presidente pare fosse l'unico borghese portatore di bara. Chi sei tu dunque o famoso sconosciuto? Dove ti aggiri a manovrare le leve del mondo?

Caro Sergio, capisci l'enormità delle evoluzioni cui dobbiamo testimoniare al mondo intero. Tu, che indomito e indurito sotto lo sciabordare dei flutti oceanici, navighi solitario come un novello Ulisse verso il colle della Verità, tu che mi pregasti di non desistere e continuare imperterrito ed imperituro, a svelare questo curioso personaggio che oggi si rivela il più grande dei grandi, che ha plasmato con le sue mani, nascosto al mondo ed alla folla urlante, un secolo di storia di questo misero mondo, tu o Sergio diffondi questa mia.
La storia non finisce qui. Alfonsino Di Battaglia torna in Europa. Fitte nebbie avvolgono ancora alcuni decenni della sua vita. Sappiamo pero' che fu una figura centrale nella disfatta di Caporetto e soprattutto nell'offensiva del Piave.
Dal diario di guerra del Tenente Bianchin dell'artiglieria del XXX Corpo d'Armata:

"Da qualche giorno si sente un sollievo, voglia di vivere e pugnare. Un distinto vecchio di aggira tra le nostre fila, insieme a colonnelli e generali, senz'altro esperto di cose di guerra. Lo dicono amico di Diaz. Lo dicono amico dell'Eroe. Sfoggia una camicia rossa che ci infonde coraggio. Non parla un ottima lingua ma si fa capire."

Il caporale Chiminghi del IV Corpo della IX Armata schierata sul piano e' meno poetico:

"Questo vecchio ci tiro' giù dalle brande ed imprecando “Porc********, Porc******, urlava come un ossesso: all'attacco, NON PASSA LO STRANIERO!!!!!".

Erano le 3 del mattino del 24 ottobre 1918, l'offensiva del Piave era iniziata. Proprio in corrispondenza di quei posti trovate ancora oggi una statua di bronzo che ritrae un ardimentoso vecchio, molto simile nelle fattezze al vigoroso soldato di Pittsburgh.
Queste sono solo tessere di un puzzle molto più esteso le cui propaggini ancora non afferro del tutto.
Ti lascio con due quesiti:
Chi accese la miccia della rivoluzione russa del '17?
Nel periodo di amicizia col Gen. Graziani, in Libia, cosa ando' a fare?
Può darsi che fosse un  personaggio destinato a diventare un ….nonno famoso???
(Non oso scrivere di chi, aspetto ulteriori conferme….)

Ti saluto

domenica 23 gennaio 2011

BATTLING PHONSE




Non senza travaglio il mio amico ricercatore spulcia tra le ingiallite carte del suo solaio dalle quali emergono indizi che aprono le porte a suggestive supposizioni.  La ricerca della verità, sepolta sotto la coltre della polvere che altera i manoscritti, diviene sempre più affascinante e disegna scenari che sembrano incredibili ma che, forse ……

Sergio,
Ti scrivo questo quasi come un testamento. Come fratelli combattemmo fianco a fianco più di una volta sotto i colpi dei frombolieri a noi avversi, volti a fiaccare la nostra marmorea determinazione a dissetarci alla fonte della Verità, a vedere quella luce che ormai non abita più in questo mondo che  più e più di me saggi hanno definito - cito letteralmente - un "mondo di merda" . Le ricerche che da settimane conduco hanno portato a risultati inattesi quanto strabilianti. Come tacere che un nostro concittadino, forse persino un nostro avo, quel buffo, scaltro Alfonso nativo di Battaglia di Campli forse sedette il 22 luglio del 1862 al tavolo insieme ad Abramo Lincoln che firmava la proclamazione di emancipazione? Indizi, voci, frammenti e lembi di quello sdrucito manoscritto turbinano nella mia mente. Mi portano al quel Sant'Antonio ritratto nella vecchia chiesetta di battaglia che ha le sembianze dello statista americano. Chi sarebbe allora quel "great italian commander" spedito a Lincoln "from Garibaldi" che assomiglia tanto ad Alfonsino, che nelle carte ufficiali carpite quasi con la forza allo Smithsonian Museum di Washington viene definito solamente come "battling Phonse"? Tante notizie che mi hanno allontanato dal conforto dei cari per risolvere questi enigmi ed avvicinarmi, passo dopo passo, cotidie, ai fulgidi raggi della Verità che soli possono scaldare il cuore del giusto.
La stanchezza mi prende, devo dormire. Sappi comunque che continuo a lavorare senza sosta. Non tutto posso rivelare adesso. Dubbi profondi mi tormentano, battaglie, sangue, simboli massonici e religiosi turbinano nella storia di questo misterioso personaggio. Pare che dalle anonime campagne del contado borbonico, questo cafone - nel primitivo senso del termine - abbia forgiato una parte non trascurabile della storia moderna dell'occidente. Lo ritrovo a Vienna, e poi ancora all'assedio di Vicksburg nel 1863, nella battaglia di Sedan  nel 1870 dove pare presenziasse coi gradi di generale. Non voglio svelare quello che il mio intuito da giorni sussurra alla mia ragione. Non voglio dire tutto. Ti voglio lasciare con l'incipit e la conclusione di una missiva data 1908:
"Dear Phonzo"........"Theodore Roosevelt II"

venerdì 14 gennaio 2011

CARA IGNOTA MADRE LINGUA

Il lassismo che imperversa da ormai troppi anni nelle scuole italiane di ogni ordine e grado, non escluse le Università ,  si traduce non solo in una ormai nota  ed inarrestabile mancanza di rispetto nei confronti del corpo insegnante, offeso e vilipeso, ma anche in una smisurata proliferazione di ignoranza, a tutti i livelli. Difficile trovare studenti modello, difficile credere che possano venir fuori dalle libertine aule dei Licei martiri delle “sudate carte” destinati a fulgide carriere professionali. Poca preparazione, pressapochismo, superficialità, voglia di ottenere il massimo risultato senza pagare il prezzo dell’impegno, tutto concorre a creare una classe di diplomati e laureati che, quand’anche in possesso di brillanti  o almeno normali intelligenze, nulla o poco raccolgono, a livello di preparazione culturale,  da una carriera studentesca che, tranne rarissime eccezioni, è vissuta sempre in modo assai mediocre. Perché? Prima di tutto perché è consentito ottenere risultati senza che sia chiesta in cambio una preparazione appena sufficiente. In secondo luogo perché non esiste più la figura del docente dotato di carisma dalle cui labbra sgorghino parole di insegnamento alla vita. I nuovi saccenti siedono sui banchi nella convinzione di avere di fronte un loro stesso collega, più anziano, cui non lesinare improperi, atteggiamenti di ribellione e di sfida, palesi rifiuti, aperte provocazioni.
Questo, e molto peggio di questo,  io, dedito mio malgrado al pendolarismo quotidiano,  immagino della classe studentesca di oggi, traendo deduzioni dal comportamento di giovani teen agers (e non) che incontro ogni giorno sui mezzi pubblici.    
Che dire dei dialoghi? Poche parole in italiano, infarcite di scurrilità, bestemmie, risate sonore e sguaiate, insulti reciproci, trivialità. Tutto con gli auricolari infilati nel padiglione auricolare e con il pollice in fermento sulle tastiere dei cellulari. Visto uno visti tutti.
Stendo un pietoso velo sull’abbigliamento , ostentatamente lacero, costosamente lacero. Ma il vero disarmante momento di costernazione arriva quando ti accorgi che la lingua italiana, la cara madrelingua, comune genitrice di ognuno, è completamente sconosciuta, ignorata, vilipesa. Di tutto e di più se li senti coniugare , concordare, declinare. Un baratro enorme avvolge la vacuità di quei brevi discorsi, e il cuore si angoscia. Ove sei Madre Lingua che nessuno dei tuoi figli più riconosce come tale? Stride il condizionale trascinato come ferro sull’asfalto da un “se” pericolosamente e coraggiosamente introdotto in apertura, senza remore e senza timori, ma con tanta incosciente audacia.
Un’ignoranza fastidiosa, che si compiace di se stessa, incurante di ferire in modo non lieve le orecchie di alcuni (ma pochi) astanti.
Un prezzo che poi si paga. Ecco perché non c’è meraviglia se  deputati, senatori, onorevoli non rispondono in modo giusto quando viene chiesto loro il participio passato di un verbo anomalo. E’ la normalità. E’ il risultato finale di carriere scolastiche allegre e  disoneste, culminate nondimeno per loro nel raggiungimento di obiettivi concreti ed importanti. Un’immagine pubblica che incute soggezione a fronte di un vuoto culturale infinito. Almeno per quello che attiene la lingua italiana.
 La cara, nostra, ignota Madre Lingua…..