Notte di incanto a Milna,
sotto il cielo nero
ed il lento ritmo della risacca.
La marina tace,
tra lo sciabordio delle onde
e il canto mesto di un gitano.
Grazie Mary Lo che accogli nel tuo ventre
di legno e resine pregiate
gli amici rapiti per un po' alla monotonia di sempre.
Tu sei l'approdo per i pensieri stanchi
per le frenetiche ansie quotidiane,
sei la libertà di un gabbiano in volo,
momento di felicità senza confini.
Grazie Mary Lo
perché sul mare mi porti con te
ai bagliori dell'alba
e quando di misteri oscuri
si veste questa magica notte di Milna.
Recensioni, racconti, notizie, aneddoti,commenti, cronache,critiche, favole...... a cura di Sergio di Diodoro - giornalista free lance -
martedì 6 ottobre 2015
venerdì 2 ottobre 2015
VACANZE BALNEARI A GIULIANOVA NEGLI
ANNI '50
Un filmato
dell'Istituto Luce, girato a Giulianova pochi anni prima dell'incipiente
miracolo economico post bellico, che interessò all'epoca la costa abruzzese,
come peraltro l'intera nazione, mette a
fuoco con particolare dovizia di particolari, alcuni aspetti che, guardati
nella loro potenzialità, servirono, all'inizio degli anni cinquanta, a favorire
negli addetti ai lavori, un progressivo studio di fattibilità, rivolto
essenzialmente a far emergere possibili sbocchi economici nel settore del
turismo balneare.
E’ intorno alla fine
degli anni cinquanta, infatti, che
località costiere, come Giulianova, Alba Adriatica e Roseto degli Abruzzi,
gettano le basi per costruire, a poco e poco, nel tempo, una solida
impalcatura, destinata a sorreggere la mole di un’industria balneare che, pur
con tutti i limiti e le difficoltà legate al particolare momento storico,
troverà piena espressione e solido sviluppo solo nel decennio successivo.
In particolare a
Giulianova inizia in quel tempo la metodica cura degli arenili, che vengono
liberati da tutto ciò che il mare ed il fiume hanno scaricato sulla battigia
durante i mesi invernali.
Questa operazione
comincia ad essere svolta con maggiore cura del passato e con estrema
diligenza, a riprova del fatto che si è intuita l’enorme potenzialità del
territorio, e la sua possibilità di crescita economica, una volta venuto meno
l’immobilismo del periodo bellico ed alla luce di una rinnovata fase di decollo
dell’industria balneare.
Giulianova comincia a dotarsi di grandi
alberghi, destinati ad accogliere i turisti, sempre più numerosi.
Contemporaneamente sorgono i primi stabilimenti balneari, alcuni dei quali
diventeranno, nel tempo, il simbolo stesso della città, vere e proprie icone
che manterranno il loro indiscusso carisma fino ai giorni nostri.
Naturalmente
all’inizio si registra tutt'altro che un turismo di massa, trattandosi di una
macchina che comincia a muoversi tra non poche difficoltà e bisognosa di rodare
i propri meccanismi.
D'altro canto, a
riprova della giusta lungimiranza manifestata dagli operatori turistici
dell'epoca, dal richiamato filmato prodotto solo pochi anni prima dall'Istituto
Luce e girato sulla spiaggia di Giulianova non emergono, contrariamente al
solito, espressioni di propaganda, ma ci si limita a mostrare i bagnanti
sull'arenile, i primi costumi alla marinara, i primi ombrelloni forniti dagli
stabilimenti balneari.
Non c'è il solito
tono enfatico, quasi a voler far emergere, a tutto tondo, in modo autonomo ed
asettico, il reale valore del territorio, le potenzialità legate alla
frequentazione degli arenili, alla limpidezza delle acque del mare, al clima
mite, al silenzio ed alla pace che vi regnano sovrani.
Il riferimento,
ovviamente è diretto ad una frequentazione di elite, atteso che per lungo tempo
ancora, fino agli anni sessanta ed oltre, l'utilizzo della spiaggia libera
rimarrà prerogativa dei più, ed il noleggio degli ombrelloni privilegio di
pochi. Tuttavia traspare da questa intensa attività di management turistico
messo in atto dagli operatori giuliesi dell'epoca, la ferma volontà di
incoraggiare, come riconosciuto business, la diffusione delle prime
villeggiature estive, all'incremento delle quali, peraltro, contribuiscono
anche molti elementi esterni. Basti pensare al progressivo aumento dei consumi
di una famiglia media, frutto delle
evoluzioni economiche legate alla ripresa post bellica, al correlato
sviluppo dell'industria automobilistica ed alla comparsa della Seicento,
simbolo del magico exploit della rinnovata società dei consumi.
I risultati di tale
frenetica attività promozionale non tardano ad arrivare. La Camera di Commercio
di Teramo registra un incremento percentuale estremamente significativo delle
unità ricettive destinate ad accogliere il turismo balneare. In provincia di
Teramo, infatti, si passa dai sette alberghi in attività nell'anno 1949 ai 18
del 1957, a riprova dell'estrema vitalità e del dinamismo che operano nel
substrato a fronte della nuova modalità di trascorrere il tempo libero espresso
da parte delle famiglie che, con tale nuovo atteggiamento, aprono nuovi scenari all'emancipazione
sociale ed al costume.
Le vacanze estive
sulla costa abruzzese, e nella città di Giulianova in particolare, che
rappresentano in qualche modo le prime incerte basi per il futuro decollo dell'industia
balneare, costituiscono alla fine degli anni cinquanta i primi passi di una
progressiva espansione turistica che, nel decennio successivo, si svilupperà in
modo completo ed affatto diverso, consentendo la fruizione di una villeggiatura
estiva che diventerà bene comune di tutti, e che non sarà più appannaggio del solo ceto
aristocratico o alto borghese.
mercoledì 1 luglio 2015
PIETRO FERRARI DA GIULIANOVA
Quel perentorio “Ai
posti di combattimento!” con cui si presentava in aula con i libri in mano
e spingendo la porta con un piede, il giorno in cui c’era compito in classe,
non era solo un invito alla massima concentrazione per l’impegno di quel
momento, ma era un monito universale, una sorta di precetto da osservare per
sempre durante la vita, una dura legge che nell’adolescenza si ignora
ancora. Quel simpatico incitamento era
un sistema inusuale, strambo e bizzarro per sollecitarci a guardare il futuro con
animo impavido, uno sprone ad armarci di forza e di coraggio per affrontare gli
ostacoli ed i casi della sorte.
Così Pietro Ferrari da Giulianova, come amava nominarsi, inculcava ad intere e successive generazioni
di studenti, sani principi esistenziali, sempre giocherellando con motti e
gesti tra il serio ed il faceto, tra citazioni e rime, forbiti richiami
classici e sontuose espressioni auliche. Una cultura infinita, sempre pronta ad
emergere dal suo aspetto austero ed umile al tempo stesso, imponente e carismatico, ma mai distaccato.
Tutto ciò che arrivava, in termini di insegnamento, giungeva
da una via diversa, insolita, affatto anomala. Imparavi a conoscere e ad
apprezzare un autore perché lui riusciva a farti ripercorrere a ritroso il
travagliato cammino che partiva dal tormento dell’ispirazione per culminare
poi nella genesi di un’opera, esaltando
la fase embrionale ed il conflitto
interiore che l’avevano generata. Forse perché Ferrari era lui stesso grande
poeta, scrittore e critico, uomo eccellente
che vibrava di ineffabili sensazioni dell’animo e di brividi di puro lirismo.
Pietro, Pierino come lo chiamavano gli amici del mare, della
sua sempre amata Giulianova, percorreva sentieri paralleli all’esistenza
terrena. Capivi che quell’aspetto fisico burbero e possente non apparteneva
alla comune realtà delle cose, al routinario procedere del tempo. La sua figura
massiccia era addolcita da una incomparabile sapienza, di cui non dava mostra
in modo indiscreto, ma che traspariva tuttavia
da ogni gesto e da ogni parola, come se tutto in lui sublimasse da un’ eburnea
base di conoscenza, non intaccabile da fuori.
Essere stato tra coloro che dai banchi del Liceo, durante i mitici
e favolosi anni sessanta, l’ascoltarono erudire, insegnare, o solo discorrere e
parlare, e poi declamare a memoria interi canti della Divina Commedia, non è
privilegio da poco. Coglievi nel suo
sguardo i fulminei raggi di un’indefinibile stravaganza, quasi come se volasse nell’etereo
spazio di una sua ascosa e impenetrabile dimensione alla quale sapevi che mai
avresti potuto accedere. Era un suo microcosmo, vago e indefinito, avvolto nella
coltre nebulosa di un continuo fastidio esistenziale, sempre altalenante tra “”amor vitae “” e “” cupio dissolvi”” come
bene avvertì il Santucci, che l’ebbe collega all’Università, recensendo alcune
sue “Esperienze liriche dell’inesistenza”
(“Il mio cuore sepolto, se lo sfiora un
richiamo di luce dalla vita, abbrividisce un attimo e rimuore”).
Tra i molteplici e mai negletti ricordi mi sovviene di un
mattino di novembre : la tenue luce di un pallido sole, il sapore appena aspro
dell’aria dell’autunno inoltrato, durante una gita scolastica. Con quel suo
fare sornione non smetteva di passare di continuo dal fare giocoso alla domanda
diretta, seria e cattedratica: mi chiese senza pudore ed ex abrupto l’aoristo passivo di “Orao”, comparendomi
davanti all’improvviso mentre m’ero coraggiosamente appartato con un amoretto
liceale in un angolino del ristorante, complice l’atmosfera di diversità che si
respirava così lontano dall’aula….
Eppure non mi parve inopportuna quell’intrusione. Faceva
parte del gioco d’insieme, del mirabile clima di goliardica complicità che
aveva instaurato con noi tutti e che lo rendevano un insegnante davvero “diverso”.
Anche per questi episodi così peculiari ed atipici Pietro Ferrari
non può essere descritto né definito senza onerosi stenti e senza che, vergando
il foglio, la penna esiti e indugi, perché il ricordo rende lucidi gli occhi e
genera un nostalgico groppo in gola.
Nelle pause e nei non molti momenti
confidenziali raccontava di sé, delle sue numerose sentimentali avventure
trascorse e dei suoi tormenti adolescenziali, sempre velando ogni frase ed ogni
espressione sotto un sottile strato di inquietudine e di mai sopita mestizia.
Quasi come se il tempo, così velocemente fuggendo (“Ruit
hora, fugit irreparabile tempus” sempre sentenziava) l’avesse privato di
qualcosa che si sarebbe aspettato come giusto seguito, trasferendolo da una primitiva
e inconsapevole dimensione di luce ad un consapevole spazio di tenebra
incombente (“”Come divenni, io infinito,
un uomo?””) .
Scrittore e poeta dall’animo sensibilissimo, usava il suo
cantare per difendersi dall’imperversare degli eventi, cui soggiaceva in modo
non inerte, affidandosi ad un fortissimo
sentire. Così raccontò una volta che travolto al largo dai marosi durante
un’uscita con la barca in mare, sul punto di cedere alla violenza dei flutti,
con tutto lo spirito guerriero che gli era dentro s’oppose indomito alla furia
degli elementi e dichiarò a se stesso che mai nella vita avrebbe ceduto alla
paura, e che sempre avrebbe preferito “” vivere
fortissimamente, oppure morire”.
Subiva il travaglio culturale in modo intenso e sofferto,
eppure da esso traeva linfa vitale, illuminazioni e valori di ricchezza morale
che con assoluta semplicità riusciva a trasferire ai suoi adepti, perché tali
per lui noi eravamo e non solo studenti di Liceo.
Durante le mirabili citazioni e declamazioni dei brani,
sempre recitati a memoria, sapientemente modulava l’accento tonico con volute
esagerazioni, esaltando il senso ed il significato del testo e solennizzando ogni singolo termine ed ogni parola fino a
sublimarne magicamente l’essenza.
Guardandolo con continuo interesse dal mio banco in prima
fila durante le lezioni, e cercando continuamente di cogliere in ogni suo gesto o in ogni
espressione del suo viso qualche particolare che potesse aiutarmi a decifrarne
la complessissima indole, sempre
immaginai che grande uniformità di sentire dovette covare in sé con lo “spirto guerriero” del Carducci, o con
l’animo nobile e ribelle di quel Farinata degli Uberti, di cui spesso
all’occorrenza in aula richiamava le doti di grande fierezza, mimando, dopo
essersi alzato in piedi sulla pedana della cattedra e gonfiato il torace in
modo buffo e curioso, il fatidico momento dell’incontro con Dante. “”Io avea il mio viso nel suo fitto, ed el
s’ergea col petto e con la fronte come avesse l’Inferno in gran dispitto……”
urlava con la possente voce che
rintronava simile al fragore del tuono per tutti i corridoi del Liceo e che
per il seguito dei nostri giorni noi avremmo
tante volte riudito rimbombare in testa come un monito ad affrontare la vita
con ferma determinazione ripudiando per principio ogni vile sottomissione.
Ferrari era maestro, guida e precettore. Il suo insegnamento travalicava gli schemi e
gli stereotipi del tradizionale sistema di erudizione e spaziava nel campo
esistenziale, sicchè tutto ciò che da lui si apprendeva avrebbe avuto, in
futuro, possibile ed utile applicazione nella quotidianità, fornendo preziosi
lumi per cercare di rendere intelligibile il “mistero della vita”. E proprio quel
grande mistero lo occupava, senza sosta e senza tregua, in ogni istante della
sua esistenza, ponendogli non pochi affanni, fino all’ultimo giorno (“”che io non ti abbia atteso invano”” si
legge sulla lapide del suo sepolcro nell’autonecrologio con riferimento
all’Essere Supremo del quale sempre avvertì con travaglio interiore, ma con
ferma convinzione, la reale esistenza).
Aveva mani tozze e rudi, callose e nodose, come quelle di un
vero marinaio. E davanti al mare, quando nei giorni di burrasca amava
rifugiarsi nel suo caro Trabocco sul porto, veniva fuori quel mirabile
contrasto tra il suo aspetto fisico forte e possente e la sensibilità del suo
animo capace di recepire i minimi sussulti del cuore.
Quando personaggi di tale ricchezza interiore entrano in
contatto con gli altri lasciano il segno. Noi sessantottini, liceali,
desiderosi di cambiare il mondo, travolti dagli eventi e dalle ideologie di
quegli anni difficili, avevamo tanto bisogno di essere guidati e portati per
mano per essere avviati sulla giusta strada.
Pietro Ferrari è stato il nostro grande maestro di vita.
Noi non lo dimenticheremo mai.
martedì 31 marzo 2015
AL TRAMONTO
Io non so per quanto tempo ancora
ci sarà concesso di camminare a fianco
lungo questo sentiero impervio
che trae verso l’ignoto.
Avverrà che uno di noi due, un giorno,
nell’andare, diventi, suo malgrado,
di doloroso impaccio all’altro,
e che poi si arresti.
E l’altro dovrà da solo, nondimeno,
riprendere il cammino.
Io non so chi, né perché, né quando,
ma qualcuno ci dividerà.
E allora uno di noi, fatalmente,
diventerà per l’altro rimpianto struggente.
La memoria assorbirà il ricordo lentamente,
ma senza lasciarlo mai più svanire.
Io chiedo di non sopravviverti.
Ma se al tramonto tu non fossi più qui,
io ti seguirò nello stesso istante,
prima che la crudele notte sopraggiunga,
e il buio della tua assenza
mi avvolga per sempre.
venerdì 13 marzo 2015
LE VOCI DEL MARE
”Il mare non ha paese ed è di tutti quelli
che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là, dove nasce e muore il sole..”
Come reso irreale dal
silenzio, interrotto solo dal lento e ritmato riflusso dell’onda sugli scogli e
dal planato volo dei gabbiani, alcuni a tratti quasi immobili nel cielo, il
porto appariva, quella sera, simile ad un quadro d’autore, dipinto con cura, e
tuttavia non concluso, forse perché l’ultimo
tocco di pennello, definendone in modo immutabile forme e contorni,
avrebbe potuto alterarne la virtualità e la portata espressiva, ineffabili
nella loro evanescenza.
Quasi per tener dietro ad un antico rituale anche
quella sera, lentamente, i pescherecci volgevano le prue verso il lontano
orizzonte, uno dietro l’altro, sollevando nell’acqua vortici di schiuma e
riverberi sbiaditi dell’ultimo sole del giorno, immenso disco di fuoco che il
Gran Sasso, a poco a poco, traeva a sé in un richiamo eterno e naturale.
Si allontanavano e scolorivano le luci del porto e,
da bordo, Giulianova spariva in lontananza con le sue case, le voci, i colori
della sera ormai tarda.
Vincenzo di solito restava a lungo con lo sguardo
fisso in direzione del campanile del Santuario, ora illuminato per l’ormai
prossima Festività del 22 aprile. Quello era il punto di riferimento che
avrebbe potuto vedere ancora per un po’ di tempo mentre il peschereccio si
allontanava in mare aperto. E questa sua peculiarità gli consentiva di avere,
nei confronti dei compagni di viaggio e di lavoro, ormai già dediti alle
incombenze di bordo, un intimo colloquio con la sua terra, col paese, con
Lucia. Era questa l’ultima uscita in mare prima del matrimonio. Dopo il ritorno
avrebbe prelevato in Banca quanto messo da parte in duri anni di sacrifici e di
rinunce e avrebbe sposato Lucia.
- Quattro soldi Peppì - confidava mentre insieme
preparavano le reti nelle ceste – ma per sposarsi bastano. Poi ci
accontenteremo.-
-Un mestiere così è già molto se ti fa campare –
sentenziava Tonino, il cuoco, e mentre il profumo delle sarde arrostite si
mescolava a quello pungente della salsedine e delle gomene inzuppate d’acqua,
Vincenzo rifletteva sull’immutabile realtà di quella vita, non diversa da
quella vissuta da suo nonno e da suo padre, marinai, con famiglie e figli che
avevano sempre avuto gli stessi problemi.
Questo pensiero, in parte, lo rincuorava, né del
resto egli avrebbe mai potuto immaginare per sé occupazione diversa o altro
lavoro che quello di marinaio.
Il mare, le sue voci, la fragranza asprigna della
salsedine, quello spazio azzurro infinito che lo circondava , tutto gli era da
sempre naturale, consueto, solito ed usuale, tutto da sempre era parte
inscindibile della sua vita.
La brezza della sera, prima leggera e gradevole,
s’era fatta, al sopravvenire della notte, prima più tesa, per poi trasformarsi,
a poco a poco, in vento forte. Stava arrivando l’ennesima tempesta. Nel buio
che ora avviluppava da ogni parte l’imbarcazione Vincenzo, come altre volte era
capitato, individuava distintamente il bianco latteo e vorticoso delle onde. Ma
gli parve, quella notte, come di udire nel vuoto l’eco di voci lontane, arcani
e indefiniti, ma suggestivi richiami del mare. Anche il mugghiare delle onde
gli sembrava quella notte diverso, sicchè si pose, per la prima volta, come non
aveva mai fatto prima, neutrale e distaccato di fronte a tutto. Diventò un osservatore
esterno. E mentre non v’era fenditura né pertugio ove il vento freddo non
filtrasse, per uscirne poi sibilando, e mentre tra le alte onde il piccolo
“Vincenzo Padre” era diventato poco più di un fuscello alla deriva in uno
stagno, Vincenzo guardò fisso verso gli altri suoi tre compagni. Quando i lampi
li illuminavano a giorno coglieva su quei volti scuri e grinzosi un’espressione
rude ma mai impaurita, e li vedeva preoccupati, ma non disperati, sempre forti
e tenaci, come le genti d’Abruzzo.
Le reti distrutte, gli ingenti danni alle
imbarcazioni, la perdita totale del pescato, tutto era parte di una storia
scritta da sempre, ogni volta riletta e mai ripudiata.
Vincenzo quella notte colse e valutò l’ineluttabilità
di quella vita, la sua obiettiva imprevedibilità, ma anche il legame
inestricabile che congiungendola a quegli uomini e alle loro famiglie ne
avrebbe distrutto, se mai si fosse spezzato, l’esistenza.
Burrasche simili Vincenzo ne aveva viste e
conosciute. Quella notte, però, aveva deciso di recitare una parte: voleva
essere lì per caso, a guardare da fuori, a giudicare. Mentre egli stesso, non
diversamente dagli altri lavorava freneticamente, vedeva tutti correre, affannarsi, sfidare il mare,
quel mare padrone, maestoso e forte, giudice di ogni evento, arbitro e sovrano
della sorte di ognuno. Tutti correvano, bagnati, lerci, incappucciati, sotto le
continue sferzate del vento gelido e delle onde, ma nessuno si chiedeva in cuor
suo perché, quasi in ossequio ad un atavico istinto.
Vincenzo quella notte non era tra loro. Li udiva
strillare, scambiarsi mezze frasi, mezze parole gridate più forte del vento, e
poi udiva invocazioni, preghiere, maledizioni, bestemmie: contrasti di
sensazioni e di sentimenti da cui
scaturiva forte la ferma determinazione a non cedere, a non sottostare alla
terribile ira del mare di quella notte d’aprile.
Si sarebbe sposato Vincenzo, e suo figlio si sarebbe
chiamato Ezio, come suo padre. L’aveva sempre pensato perché così usava tra la
gente di mare, tra i marinai ed i pescatori. E pensò a suo figlio quella notte
d’aprile, a come mai avrebbe acconsentito a farne un marinaio, per non saperlo
mai in balia delle onde, malvestito come lui, col maglione ruvido di lana e con
i pantaloni sempre sudici e bagnati. E, tutto sommato, povero. Questi
pensieri gli vorticavano nella mente
mentre guardava fisso la sua borsa con i manici di corda , inzuppata d’acqua,
abbandonata in un angolo del ponte. Quella borsa che, pure, sarebbe ancora
servita la prossima volta, e chissà per quante altre volte ancora.
L’alba ormai prossima tingeva l’orizzonte dei tenui
colori di un mattino che ognuno, a bordo, prevedeva radioso.
Si parlava ora solo dei giorni futuri, di come e
quando si sarebbe provveduto a rammendare le reti, a sistemare o a sostituire
le scotte. Si azzardava una valutazione approssimativa dei danni subiti e si
guardava dappertutto per essere certi che nessun attrezzo fosse diventato del
tutto inutilizzabile al punto da rendere difficoltosa o addirittura impossibile
la successiva uscita in mare.
S’era sopito, ora, quel mare. Il tumultuoso ruggito
della notte s’era fatto prima lamento, poi amabile sussurro. Erano ormai chete
le acque e l’aurora si stagliava sullo sfondo di un cielo allegrato dal volo
maestoso dei gabbiani che seguivano il “Vincenzo Padre”, messaggeri essi stessi
di nuova vita e di rinnovata serenità.
Vincenzo, sul ponte, aspettava ansioso il primo
raggio di sole: si tornava in porto.
- Per chi vive come noi – disse Giovanni – non
dovrebbe mai essere mare brutto. Una notte sprecata, lontano da casa senza
motivo, e senza guadagno..-
Vincenzo, sul ponte, aspettava ansioso il primo
raggio di sole, mentre si tornava in
porto. Guardava le reti quasi completamente distrutte e le sartie spezzate ed inservibili, mentre
le pompe della sentina funzionavano senza interruzione per estrarre acqua dalla
stiva allagata. Il porto, in lontananza, apparve a lui prima che agli altri, in
un ovattato silenzio che ora regnava sovrano, mentre la prua del peschereccio
fendeva il mare ancora grigio, ma ormai calmo. Solo qualche cresta d’onda,
imbiancando, ricordava ancora i burrascosi vortici della notte.
Vincenzo pensò a Lucia quando ormai gli apparve
nitida l’immagine del campanile del Santuario, la Chiesa nella quale la
domenica successiva si sarebbe sposato. E pensò ad Ezio, suo figlio.
L’avrebbero chiamato così, ne era certo. Poi, come aveva sempre fatto prima
dell’attracco, ricompose la sua borsa di corda con ciò che restava di quanto
s’era portato.
Era pace fatta col mare. Tutti ora a bordo parlavano
tra loro e ridevano. Vincenzo pure era tornato se stesso, elemento naturale di quella vita e di
quel mondo. Ora, ravvedendosi, pensava che pure Ezio, se mai un giorno fosse
nato per volere di Dio, sarebbe partito con la sua borsa di corda. Perchè era
giusto così, e perchè quel mare era da sempre vero padre di tutti loro.
E capì, mentre il “Vincenzo Padre” superava
l’imboccatura del porto per trovare in esso rifugio, come un bimbo cerca il
seno della mamma, che pescatore e marinaio sarebbe stato suo figlio, come lo
erano stati suo padre e suo nonno.
Perché il mare è unica fonte di sostentamento e di
vita per chi, come lui, riesce ad amarlo e ad odiarlo in una notte sola.
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