giovedì 30 dicembre 2010

QUEL MANOSCRITTO MISTERIOSO



Il mio amico ricercatore prosegue la sua indagine su un manoscritto rinvenuto nel solaio di una vecchia casa di campagna. Elementi coincidenti sembrerebbero confermare la datazione del reperto e la suggestiva identificazione del misterioso personaggio, così come lo stesso ricercatore azzarda nella sua ipotesi.
Naturalmente accolgo con gran piacere, a beneficio di tutti i lettori, il materiale ancora grezzo che dovrà  essere sottoposto ad ulteriori analisi. Nel frattempo, tuttavia, traspare la possibilità che da queste strane righe si possa ricostruire qualche aneddoto storico assolutamente inedito.
C’è da dire in verità che dei Mille  faceva parte anche Menotti, figlio del generale, nato nel 1840 e che  quindi, all’epoca dei fatti, avrebbe potuto essere  adolescente o già giovinetto (ricordo che la presunta datazione degli avvenimenti è, per ora, collocata tra il 1830 ed il 1870).
Se qualche lettore ha da aggiungere lo faccia pure, sempre per il bene della fedeltà alla storia .


Caro Sergio,
Ti ringrazio per l'aiuto che i nostri amici del blog mi hanno offerto per decifrare il manoscritto. E' d'uopo che io ti faccia pubblicamente i miei ringraziamenti. Spero di farti cosa gradita aggiungendo quello che con l'ausilio della scienza chimica sono riuscito a carpire dal consunto quaderno. Non sono ancora in grado di trascrivere il contenuto parola per parola, perché i processi chimici stanno ancora agendo sul vecchio inchiostro. Pare pero' emergere che la penna scrivente sarebbe quella di un certo "Funzine de Battaje". I fatti narrati dovrebbero essere coincidenti con il periodo della caduta della fortezza di Civitella. Ancora non posso dirti nulla sulla trama di questi fugaci commenti, anche perché alcuni  particolari non coincidono con la realtà storica accettata dei fatti. Si fa riferimento ad un certo "Giuseppo lo Ribalto" e talvolta ad un "Garibalto" che potrebbe essere un soprannome vista la popolarità dell'eroe dei due mondi a quei tempi. L'unico pezzo che posso riportare sperando nell'aiuto dei lettori e' il seguente:

"Garibalto me dicette secretando lo penziere all'atri, Cuesti Barboni fors'e mije de llu delinquente de Conte summont'alu Piemond
E ije ce crate pecc'a dormute sul lu letta mi' e magnate lu cace mi e va scupenne che fannamura' tutte li fammene cullu' barbone de demonje"

E' chiaro, Sergio, che io non posso credere che Giuseppe Garibaldi si aggirasse nella campagna teramana facendo innamorare le contadine, parlando male di Cavour e inneggiando alla restaurazione del Regno Borbonico. Qualche lettore con basi di storiografia più solide delle mie e' in grado di aiutarmi?
Se non altro aiutami tu pubblicando sul blog.

Ciao e grazie.

lunedì 13 dicembre 2010

IN UN VECCHIO CASSETTO….

Un amico lettore del blog,  rovistando tra le vecchie carte del defunto nonno, in un vecchio solaio di una casa di campagna, nei pressi di Campli, ha rinvenuto un antico manoscritto, estremamente originale  non solo per il contenuto polemico, ma soprattutto perché scritto in modo spontaneo ed estemporaneo, con grande massacro della lingua madre, bistrattata nella grammatica e nella grafia. Un documento, tuttavia, dal quale traspaiono alcuni riferimenti  che potrebbero costituire base di ulteriori ricerche storiografiche sul territorio:

Caro Sergio,
 Come ti ho anticipato, necessito di allegerirmi di un peso gravoso che mi opprime. Tu sai, infatti, come ti ho più volte ricordato, che io ho ritrovato un antico manoscritto rovistando tra le carte del mio defunto nonno nella casa di campagna di famiglia vicino Campli. Subito penserai al classico artificio letterario del manoscritto: questo non lo e'. Te ne trascrivo un piccolo pezzo che' tu possa giudicare da solo. Ti preciso solo che non ho idea di chi, quando e perché abbia scritto queste parole di fuoco, tanto più che la narrazione risulta sconnessa. Dalla qualità della carta, dall'analisi del suo deperimento, e con l'ausilio di un amico più esperto di me in queste cose, sono riuscito a risalire ad una datazione approssimativa tra il 1830 ed il 1870.
 L'autore, forse un parente, si esprime come un uomo non colto ma ingegnoso, addentro alle cose politiche del tempo, tendente alla speculazione filosofica, ma ti ripeto giudica tu ed i lettori del tuo seguitissimo blog affinché qualcuno possa aiutarmi a svelare questo mistero. Ecco dunque la sostanza....

 "cuando so' parlato co lo superiore di civitello, Subbito sono capit cullu' era uno crande delincuente. Riteva colli occhi allu puverome Che ci stava annunzi. E che cchiu' lo unculava cchiu' lo povero faceva sci sci cola coccia. Reteva reteva lo cummanante sotto lo baffo e intanto io lo squatrafo e lo conoscevo una mmerda. Uno crante girare di puttanizie intorno di lui. Lo grante superiore di civitello riteva sotto li baffi che non cia' a le puttanizie telo poveromo onesto e timorato diiddio cola d grossa"....

 Qui, caro Sergio, non riesco più a decifrare, solo si legge una breve nota che mi ha stupito per la crudezza ed il pessimismo che infonde.

 "cuasi che vollio penzare tando lo sali nela potenza, tando puttaniere e delincuente addivieni c cche la pottenza ti rote lo cervellatt e pinzi sembri a scopare a telinquentare li aldri che pure ladri sono"

Firma illeggibile.

 Chi poteva essere questo personaggio di Civitello (Civitella?) che abusava del suo potere in maniera tanto sfacciata quanto bassa? Ti prego aiutami. Intanto spero di poter recuperare altre parti dal rovinato manoscritto.


lunedì 6 dicembre 2010

PUR DI APPARIRE…….


Quando vengono conferiti incarichi nelle pubbliche Amministrazioni e quando si affida un Assessorato a qualcuno, lo si fa perché si ritiene quel soggetto in grado di poter espletare al meglio la missione che gli viene  affidata. Perché ciò avvenga è però necessario che il soggetto stesso sia in possesso di capacità specifiche nel settore in cui va ad operare. Per tale ragione l’Assessorato allo Sport sarebbe ben conferito ad un ex campione del passato, o a qualcuno che ha sempre avuto le mani in pasta in gare, tornei, campionati di qualche disciplina sportiva. Non diversamente l’Assessore al Turismo dovrebbe essere un tecnico addetto ai lavori, magari il titolare di un’accreditata Agenzia di Viaggi, o una persona che per mille motivi abbia molto viaggiato, e conosciuto il mondo, e che sia in grado di comprendere le potenzialità turistiche di un territorio e di farle fruttare ed emergere, fino a renderle produttive per l’intera comunità. L’Assessore alla cultura sarà una persona dotta, acculturata, capace di esprimersi bene in lingua italiana, senza commettere errori di grammatica o di sintassi. Un soggetto che possa vantare un curriculum professionale di tutto rispetto e che quindi sappia indirizzare al meglio il mondo studentesco, intervenendo nelle strutture e finalizzandole al raggiungimento di importanti obiettivi socio-culturali. L’Assessore al Bilancio dovrebbe saperne di Economia, tanto da essere molto esperto in fatti fiscali, capace di redigere impeccabilmente il Bilancio dell’Ente, di intervenire in modo corretto e puntuale in tutte le problematiche burocratiche. Dovrebbe saperne di normative  e di tributi, sapersi muovere agevolmente nella giungla contributiva e rappresentare un punto di riferimento per tutta la cittadinanza.
Tutti coloro che operano nel sociale e che amministrano una comunità dovrebbero essere esperti nel settore in cui vanno ad operare.
Non sempre, però, questo avviene.
Forse perché chi ha veramente competenze da vendere non vuole metterle al servizio degli altri? O perché non ama la bagarre politica?  O perché, sapendone troppo, può mettere in ombra qualcuno? Chissà. Certo che se, avendo i requisiti necessari, non ci si propone al giudizio degli elettori, non ci si può poi lamentare se gli Assessori allo Sport non sanno nulla di discipline sportive, se gli Assessori alla Cultura ignorano la lingua e la letteratura italiana, se gli assessori al Bilancio si perdono in un calcolo banale, se l’Assessore al Turismo non ha mai preso un aereo, se, insomma,  chi guida una comunità lo fa senza averne i mezzi, la possibilità, la capacità, l’attitudine, la conoscenza necessarie.
Lo fa avendo solo la volontà di apparire e di raccogliere notorietà senza seminare nulla.
Che è troppo poco.

giovedì 2 dicembre 2010

BELLI RICCHI E FAMOSI - IL CONTRATTO DELLA VITA


Alcuni individui durante la loro permanenza sul pianeta Terra hanno la ventura di trovare coincidenze, situazioni, casualità, doni della sorte, casi particolari, combinazioni, fatalità, per cui riescono a vedere lievitare il loro indiscusso talento in progressione aritmetica fino al  raggiungimento di ambiziosi obiettivi, spesso inarrivabili per altri. 
Chi determina a priori gli eventi che accompagneranno la vita di ciascuno? 
Mentre in un angolo del mondo un tennista famoso, ricco, bello, vince l’ennesimo torneo multimiliardario, in un’altra parte del mondo, alla stessa ora, una madre che nessuno conosce, poverissima, abbruttita dalle vicende della vita, perde l’unico figlio perché malato e denutrito.
Chi guida il fato?
Ci deve essere, sotto, un contratto. Prima della nascita vengono presentate al candidato prescelto per la “prova della vita” alcune potenziali evenienze  inversamente proporzionali alla possibilità di espiazione. Meglio si va  a vivere e meno si ottiene, in termini di punteggio, per la vita successiva. Più si accettano situazioni di sofferenza più si guadagnano crediti di felicità. Una sorta di meccanismo predefinito che una volta avviato non è più modificabile.
Sarebbe difficile, diversamente, spiegare perché tante diversità. Einstein si rifiutava di credere che Dio giocasse a dadi con il mondo. Se tutto dipendesse dal “caso” saremmo fuscelli in balìa di un fortunale, affidati alle bizze del vento, impossibilitati ad intervenire. Ma se così fosse sarebbe negabile l’immanenza di una guida superiore , almeno che essa non sia identificata con il “caso” stesso. Se invece si è propensi a legittimare la presenza di una volontà suprema ci si torna a chiedere perché tanta diversità di trattamento.
Ecco perché la teoria esposta in apertura acquista un suo fascino. Se sei derelitto, povero, brutto ed ignoto sei avvantaggiato rispetto a chi è bello, ricco e famoso. Non durante la vita, ma dopo. Sia che tu viva un’altra vita terrena sia che tu possa usufruire di una nuova esistenza, diversa da quella terrena. In entrambi i casi hai accumulato crediti che ti consentiranno di stipulare un “contratto” migliore di quello di prima.
Immagino che prima di venire al mondo mi sia stato chiesto dettagliatamente di accettare o di rifiutare alcune cose. Il tennista bello ricco e famoso ha accettato di essere tale a scapito di ciò che potrà avere in una vita futura. Io avrò rifiutato quei benefici per vivere nell’anonimato, ma ho le carte in regola per poter vivere la mia prossima vita in condizioni di assoluto privilegio e sarò o bello o ricco o famoso e, nella migliore ipotesi, bello ricco e famoso.
Il momento del reset è quello della morte. Poi si ricomincia daccapo, sulla base di un nuovo contratto.
Deve essere sicuramente così.
Forse.

mercoledì 10 novembre 2010

FELICITA' E RICORDI

Ogni bene si apprezza quando si è perduto.  Non si riesce a godere appieno dell’attimo che reca serenità o gioia se non nel momento in cui esso diventa ricordo o rimpianto. Così capita che vicende del passato, rivissute nel pensiero, si arricchiscano di sensazioni ineffabili che le collocano in un limbo della mente, dal quale è piacevole richiamarle per apprezzarle a distanza. Purtroppo, però, essendo trascorse, non possono che regalare attimi di nostalgia e l’amarezza di non averne gioito quando esse erano pieno nostro totale possesso.
In realtà il “carpe diem”, o più in dettaglio, l’esortazione a godere dell’attimo che fugge, non è facilmente realizzabile se non con un forte atto di volontà che, tuttavia, in quanto forzoso, toglie spontaneità al momento di piacere, creando una situazione artificiosa. In buona sostanza ci si impone di  trarre dalla circostanza  favorevole e gioiosa percezioni di felicità che, però, risultano sempre inappaganti e sicuramente meno intense di quelle che si proveranno in seguito, quando quell’evento sarà divenuto possesso della mente, elaborato e perfezionato come ricordo.

Da ciò si trae che l’attimo di felicità, in quanto tale, non esiste. Esso altro non è che una proiezione della mente che, trascorso del tempo, rivede e migliora gli episodi trascorsi e, come un pittore sulla tela, li dipinge e li colora a suo piacimento, arrecando piacere amaro e rimpianto accorato. Questo accade del resto non solo per gli accadimenti piacevoli e lieti, ma anche per quelli tristi e dolorosi. Rivissuto a distanza un evento infausto, se non cancellato completamente e ripudiato dalla mente stessa, si attenua e si affievolisce, quasi a diventare prezioso possesso che si finisce, tutto sommato, per avere a caro.

Anche il valore ed i meriti di una persona si apprezzano quando  da essa ci si allontana. Perdere o allontanarsi per sempre da  chi si è avuto al fianco per tanto tempo serve a farne risaltare le doti e le virtù che prima non erano state tenute nella dovuta considerazione. E anche qui si resta vittime del rimpianto, per non aver detto o fatto qualcosa che sarebbe stato doveroso dire o fare.
Lo stato di calma piatta, di serenità totale, di perfetta quiete non esiste.
Guardare tutto ciò che avviene senza riuscire ad esaminarne veramente la portata emotiva significa far trascorrere il tempo invano, in modo asettico. Il vero momento critico, quello in cui il soggetto esplica una funzione valutativa è  sempre successivo. È solo a posteriori che si riesce ad inquadrare nella loro reale portata gli stati d’animo e ciò genera una condizione di sconforto alla quale non è possibile porre rimedio. Ecco perché, poi, si cerca sollievo nel ricordo che, implementato dei fantastici ghirigori della mente, rappresenta episodi ed avvenimenti del passato filtrandoli attraverso una rete di false emozioni, che li rendono diversi, migliorandoli,  da come erano nella realtà.
Per tale ragione mai uomo potrà godere appieno dell’attimo che scorre, quantunque in una situazione di apparente felicità.

L’istante di felicità è una chimerica illusione che si vive, di riflesso, quando è già trascorsa, ed è scivolata via come sabbia tra le dita

venerdì 29 ottobre 2010

SALONE DEL GUSTO 2010- ATTO SECONDO

ALLO SLOW FOOD 2010

Inizia con un fatale malinteso la “due giorni” di quest’anno al Salone del Gusto di Torino, “Slow Food edizione 2010””. Per gli infaticabili redattori di “Crescere”, inviati speciali, la spedizione prevede una partenza con levataccia, alle ore cinque del mattino. Viaggio in auto, quattro persone, due giornalisti iscritti all’albo, tra i quali il Mega Direttore della rivista, un fotografo sommelier ed un “degustatore ufficiale”, qualifica quest’ultima meritatamente conseguita due anni fa, come si ricorderà, dopo alterne e difficili vicende.
Il quartetto ha appuntamento al casello autostradale di Mosciano S. Angelo. Ma già al momento del primo meeting si capisce che qualcosa non ha funzionato: il degustatore arriva indossando abiti super invernali: scarponi da “Camel Trophy” fino a metà stinco, pantaloni imbottiti, maglione bianco di lana di pecora con collo alla dolce vita, giaccone imbottito con piume d’oca, berretto di lana con paraorecchie e sottogola, guanti imbottiti. Troppo per un week end previsto con condizioni  meteorologiche “stazionarie”.  Gli chiediamo subito la ragione di una scelta così singolare e viene fuori un fatto che sta a metà tra  l’incredibile ed il grottesco: la sera precedente la partenza il degustatore transita per caso davanti al solito bar, dove incontra il solito amico, non al massimo della sobrietà, data l’ora tarda. E’ in corso l’incontro di calcio tra Juventus e Salisburgo. L’amico segnala al degustatore che la temperatura in campo è a -3 gradi. Il degustatore associa  la Juventus alla città di Torino, meta del suo servizio il giorno successivo. Il gioco è fatto. Torino a meno tre, abbigliamento alaskiano. Apprende solo l’indomani, alla partenza, che la Juve ha giocato in Austria, a Salisburgo, e che a Torino la temperatura media avvertita è di 13 gradi sopra lo zero. Ma ormai è troppo tardi. Il sottile malinteso lo costringerà a sopportare una temperatura corporea superiore ai 39 gradi centigradi  per tutta la durata della missione.
In auto, durante il viaggio, per comune utilità, ma soprattutto per rispetto della maggioranza e del Mega Direttore,  il climatizzatore viene impostato tassativamente  a gradi 22.  Alla prima sosta in Autogrill il degustatore scende completamente madido di sudore, ma poiché si va a lavorare e non a divertirsi, deve comunque abbozzare sorrisi a tutti e sopportare.
L’arrivo a Torino, alla ricerca dell’Hotel, è reso problematico dai capricci del navigatore che ripete in continuazione “ricalcolo percorso”, ritardando l’inizio dei lavori  giornalistici. Alla fine si decide di chiedere in giro, per fare prima. Dopo aver interpellato senza esito prima un rumeno e poi un albanese senza permesso di soggiorno, una prorompente prostituta che rientra dalle prestazioni notturne e che, fraintendendo,  con il dito ci fa segno di no, avendo completato il servizio, ed un non vedente in attesa dell’autobus, ci imbattiamo finalmente in un torinese purosangue. In realtà siamo davanti all’albergo da almeno tre quarti d’ora, ma la chioma di un albero di alto fusto rendeva impossibile  l’individuazione dell’insegna luminosa. Finalmente tranquilli disattiviamo il navigatore, scoprendo per caso che per errore era stata impostata come città di destinazione “Torino di Sangro”, forse per via dell’oscurità del mattino. Sistemati i bagagli nelle rispettive camere chiamiamo un taxi per andare a lavorare al glorioso “Lingotto”.
Forse per la stanchezza del viaggio, forse per via di una caratteriale serafica calma, il Mega Direttore si accosta all’auto con passo lento e cadenzato, tanto da suscitare una educata reazione del tassista che bonariamente ci fa notare che , a quei ritmi, in due giorni, potremo visitare al massimo solo un paio di stands dei 910 espositori del Salone.
Arriviamo al Lingotto Fiere alle ore 14,20 con circa due ore di ritardo sull’orario previsto. L’accumulo di stress,  la levataccia, la sobria colazione consumata in Autogrill, hanno accresciuto in ciascuno di noi un senso di languore che il degustatore non esita a definire vera e propria fame.




Per tale ragione, data anche l’ora tarda, aggrediamo il primo gazebo di formaggi spagnoli, precipitandoci sull’”assaggio” che viene venduto a Euro 2,50: si tratta di una minuscola fettina di formaggio di pecora nera che viene da tutti giudicato “ottimo”. Detto, fatto. I nostri zaini si riempiono di  quella prima leccornia, costi quel che costi. Segue una seconda degustazione, poi una terza. La fame impone anche  un’immediata sosta allo stand successivo ove ci viene servita una ridottissima porzione di riso allo zafferano con gamberi che consumiamo scomodamente in piedi, curvi  davanti ad un tavolo basso, tondo,  di 60 cm di diametro. Assumiamo una birra per ciascuno, anch’esse spagnole. Volati i primi 50 euro a testa proseguiamo la visita, scoprendo che quei gradevoli assaggini hanno notevolmente aumentato in ognuno di noi il senso di fame. Nello stand spagnolo ci tratteniamo ancora, anche perché il degustatore, padrone della lingua,  conversa animatamente in spagnolo con una graziosa senorita, la quale, in verità, parla e risponde in italiano fluente. 
Fronteggiati a malapena i morsi della fame, siamo comunque ormai pronti a  raccogliere appunti per il servizio giornalistico, vero scopo della nostra missione. Decidiamo così di iniziare a scattare qualche foto, per il doveroso corredo agli articoli che andremo a scrivere. Il fotografo ufficiale, uomo di grande stile e riconosciuto sommelier,  propone una prima foto a quattro, per informare i futuri lettori anche in merito alla composizione fisica del quartetto di inviati speciali. Chiede ad un passante, dal viso rubicondo e paonazzo,  che indossa un largo berretto a sombrero, di scattarci una foto. L’avventore, però, personaggio strano, dallo sguardo vitreo e perso, dal quale è lecito presumere che possa aver superato di diverse tacche il limite della sobrietà, barcollando, comprende tutt’altra cosa e si pone tra noi, abbracciandoci ed iniziando a cantare sguaiatamente,  per essere fotografato nel gruppo. Pazienza, una foto forse simpatica, ma inutile per il giornale.

Forse per via della crisi, forse per contenere i costi gravosi, a differenza degli anni precedenti questa volta gli assaggi si pagano. Non ne è a conoscenza il degustatore ufficiale che, memore delle passate esperienze, sempre sudatissimo, accede tranquillamente agli stands assaggiando qua e là, senza curarsi dei cartellini che indicano i prezzi . Lo fa senza malafede, ma con tale disinvoltura che i vari espositori non riescono ad ostacolarlo, tanto irretiti da quella baldanzosa impassibilità da temere una sua reazione incontrollata. Al cronista, al fotografo ed al Mega Direttore, davanti alla scena, non resta che fingere di non conoscerlo, evitando anche di rispondere alle sue domande  e voltando il viso dall’altra parte. Vedendosi rinnegato il degustatore intuisce che qualcosa non va  e si allontana velocemente in direzione della toilette, entro la quale rimane rinchiuso, in preda ad una crisi di pudore, per i venti minuti successivi.
Ci rincontriamo dopo circa mezz’ora tutti e quattro in uno stand molto caratteristico, presso il quale vengono serviti (a pagamento)  gustosi tranci di tonno bianco del Mar Cantabrico, rarissimo. Estasiato non poco dal piacere  generato dalla sapidità del prodotto il degustatore, forte della sua non comune esperienza, sostiene che si può tranquillamente mangiare anche il piccolo contenitore: una barchetta di plastica dura che a lui sembra di ostia bianca. Proviamo ad informarlo del contrario, ma si sa, in questi casi la parola di un degustatore diplomato vale più di quella di ogni altra persona. Dopo una lunga ed infruttuosa masticazione finalmente si convince e getta via imprecando la sua barchetta masticata che va ad aggiungersi ad altre migliaia di barchette, integre, in un cestino non lontano, all’uopo predisposto.
Arriviamo al momento clou del servizio: il laboratorio del gusto. Questa volta l’amico e collega fotografo, addetto alla prenotazione, ha  optato per una degustazione di vini francesi di altissima qualità.  Una scelta coraggiosa ed impegnativa. Appena seduti, indossate le cuffie per la simultanea, ci avvertono che si tratterà di una prova estremamente sofisticata, articolata su sottilissime distinzioni di sapore tra sette vini rossi barricati in legni diversi. La differenza sarà unicamente nel tipo di legname utilizzato per la barrique. Viene ribadito che il laboratorio è indirizzato solo a palati sensibilissimi. Stillano meticolosamente, con religiosa cura, il prezioso nettare nei sette calici posti davanti a ciascuno di noi ma, vuoi per la fatica accumulata, vuoi per la sete generata dalla continua e costante sudorazione, il degustatore ritiene opportuno procedere alla completa e totale bevuta dei sette vins de Bourgogne in un'unica ed esaustiva assunzione. Per non subire i ritorni deleteri dell’alcool, inoltre, consuma avidamente anche i bocconcini di pane sistemati nel cestino davanti a noi ed in quello del tavolo adiacente. Sicchè, dopo circa venticinque minuti, quando viene autorizzato l’assaggio ufficiale del primo calice, il degustatore appare annoiato e poco incline all’ascolto e  appoggiando il mento sulla mano, simula un profondissimo interesse, abbandonandosi ad un corroborante  sonnellino ristoratore.
Il Mega Direttore, dopo aver fatto pericolosamente tintinnare due volte i sette calici per via del fatto che c’è poco spazio tra la sua sedia e il ripiano del tavolo, non avendo seguìto da vicino l’originale iter di apprendimento attuato dal degustatore, si sorprende perché non ci sono i bocconcini di pane nel cestino e richiama con garbo ma con fermezza una delle hostess, ricordandole che in quel tavolo siedono esponenti della stampa  e che queste omissioni saranno oggetto di rilevazione quando saranno estese le recensioni per il giornale.
Il fotografo esegue il suo lavoro, ma si lamenta perché non riesce ad inquadrare bene i soggetti, per via di una continua lacrimazione, conseguenza di un’inopportuna crisi di riso che, iniziata per colpa del degustatore appena entrati,  non accenna a risolversi.
Trattandosi di un laboratorio per esperti viene richiesto ad un certo punto l’intervento dei partecipanti, al fine di raccogliere pareri sulle diverse sfumature di sapore rilevate assaggiando i
sette preziosi campioni  di Borgogna. Svegliandosi quasi di soprassalto il degustatore ha un sussulto
e fa per stirarsi, ma il suo gesto viene scambiato per una prenotazione di intervento, tanto che gli viene fatto cenno di attendere e viene messo in coda in attesa del suo turno. A questo punto il Mega Direttore, uomo di grande esperienza giornalistica, accertato con un semplice sguardo di intesa che nessuno di noi ha riscontrato nei campioni sottigliezze di sorta e che ognuno è fermamente convinto di aver bevuto sempre lo stesso vino, coglie al volo la necessità di abbandonare l’aula e con un segnale della mano destra, pacato ma inconfondibile, palesa la strategica esigenza  di guadagnare immediatamente l’uscita. Adducendo pretesti vari (aereo in partenza, necessità di correre in redazione etc.) abbandoniamo il consesso, tra il rinnovato tintinnio dei sette bicchieri che continuano  a barcollare perché il Mega Direttore ha sempre  poco spazio tra la sua sedia ed il ripiano del tavolo.
Il degustatore assapora le ultime gocce da uno dei bicchieri che ha il fondo ancora un po’ tinto di rosso e rapidamente, omettendo per comodità i commiati di rito, guardati con curioso stupore da tutti, usciamo dal padiglione prima del tempo.
La stanchezza, ora, è ai limiti storici. Solo per riposare un po’ e per stare qualche minuto seduti senza l’assillo di dover per forza esprimere pareri sulle caratteristiche organolettiche del vino, riteniamo opportuno proseguire il servizio giornalistico in un’enoteca megagalattica, assai vicina, per poter bere in piena libertà due bicchieri a testa di “grandi bianchi” del Trentino. Non troviamo posto a sedere. Il degustatore, innervosito, battibecca con due corposi tedeschi che gli negano la possibilità di usufruire di alcune sedie vuote. La scena si scalda quando uno dei due energumeni,
non lucidissimo,  blatera frasi sconnesse iniziando a ridere in modo sguaiato. Il degustatore, forse obnubilato dalla fumose fragranze dei vini di Borgogna, intenderebbe risolvere la questione in modo fisico e si volge verso di noi per chiedere sostegno. Ma ancora una volta ottiene in cambio un’ unanime diserzione, per cui si congeda controvoglia dal tedesco, non prima di avergli rivolto alcune per lui  indecifrabili  ma coloritissime espressioni di disgusto in dialetto rosetano.
Per completare il servizio giornalistico dobbiamo visitare il padiglione di “Eataly”, vero paradiso per chi ama prodotti di nicchia e cibi di italiani di alta qualità.  Qui ognuno trova il modo di accontentare il suo palato, quantunque esigente. Il degustatore ufficiale  sciorina la sua fantasia e riempie il carrello di prodotti di ogni tipo, senza guardare i prezzi.  In previsione di chissà quali futuri programmi  si accaparra quattro confezioni di zabaione torinese, di quelli corposi energici e vigorosi. Poi gianduiotti a volontà, piccoli, medi e grandi, torroni farciti, morbidi, duri e durissimi, caramelle allo zenzero, gelatine di ribes,  creme di nocciola e gianduia, similnutella, barattoli sette. Come in preda ad un raptus il degustatore accoglie nel capiente carrello tutto ciò che suscita il suo interesse senza freni inibitori. Proviamo a segnalargli che il totale in Euro degli articoli acquistati potrebbe superare i 300 Euro. Colpito ma non dissuaso totalmente dall’avvertimento toglie dal carrello una bustina di patatine al mais ma poi riprende  imperterrito la caccia al prodotto tipico, incamerando, nell’ordine, 8 chili di pasta De Cecco, in vendita anche presso il super market sotto casa, 2 chili di pasta al Kamut, un’improbabile salsa di  Chili Chipotle rosso Jalapeno venduta a 64 euro al chilo, due birre al cioccolato, cipolle sott’olio, cinque litri di vino Montepulciano abruzzese di Masciarelli.  Paga alla cassa con la carta di credito 425 euro. La commessa chiede se vogliamo la busta.  
Torniamo in albergo per trascorrere la notte, stanchi ed esausti.
Il giusto sonno ristoratore è tuttavia disturbato a causa di alcune comprensibili dimenticanze che il degustatore, preso dalla frenesia del lavoro, non ha potuto evitare. Così, in piena notte, alle 4,30 suona la sveglia del suo telefonino, non disattivata il giorno precedente. Ma non è tutto. Egli reca con sé anche un secondo cellulare, perché “non si sa mai”. E’ quello che usa correntemente e che ha
la sveglia programmata alle 6,30, per andare ogni mattina al lavoro. Squilla anche quella, all’orario previsto, ma con una suoneria più energica e decisa.
Inutile insistere. Temiamo che possa attivarsi anche la sveglia delle otto, quella della domenica. Perciò decidiamo di alzarci e di ripartire. In fondo quello che conta è avere raccolto  materiale per il servizio.
 Non siamo mica andati a divertirci.


martedì 12 ottobre 2010

1557: IL SACCO DI GIULIA

       Fu celebrata a Teramo, per la prima volta, nel marzo dell’anno 1559 una festa cittadina che aveva lo scopo di ricordare in modo solenne la fine delle uccisioni violente che seguivano agli scontri  tra fazioni e quartieri della città.
La “Festa della Pace” istituita quel giorno sarebbe stata ripetuta in seguito, ogni domenica, per ancora due secoli.
Fautori e creatori della cerimonia, su invito del Viceré, furono il Governatore della Città, Cristobal Santo Stefano e il Governatore della Provincia, Ferdinando Figueron, presenti il popolo tutto e alte autorità, tra le quali il Vescovo Giacomo Silverio Piccolomini.
In occasione della ricorrenza due uomini e due donne, eletti dall’Università e denominati rispettivamente “Pacieri” e “Paciere” si adoperavano visitando personalmente le abitazioni delle famiglie in discordia tra loro, per cercare di riappacificarle prospettando possibili soluzioni ai motivi della lite che era insorta.

Questo bisogno di intervenire, oltre che legato a motivazioni di carattere etico, era anche determinato da esigenze connesse alla vita di tutti i giorni, spesso funestata da omicidi che avvenivano per strada, talora per futili motivi, e comunque sempre per cause di contrasti insorti tra famiglie della città entrate in conflitto per qualche ragione.
Col passare del tempo s’era sentita la necessità di intervenire, magnificando e benedicendo il giorno in cui finalmente era stato posto il termine ai lutti e alle uccisioni che angustiavano la città.
D’altro canto solo qualche anno prima era ripresa, in tutto il territorio italiano, la lunga guerra tra Francesi e Spagnoli, i primi sostenuti da papa Paolo IV Carafa, i secondi dal Viceré Don Ferdinando Alvarez di Toledo che presiedeva, nel periodo, il Ducato di Alba.
Era, insomma, un periodo di grandi contrasti e di guerre fratricide da cui molti paesi del teramano finivano per essere direttamente o indirettamente interessati.

S. Egidio, Torano, S. Omero e Controguerra subirono il sacco da parte di truppe pontificie guidate da Antonio Carafa, nipote del Pontefice.
Solo qualche tempo dopo, nelle campagne dell’agro giuliese, la Vergine appariva a Bertolino, quasi a testimoniare il bisogno di pace che era nell’animo di molti.
Era il mese di aprile del 1557.
Nello stesso anno, però, altri lutti si sarebbero abbattuti sulla città, dopo l’occupazione di Teramo da parte delle milizie francesi.
Il procedere della guerra tra questi ultimi e gli Spagnoli generava repentini cambi di scenario: a Giulianova era ancora viva l’impressione che l’apparizione della Vergine a Bertolino, quando alla periferia del paese si scatenò il putiferio.
Truppe francesi e spagnole si scontrarono con violenza.
Alla guida delle prime era il capitano Sipiero, gli Spagnoli seguivano con impeto e manie devastatrici che il toro comandante Garzya di Toledo cercava invano di smorzare.
A nulla valse l’intermediazione dell’ufficiale che tentò più volte di dissuadere i suoi uomini: in preda a raptus distruttivo questi ultimi entrarono in massa entro le mura cittadine e iniziarono la loro opera devastatrice attaccando all’impazzata e saccheggiando ogni luogo.
Era il maggio del 1557, meno di un mese prima Bertolino aveva avuto la sua meravigliosa visione nelle campagne giuliesi.

Ma Giulianova avrebbe subito ancora devastazioni e stavolta proprio nelle zone periferiche, nel periodo della mietitura.
Erano ascolani uniti ad ancaranesi gli uomini che componevano lo scellerato manipolo colpevole di aver seminato sangue tra i contadini intenti alla lavorazione dei campi. Il paese di Ancarano era stato saccheggiato solo qualche mese prima e tredici suoi abitanti erano stati impiccati in pubblica piazza.
I superstiti di quell’eccidio s’erano poi uniti agli ascolani e avevano invaso l’agro giuliese.
Quel che si racconta a proposito del saccheggio è a dir poco sconcertante: piombati improvvisamente addosso ai contadini che stavano mietendo gli assalitori uccidevano senza scrupoli, e senza pietà alcuna, chiunque fosse capitato loro a tiro.
Ad alcuni che prendevano prigionieri tagliavano con un fendente le mani, deridendoli nel compiere il gesto che non avrebbe più permesso loro di “triturare i grani nelle campagne”.
Portavano via i cavalli, e rubavano di tutto all’interno dei casolari, cibo e attrezzi, e quello che non riuscivano a portare via davano alle fiamme.

Dopo l’orrendo massacro sulla terra giacevano accanto ai covoni di grano arti mutilati e cadaveri di innocenti in un macabro scenario di polvere e di sangue.
Si comprende bene come la “Festa della Pace” celebrata a Teramo qualche anno dopo, potesse assumere i connotati di una vera e propria cerimonia liberatrice e propiziatoria di tempi migliori, non funestati da guerre fratricide o da contrasti tra popoli e famiglie.

Atti di disumana violenza che si ritrovano in alcuni episodi di cronaca recente, nell’intolleranza di gruppi e di facinorosi, nella barbara incoscienza di menti allucinate che concepiscono ancora oggi idee e progetti bellicosi.


PERSONAGGI DI ALTRI TEMPI

LA MENTE ECLETTICA DI GUSTAVO SILVINO
 
 
Mentre guardo le sue ditta saltellare, come agili ed esuberanti puledri, sui tasti del piccolo “ddu botte” e mentre ascolto rapito il coinvolgente ritmo di quelle note che si susseguono in un frenetico gioco di accordi e di assonanze, incrocio per un attimo lo sguardo magnetico di quest’uomo così particolare, direi a prima vista schivo, quasi distaccato. Il continuo e ripetuto cadenzare del piede sinistro sul pavimento e il movimento rotatorio del corpo che accompagna la musica, come per esserne parte integrante, tradiscono la sua intima fuga dalla realtà, quantunque temporanea, e il completo compiacimento all’estasi di quei suoni variopinti. Una specie di abbandono mistico. Così ho conosciuto Gustavo, ottantaquattro anni compiuti il 4 febbraio scorso mentre, la notte dell’ultimo capodanno, intratteneva noi astanti con il suo piccolo ma prezioso organetto (ne possiede quindici) rievocando canzoni popolari e tradizionali.

Mi colpì la sua straordinaria vitalità. L’energia positiva che emanava dalla sua persona si diffondeva nell’aria in maniera insolitamente contagiosa. Ebbi la sensazione, poi suffragata da successivi approfondimenti, che fosse un uomo eccezionale, capace di fare tante altre cose, che non fosse, insomma, solo un bravo musicista. Dovevo indagare.
Trascorso capodanno, una domenica di gennaio 2006, Gustavo Silvino mi accoglie, in compagnia di un amico comune, nel suo laboratorio poco fuori Teramo. E’ un luogo strano, ove si respira aria di altri tempi. Il locale è ampio, ma c’è poco spazio tra l’infinità di oggetti, macchine, aggeggi, arnesi, attrezzi di ogni genere e misura, scatole, lampade situate in posizioni strategiche perché illuminino in modo opportuno un tavolo di lavoro non grande, situato al centro. “Questo è il mio trono” esordisce Gustavo invitandomi a sedere al suo posto, per la durata dell’incontro, mentre lui si muove con estrema agilità nel ridottissimo spazio che resta. Poi apre un vecchio armadio di legno e mi mostra i suoi quindici organetti, ognuno diverso dall’altro, custoditi con religiosa cura all’interno, e mi spiega che ciascuno di essi è utilizzato a seconda della circostanza che viene a crearsi. C’è quello più sofisticato, per le serate importanti, quello andante per impartire lezioni, quello da collegare all’impianto stereo che lui ha arricchito creando un gioco di luci con dei fari di una vecchia auto riesumati per l’occasione, e così via. Mentre mi mostra alcune sue ingegnose creazioni (l’elegante scultura in legno di un carabiniere in divisa anni cinquanta, tre “picchi”, uccelletti di legno che salgono e scendono alternativamente beccando su un asse verticale di metallo — oggetto non utilissimo, ma bellissimo, frutto di pura fantasia — un gioco di prestigio con le carte che si avvale di una ingegnosa intelaiatura di ferro da lui inventata e costruita), con dovizia di particolari e con una punta di mesto rimpianto che traspare dagli occhi improvvisamente lucidi, inizia a raccontarmi della sua infanzia.

 Mi parla della scuola elementare di Putignano, del maestro Michelino Fioravanti, mai dimenticato, del disegno del motociclista con gli occhiali e con la pipa che gli valse un 9 agli esami di ammissione, del saluto romano che fece uscendo dall’aula, del primo premio che vinse alla gara federale, come fossero eventi di qualche mese fa, tanto sono vivi ancora nella sua mente e fissi nella memoria. Mentre parla, in perfetto italiano, con eleganza discorsiva e senza inflessioni dialettali, si schernisce ogni tanto perché ritiene eccessivo e non giustificato il mio interesse nei suoi confronti ed esagerato il mio proposito di pubblicare un servizio sul suo multiforme ingegno. Convinto del contrario capisco che c’è dell’altro, che la storia di Gustavo riserva continue sorprese e che scoprirò tante cose. Passano pochi minuti e intanto viene fuori che la sua straordinaria capacità di modellare, creare, modificare, inventare, riparare trae antica e primitiva origine dalla costante frequentazione dell’officina del padre fabbro, conduttore di macchine a vapore, e che pure il fratello, che in Venezuela costruiva canne di fucile, aveva acquisito analoga, ma non superiore, manualità. Ogni cosa incuriosiva il piccolo Gustavo, destando i vivaci folletti della sua fantasia.

 Riportava sulla carta, ignorando ancora le regole calligrafiche, le scritte che vedeva sulle insegne delle botteghe, e creava lettere tanto eleganti ed armoniose che il professore Daniele Saverio, calligrafo, non tardò a scoprire e ad evidenziare le sue straordinarie potenzialità. Ancora oggi, in occasione di importanti appuntamenti che prevedono la compilazione ed il rilascio di pergamene ad autorità o personalità in visita alla città, a Teramo, si ricorre alla preziosa opera di Gustavo per la stesura dei testi, in virtù delle sue ormai celebri capacità artistiche nell’arte grafica. Doti rimaste intatte nel tempo, come mi dimostra prendendo tra le dita due matite della stessa lunghezza e vergando su un foglio occasionale il mio nome ed il mio cognome che sembrano così usciti dalla rotativa di una macchina stampatrice. I caratteri sono elaborati, di dimensioni identiche, presentano eleganti ghirigori, sono perfettamente allineati alla base del foglio, sembrano dipinti lentamente ed accuratamente con un paziente e lungo lavoro certosino, tipico dei miniaturisti medioevali, e invece tutto è frutto di un rapidissimo tocco di mano, in piedi, con il foglio nella mano sinistra appoggiato ad una panca e le matite nella mano destra. Davvero strabiliante, penso, infilando il souvenir nella tasca della giacca a futuro ricordo. Così, tra le righe, mi dice che a scuola disegnava il volto del duce con soli quattro tratti di penna e che i compagni di classe provavano invidia nei suoi confronti. “Si è vero, in disegno ed in calligrafia non avevo rivali ma compenso - precisa quasi a scusarsi - in chimica non andavo bene!”

Mentre mi mostra le modifiche che ha apportato ad un’apparecchiatura agricola che serve per separare le olive dalle foglie e dei rami, e mentre mi spiega che spesso i motori utilizzati per la costruzione di attrezzi simili li recupera da vecchie lavatrici o da macchine dello stesso tipo, vola col ricordo al periodo in cui frequentava a Firenze la scuola d’arte “Porta Romana”. Aveva quindici anni ed eccelleva negli studi.
Dopo la caduta del fascismo il giovane Gustavo era disoccupato. Ma con una punta di malcelato orgoglio mi racconta di quando e come riuscì a trovare un’occupazione definitiva, che avrebbe svolto dal 1 aprile 1944 al 10 settembre 1984, assentandosi dal lavoro solo tre giorni in quaranta anni, per un abbassamento di voce.

Fu il Preside dell’Istituto Tecnico Comi, Giuseppe Zozza, che volle rendere tributo a questo giovane che, con la sua attività artistica, aveva dato lustro alla scuola negli anni precedenti. Lo convocò con una lettera, gli fece dattiloscrivere, a mo’ di esame, un foglio di nomina che altro non era se non la sua stessa assunzione ufficiale all’incarico di segretario, in sostituzione di tale Antonio Candelori, richiamato alla armi. Fu la svolta della sua vita. Quel lavoro Gustavo avrebbe svolto con estrema serietà e competenza per quattro decenni.

Comprendo che quest’uomo poliedrico potrebbe raccontarmi migliaia di episodi e affascinarmi sempre più con le sue doti di narratore e di affabulatore. Faccio fatica a ricondurlo allo scopo della mia intervista che è quello di aprire uno spaccato sulla sua molteplice attività di artista, artigiano, musicista, poeta, grafologo, disegnatore, pittore, scultore, inventore, abile riparatore. Mi cita ancora tale professoressa Lupi di Campli, che lo ebbe allievo al Liceo Musicale “Braga” di Teramo e un professor Di Sabatino che era insegnante di tromba. Nella sua mente riemergono immagini del passato che la sua fervida memoria rimodella in piccoli quadretti. Mi guardo ancora intorno nel composto ed irreale disordine del laboratorio ove ogni cosa, per quanto appaia posizionata a caso, non potrebbe trovarsi in luogo che le sia più adatto. E in quel disciplinato marasma Gustavo si muove con elegante agilità, con la delicatezza di un ragno sulla tela, trovando facili passaggi in spazi strettissimi. Mentre sfiora con la spalla un fragilissimo contenitore di vetro, senza urtarlo minimamente, mi porge tra le mani un mirabile monocolo completo di treppiede, opera sua, in legno e metallo, e poi mi indica con il dito un quadro appeso al muro che avevo scambiato per una foto. E’ un suo disegno a matita di un vecchio cane scomparso in passato, cui lo legava incommensurabile affetto. Ogni piccolo aggeggio, in quel locale, ha una sua storia, una vita che lo lega indissolubilmente al suo artefice.

Uomo schivo, mente eclettica, personaggio d’altri tempi, Gustavo vive nel suo microcosmo senza eludere gli altri, tuttavia con un’autonomia che lo rende completamente libero ed affrancato, come ogni artista, da costrizioni o scelte obbligate. Percorre la sua strada, che iniziò a tracciare a mani nude quando suonava la fisarmonica traendone due lire e mezza di compenso, con coerenza e modestia, consapevole delle proprie qualità, ma sempre pronto a metterle al servizio degli altri.
Con un po’ di mestizia esco dal laboratorio, ma mille altre cose avrei voluto vedere, mille altre domande gli avrei voluto rivolgere. Mi accompagna sull’uscio e mi invita a tornare. So che ho potuto conoscere solo una piccola parte del suo mondo così particolare ed insolito del quale mi ha mostrato, a tratti, alcune peculiarità. Ma mi resta dentro la consapevolezza di aver conosciuto un uomo diverso, capace di spaziare con la mente e con la fantasia in diversi campi dell’arte in piena autonomia intellettuale, una sorta di Michelangelo dei nostri tempi, artigiano di antica e rara manualità, difficile da incontrare nella fredda e raziocinante società moderna, culla della mostruosa tecnologia imperante.
 

Gustavo, purtroppo oggi scomparso, non volle, all’epoca,  per suo espresso desiderio, rileggere questo articolo prima della pubblicazione, fidandosi completamente di ciò che avrei scritto. Mi auguro di avere in qualche modo rappresentato i caratteri essenziali della sua versatile e polimorfa figura, rendendo fruibile, almeno in parte, al lettore, il senso di grande meraviglia e stupefazione che l’incontro suscitò nel mio animo.

domenica 10 ottobre 2010

22 aprile 1993

L’ALTRA FESTA
(pubblicato sull’Annuario “Madonna dello Splendore”  n. 12 del 22 aprile 1993
 
Sembrano due piccoli monelli, a Napoli direbbero “scugnizzi”.

S’aggirano con atteggiamento facinoroso tra la folla, ma non hanno in animo di combinare marachelle, né di far del male. Sono soli.
Me ne accorgo quando colgo sotto l’apparente serenità dei loro volti, un’ombra di malinconia, o forse un’angoscia latente che getta un velo di amarezza su ogni loro gesto, sulla presunta gioia che dovrebbero trarre da un gioco, da un innocente divertimento.
S’accostano agli stands, ai capannoni, ma restano sempre indietro, un passo più indietro degli altri.
Quasi come se di quella bella torta fossero riservate a loro solo le briciole, per voler del destino, della sorte inappellabile che li ha voluti, in certo senso, emarginati.

Ho visto in che modo guardano gli altri. Non c’è invidia in quegli sguardi che osservano attenti le cure di un padre al suo piccolo, l’attenzione che pone nel sistemano sul seggiolino della giostra volante, le cure nel tirargli su il bavero, ché se pure è primavera, c’è ancora aria di febbraio.
Non guardano con invidia. Cercano forse un’attenuante alla loro solitudine nell’imperscrutabile succedersi degli eventi, nell’ormai inalterabile stato delle cose, e lo accettano dignitosamente, senza subirlo.
Non colgono la veste esteriore della Festa, ne evidenziano l’intima essenza di fraternità e di pace.
Il povero vecchio, curvo e canuto, vestito di poche misere cose, s’aggira tra la folla all’imbrunire.
Attende il concerto della Banda in piazza Belvedere.

Il suo incedere è lento, quasi ritmato, tipico di chi procede senza meta.
Lo sguardo vaga incerto, poi si sofferma a fissare un palloncino colorato che si perde nel cielo.
Ma la mente è certo altrove. Insegue immagini d’altri tempi e di altre età, volti giovanili che la memoria riporta immacolati, non deturpati dai graffi del tempo e dal trascorrere degli anni.
A quel carosello di ricordi il vecchio s’abbandona, estraniandosi dal frenetico formicolio della folla, e saluta antichi amori, poggiando il bastone senza apparente logicità, ora da una parte ora dall’altra, e tira calci con rabbia a un barattolo di Coca che rotola giù tra i piedi dei passanti e che finisce poi chissà dove. “Chissà dove è finita ma non ricorda il nome, sa solo che vestiva di rosso e che insieme ballavano in piazza, alla festa d’aprile, quando suonavano le fisarmoniche.

E’ tutto diverso. Di immutato c’è solo il senso mistico della Festa, la sua sacralità.
Cammina spedito, come se vedesse. Lo guida un pastore tédesco.
Gli occhiali scuri del padrone, la croce rossa sul dorso del cane non lasciano dubbi.
Non vede.
Seguo questa nuova immagine ed abbandono il vecchio di prima. Non vede, ma sorride, come se luci, colori, musiche della Festa gli appartenessero e come se potesse coglierne appieno ogni sfumatura visiva.
La folla lo guarda, lo addita. Da quel volto traspare solo serenità. Non un velo di mestizia, nessun rancore.
Avverte la magica atmosfera del momento dal profumo che riempie l’aria, dal vociare continuo e indistinto nel quale individua il pianto di un bimbo, riconosce le risa di un gruppo di amici, una voce nota.
Sosta davanti ad uno stand e ascolta.
Costruisce nella mente un’immagine, un volto, una situazione. Poi lo vedo immobile davanti alla Banda che suona.
Il cane s’accuccia, il cieco segue le note dei meandri ultratemporali della sua mente, finalmente affrancato dalla fisicità delle cose.
Ora spazia libero, senza costrizioni.
Il tramonto avvolge nelle spire dei suoi colori ogni angolo della città. La Festa continua. Acquista, anzi, a quest’ora un aspetto più sacrale e suggestivo. Forse per via delle luminarie che conferiscono ad ogni via un senso mistico, quasi irreale.
Piccole, grandi storie vivono ai margini della Festa.
E’ grande il dramma di un bimbo che perde tra la folla il suo peluche.
Il senso della religiosità non si coglie nei particolari legati al succedersi dei piccoli eventi.
E’ nell’aria. Forse nell’animo di ciascuno. E’ nel volto malinconico e triste di due bambini soli, nei nostalgici rimpianti di un povero vecchio canuto, nella impenetrabile solitudine di un cieco che ascolta con incantevole serenità una musica lenta che si perde nell’aria quando scendono, sulla Festa, le ombre della sera.

giovedì 7 ottobre 2010

AFRICA

Demis Di Diodoro, ingegnere di 28 anni, nato a Giulianova, vive e lavora a Faenza. Lo scorso mese di agosto è stato in Tanzania come volontario dell’AMI. Questa la testimonianza della sua esperienza:

Numba Yetu


Africa, Tanzania, Numba Yetu, che vuol dire Casa Nostra. E’ proprio questa la sensazione che dopo pochi giorni si prova, quella di sentirsi a casa. E’ assolutamente sconvolgente. Si arriva in Africa con il timore di immergersi in una realtà nuova, straniera troppo lontana difficile da afferrare, e dopo poche ore da quando si atterra ci si accorge che il cuore si sente vicino come mai a tutto quello che l’occhio cattura attorno a sé.
Arriviamo a Dar Es Saalam, attraversiamo la città per dirigerci verso la missione Numba Yetu nel villaggio di Ismani, a 8 ore di jeep.  Povertà fatta di volti e colori nuovi, venditori ambulanti che sulla strada tentano la fortuna allungando la loro merce attraverso i finestrini di auto e pulmini spesso carichi di missionari o curiosi. Canna da zucchero, pomodori, patate, merce povera proposta come oro, e subito ci si accorge che in quel posto lo è a tutti gli effetti.  Città di case fatiscenti, negozi improbabili, prostitute, commercio ambulante e sguardi, sguardi nuovi, di occhi che cercano, reclamano, raccontano una realtà che non ci appartiene, esigenze che non comprendiamo. Dopo qualche giorno trascorso in Africa diventa chiaro, le esigenze sono mangiare, bere dormire. La gente vive la giornata cercando di soddisfarle ed è fortunato chi ci riesce. Dopo le 8 ore di jeep, la maggior parte delle quali percorse su quella che viene chiamata la “grattugia africana” di polvere e buche, arriviamo di notte nel villaggio di Ismani.
La prima cosa che colpisce è il buio pesto, come mai visto prima, dal quale arrivano i riflessi di fiaccole che illuminano le tante capanne di fango disperse in modo del tutto casuale. Dopo il primo giorno trascorso nel villaggio è evidente che la povertà vista in città era una forma di ricchezza : lì molti hanno qualcosa da commerciare, del bestiame, un’opportunità. Nel villaggio subito tanti bambini che appena ti vedono ti corrono incontro a braccia aperte, con abiti luridi, strappati, scalzi, piedi rotti dalla terra, sporchi, e l’immancabile candela al naso. Come ci è stato detto ci inginocchiamo quando ci avviciniamo a loro perché il loro saluto è quello di metterci le manine sulla testa e dire ‘Shikamoo’, noi rispondiamo ‘marhaba’. Il cuore si stringe. E’ un gesto che racconta la loro umiltà nei nostri confronti, la percepiamo in tanti altri episodi da parte di questo popolo ed è fuori luogo, imbarazzante e dolorosa.

In Numba Yetu ci sono circa 40 bambini dai 2 ai 10 anni, la maggior parte dei quali malati di HIV e orfani, facciamo la loro conoscenza e quello che travolge è il loro desiderio di affetto, ti saltano in braccio e non vogliono più scendere, ti prendono per mano e non la mollano, ti guardano fisso negli occhi e raccontano di loro, con ingenua curiosità bambina si chiedono di noi e colgono la nostra commozione. Impariamo a giocare con loro, ci divertiamo, ridiamo con loro come matti per un palloncino che scoppia mentre si gonfia, per un aeroplanino di carta che non vola, per un aquilone che viene rotto dal forte vento africano e in breve tempo non possiamo fare a meno di prenderceli in braccio tutti insieme, delle volte anche 4, 5 alla volta.

La mattina sveglia presto per lavorare duro, scartavetrare pali per poi dare l’antiruggine, svuotare e riempire container di scarpe e vestiti, turni in cucina, sempre la voglia di fare, canti e risate, la polvere e la ruggine nel naso, l’odore di muffa, le scarpe dei bambini da sistemare, mai la voglia di guardare il telefono e il computer. La serenità di assaporare un’esperienza unica attimo per attimo ci lega in mondo indissolubile, tra molti di noi si crea presto un rapporto fuori dalla abituale realtà, emozionante.
 
Un giorno ci uniamo a due ragazzi di Roma che passano per Ismani. Uno di loro, Gianluca, è clown terapeuta, andiamo con loro in giro per il villaggio per far giocare i bimbi.
Loro ci vedono da lontano, escono dalle capanne e ci corrono incontro gridando ‘pipi, pipi’ per chiedere una caramella. Poi li facciamo mettere in cerchio e Gianluca li riempie di giochi con palline e palloncini facendoli impazzire dalle risate. I loro volti, alcuni segnati da qualche malattia, sono riempiti da un sorriso che racconta un pezzetto di infinito.Esperienza unica quando assieme a Sheela, missionaria indiana dell’AMI con carisma più unico che raro, siamo andati ad un matrimonio di una donna di un villaggio vicino Ismani. In Africa l’ospite è trattato con estrema ospitalità, ma un ospite bianco è un onore, un motivo di vanto, perché egli rappresenta benessere, potenza, istruzione, cultura, denaro. Così dopo la messa di circa 3 ore tra suggestivi canti,  tamburi e danze, ci troviamo seduti nel gazebo assieme agli sposi ed ai parenti stretti. Tutti gli altri ospiti in piedi di fronte a noi. Siamo serviti per primi con aranciate e coca cola e siamo i primi ad accedere al banchetto nuziale, di riso fagioli e carne, tutto da mangiare con le mani. Ci sentiamo a disagio perché siamo i primi a mangiare e forse non ce ne sarà per tutti, ma non possiamo disonorare la loro ospitalità porgendo il nostro cibo ai bimbi che ci guardano. Mi permetto di dire alla sposa che è tutto molto buono ma subito Sheela mi fa notare che l’apprezzamento risulta per loro  offensivo, in quanto tutto ciò che viene offerto agli ospiti è per certo il meglio che c’è, ed è sicuro buono non c’è bisogno di rimarcarlo. Capisco che ci sono delle differenze di mentalità anche difficilmente intuibili quindi mi trattengo dal fare ulteriori commenti.

Una mattina Sheela ci permette di accompagnarla in uno dei suoi giri nei villaggi limitrofi, andiamo a trovare una signora in una capanna per prendere il certificato di morte della figlia. La donna sembra anziana ma la sua età è indefinibile, ci accoglie subito nella sua capanna e ci fa accomodare su sgabelli di legno. Uno spazio minuscolo, qualche utensile per la cucina e per rammendare appoggiato a terra, una tenda separa la stanza da letto composta da una brandina appoggiata a terra e niente più. Mi colpisce l’assenza di un calendario, di un orologio, di una qualche indicazione temporale. Imparo dopo che tutti vivono senza sapere che giorno è, che anno è, e molti, tra cui la donna nella capanna, non si preoccupano nemmeno di tenere a mente quanti anni hanno.
Il concetto del tempo, lontano anni luce dal nostro, mi sconvolge totalmente. Noi siamo schiavi del tempo, lo contiamo, siamo inseguiti dal tempo, ne siamo succubi e ne abbiamo grande paura. In Africa nessuno lo conta, e come scrive il giornalista Ryszard nel suo romanzo Ebano, il tempo non esiste se non quando un’azione avviene, si concretizza nel momento in cui l’azione prende luogo. Non ha senso chiedere quando parte l’autobus, parte quando è pieno.

Nel confronto che facciamo con i ragazzi dai 14 ai 18 anni della scuola secondaria di Ismani le loro domande ci colgono impreparati, ci chiedono del mondo in cui viviamo di quello che abbiamo in Europa, del perché da loro l’HIV è diffuso al 60% nei villaggi, del come possono fare per uscirne, per diventare anche loro ingegneri o fisici. Come fare a dire loro che da noi la maggior parte della gente con uno stipendio fisso e un tenore di vita più che ragguardevole, vive cercando di accumulare sempre più soldi e averi, e cercando carriera e potere? Che se non ha la macchina nuova non è nessuno, che argomenti di discussione sono se regalare al figlio l’Ipod o la psp? Come fare? Con le loro domande alla fine mi portano a dire tutto questo, ma il mio modo di raccontarlo e le conclusioni a cui arrivo li fanno sorridere, perché percepiscono la cosa come assurda.
La conclusione  che raccontavo loro è che molta gente arriva a 60, 70 anni stanca, senza aver apprezzato la vita davvero, avendo calpestato i rapporti con la falsità, avendo schivato le domande del cuore, schiava del tempo: arriva a volte ad ottenere quello che voleva ma è infelice e sola.  Cerco di convincerli di quanto in molte cose loro siano mille volte più ricchi di molti di noi. In Africa ciò che conta di più è l’unione, il gruppo, la famiglia, chi è solo è un dannato..come potrebbero apprezzare la nostra società individualista? Ma la domanda da farsi forse è : dovrebbero?

Già soltanto dopo circa un mese, ripartire dall’Africa, da Numba Yetu è stata dura. Le emozioni sono state molte e tutte si sono stampate dentro. I volti della gente, gli sguardi dei bambini, i tramonti e le stellate, i vestiti logori e sporchi, l’odore penetrante della povertà e della semplicità, ma sono forse anche le assenze che hanno colpito molto, quelle di falsità, di arrivismo e individualismo.

Il rientro in Italia è anche la bellezza di portarsi nel cuore un pezzetto di Africa, una volta colpiti da un posto è dura far finta che non sia avvenuto e forse è dura non pensare di tornarci.
 

martedì 5 ottobre 2010

IO CHECCO E PUTTI
(Brano tratto dal romanzo autobiografico “Abitavamo in via Quarnaro” di prossima pubblicazione)



Giovedì, 19 luglio dell’anno 1951 io entrai in contatto con il mondo dei vivi. 

Avvenne tutto in casa, come usava allora. In una casa di via Thaon de Revel , a poco più di venti metri dal mare. Proprio nel punto che corrisponde alla stanza in cui io vidi la luce, giungono nitidi, da sempre, trasportati dalla brezza, il sentore della salsedine ed il profumo delle gomene abbandonate sulla sabbia.  Forse per questo, o forse anche per questo, da sempre nel mio animo palpitano sensazioni di emotività e di appassionato attaccamento al mare ed alle sue creature, all’acqua in genere, agli spazi immensi ed infiniti, alle distese senza limiti .

Nacqui a Giulianova, ridente località costiera, soggiorno estivo balneare già famoso nel primo novecento, luogo di salubrità e di benessere, meta di villeggianti e di colonie marine, perla d’Abruzzo per l’amenità del suo clima e per il chiarore limpido delle sue notti estive, per la meravigliosa sinfonia che emana dai pescherecci attraccati nel porto.
Al porto andavamo spesso io Checco e Putti.

Checco e Putti (si chiamava e si chiama Angelo, ma lo chiamavamo per cognome) sono le prime due persone alle quali la mia mente fa riferimento tornando a ritroso nel tempo, fino ai banchi di legno della prima elementare, frequentata insieme in via Quarnaro, a Giulianova lido, non lontano dal mare e dal quotidiano profumo della salsedine. Checco e Putti sono le prime due persone che hanno rappresentato un parametro fisso dell’infanzia e dell’adolescenza, uno specchio, un termine di paragone, un complice rifugio. Due compagni di cordata nell’ascesa del monte, alla conquista della vetta.
Non so se e quanto ricorderanno.

Al porto andavamo, spesso con le bici e con le canne, a pescare le “bavose”, orrendo pesce di scoglio, non commestibile, che dopo pescato eruttava bava appiccicosa dalla bocca ancora per lungo tempo. Ne riempivamo spesso anche un intero  secchio, che poi vuotavamo in mare, alla fine della giornata,  con la sua schiuma bianca.
Eravamo studenti della Scuola Media V. Bindi, per la prima volta una classe mista.  Le ragazze indossavano grembiuli neri con i colletti bianchi, ma di fogge e di modelli diversi. Il profumo di quel pesce, sulle dita, restava fino a sera  e le scaglie biancastre si attaccavano ai polpastrelli.

A volte ci si organizzava per una breve scampagnata. Lo scopo era quello di estirpare dalla terra le radici della liquirizia, per poi succhiarne l’umore, fino a renderle poltiglia in bocca. Difficile individuare le piante, ma non per noi.
C’era una zona incolta, a nord del paese, oggi riempita di case e di villini, ma un tempo oasi di silenzio, di verde, di profumi e di colori…………………

lunedì 4 ottobre 2010

LA FEBBRE DEI POTENTI

Secondo un amico, dalla cui spicciola filosofia ho sempre tratto utili insegnamenti esistenziali, la forza, intesa come concentramento di energie fisiche, servirebbe solo per espletare l’atto fisiologico dell’evacuazione corporale, atto che accomuna uomini ed animali.
  Nei rapporti interpersonali l’uso della forza, fisica o psicologica,  diventa uno strumento di offesa che, per sua natura, trascende il meraviglioso limbo della “buona educazione”  per  tracimare nell’uso di un’arma impropria , ma facile da usare anche da parte degli inetti: la celeberrima “cazziata”. Ovunque esista gerarchia di gradi, di ruoli, di cariche, di posizioni, dalle officine ai Ministeri, la cazziata è presente nei suoi molteplici aspetti, tutti sommariamente riconducibili a tre tipologie di base, bene individuate e distinte:

-         cazziata istintiva: forse la più genuina, immediata, espressione incontrollata di istinti altrove repressi e che in tale circostanza, in grazia del grado ricoperto, prorompono nella loro corposità e violenza, investendo come un vento di bufera il soggetto ricevente. Di solito è collegata as un motivo reale e non fittizio che giustifica, nella sostanza e non nella forma,  colui che parla, il quale trae da questa “legittimità” del proprio intervento le motivazioni che lo mettono in pace con se stesso in merito ai metodi inurbani che sta usando.

-         cazziata di comodo: assai più frequente, basata sul principio del “capro espiatorio”. Consiste nel dare proditoriamente colpa immediata a chi è presente in quel momento attribuendogli azioni che non ha fatto o imputandogli errori che non ha commesso, trincerandosi dietro la possibilità di poter parlare senza essere interrotto;


-         cazziata di esibizione: caratteristico  esempio di megalomania tipica nel soggetto complessato. E’ peculiare in  chi vuole dare prova del proprio potere ad un terzo presente, a scapito di un incolpevole dipendente,  interlocutore occasionale in quel momento.

Delle tre  solo la prima appare afferente il principio della giustizia, ma, ahimè, non quello del corretto vivere civile e dell’educazione. Comunque tutte e tre sono abusi di potere e come tali esempi di mobbing.

In nessun rapporto sociale, ove non esista un sistema gerarchico riconosciuto e formalizzato, sarebbe tollerata tale forma di aggressione  verbale. Essa genererebbe contestazioni legali, citazioni, querele. E’ quindi il sistema gerarchico che legittima tale forma di violenza , brutalizzando la personalità e la dignità del soggetto ricevente. Quest’ultimo, poiché teme ritorsioni sul lavoro da parte di chi conta di più (in quel contesto), non reagisce, deve subire passivamente, imponendosi un silenzio che mette a dura prova le sue coronarie.

La cazziata è quindi  un mezzo vigliacco per esercitare l’abuso di potere.

Si diceva poi dell’educazione. Esistono leader di successo, dotati di grande carisma, tanto diversi da quei poveri complessati che urlano e sbraitano in modo scortese e selvaggio, che riescono ad ottenere grande rispetto rimanendo tuttavia decorosamente educati e senza  intaccare la dignità degli altri. Ma sono casi. E per lo più riferibili a manager di successo che gestiscono il potere con tanta intelligenza da riuscire a dominarlo, senza subirne i deleteri fumi inebrianti  che spingono a travalicare  i limiti della creanza e dell’urbanità.

La cazziata è direttamente proporzionale al crescere della febbre del potere, il cui virus non perdona. Hai voglia a dire che i risultati si ottengono solo così.. In realtà è possibile instaurare un rapporto di civile collaborazione che non preveda strilli, urla, male parole, improperi, prevaricazioni, bestemmie ( e se si offende la mia fede?)
Certo a non dar prova della propria potenza il prestigio di fronte agli occhi degli altri ci rimette.. Nessuno dei potenti vorrebbe rinunciarvi, non fosse altro che per una questione di immagine  pubblica.

Io ho sempre parlato ai miei figli senza mai aggredirli verbalmente. Ho ottenuto di più. Perché prima che padre mi hanno sempre considerato un amico.

La forza la uso in una sola stanza di casa, quando sono solo.
 Lì davvero, a volte, può servire.