martedì 6 ottobre 2015

MILNA

Notte di incanto a Milna,
sotto il cielo nero
ed il lento ritmo della risacca.
La marina tace,
tra lo sciabordio delle onde
e il canto mesto di un gitano.
Grazie Mary Lo che accogli nel tuo ventre
di legno e resine pregiate
gli amici rapiti per un po' alla monotonia di sempre.
Tu sei l'approdo per i pensieri stanchi
per le frenetiche ansie quotidiane,
sei la libertà di un gabbiano in volo,
momento di felicità senza confini.
Grazie Mary Lo
perché sul mare mi porti con te
ai bagliori dell'alba
e quando di misteri oscuri
si veste questa magica notte di Milna.

venerdì 2 ottobre 2015

VACANZE BALNEARI A GIULIANOVA NEGLI ANNI '50

  

Un filmato dell'Istituto Luce, girato a Giulianova pochi anni prima dell'incipiente miracolo economico post bellico, che interessò all'epoca la costa abruzzese, come peraltro l'intera nazione,  mette a fuoco con particolare dovizia di particolari, alcuni aspetti che, guardati nella loro potenzialità, servirono, all'inizio degli anni cinquanta, a favorire negli addetti ai lavori, un progressivo studio di fattibilità, rivolto essenzialmente a far emergere possibili sbocchi economici nel settore del turismo balneare.
E’ intorno alla fine degli anni cinquanta, infatti,  che località costiere, come Giulianova, Alba Adriatica e Roseto degli Abruzzi, gettano le basi per costruire, a poco e poco, nel tempo, una solida impalcatura, destinata a sorreggere la mole di un’industria balneare che, pur con tutti i limiti e le difficoltà legate al particolare momento storico, troverà piena espressione e solido sviluppo solo nel decennio successivo.
In particolare a Giulianova inizia in quel tempo la metodica cura degli arenili, che vengono liberati da tutto ciò che il mare ed il fiume hanno scaricato sulla battigia durante i mesi invernali.
Questa operazione comincia ad essere svolta con maggiore cura del passato e con estrema diligenza, a riprova del fatto che si è intuita l’enorme potenzialità del territorio, e la sua possibilità di crescita economica, una volta venuto meno l’immobilismo del periodo bellico ed alla luce di una rinnovata fase di decollo dell’industria balneare.
 Giulianova comincia a dotarsi di grandi alberghi, destinati ad accogliere i turisti, sempre più numerosi. Contemporaneamente sorgono i primi stabilimenti balneari, alcuni dei quali diventeranno, nel tempo, il simbolo stesso della città, vere e proprie icone che manterranno il loro indiscusso carisma fino ai giorni nostri.
Naturalmente all’inizio si registra tutt'altro che un turismo di massa, trattandosi di una macchina che comincia a muoversi tra non poche difficoltà e bisognosa di rodare i propri meccanismi.
D'altro canto, a riprova della giusta lungimiranza manifestata dagli operatori turistici dell'epoca, dal richiamato filmato prodotto solo pochi anni prima dall'Istituto Luce e girato sulla spiaggia di Giulianova non emergono, contrariamente al solito, espressioni di propaganda, ma ci si limita a mostrare i bagnanti sull'arenile, i primi costumi alla marinara, i primi ombrelloni forniti dagli stabilimenti balneari.
Non c'è il solito tono enfatico, quasi a voler far emergere, a tutto tondo, in modo autonomo ed asettico, il reale valore del territorio, le potenzialità legate alla frequentazione degli arenili, alla limpidezza delle acque del mare, al clima mite, al silenzio ed alla pace che vi regnano sovrani.
Il riferimento, ovviamente è diretto ad una frequentazione di elite, atteso che per lungo tempo ancora, fino agli anni sessanta ed oltre, l'utilizzo della spiaggia libera rimarrà prerogativa dei più, ed il noleggio degli ombrelloni privilegio di pochi. Tuttavia traspare da questa intensa attività di management turistico messo in atto dagli operatori giuliesi dell'epoca, la ferma volontà di incoraggiare, come riconosciuto business, la diffusione delle prime villeggiature estive, all'incremento delle quali, peraltro, contribuiscono anche molti elementi esterni. Basti pensare al progressivo aumento dei consumi di una famiglia media, frutto delle  evoluzioni economiche legate alla ripresa post bellica, al correlato sviluppo dell'industria automobilistica ed alla comparsa della Seicento, simbolo del magico exploit della rinnovata società dei consumi.
I risultati di tale frenetica attività promozionale non tardano ad arrivare. La Camera di Commercio di Teramo registra un incremento percentuale estremamente significativo delle unità ricettive destinate ad accogliere il turismo balneare. In provincia di Teramo, infatti, si passa dai sette alberghi in attività nell'anno 1949 ai 18 del 1957, a riprova dell'estrema vitalità e del dinamismo che operano nel substrato a fronte della nuova modalità di trascorrere il tempo libero espresso da parte delle famiglie che, con tale nuovo atteggiamento,  aprono nuovi scenari all'emancipazione sociale ed al costume.
Le vacanze estive sulla costa abruzzese, e nella città di Giulianova in particolare, che rappresentano in qualche modo le prime incerte basi per il futuro decollo dell'industia balneare, costituiscono alla fine degli anni cinquanta i primi passi di una progressiva espansione turistica che, nel decennio successivo, si svilupperà in modo completo ed affatto diverso, consentendo la fruizione di una villeggiatura estiva che diventerà bene comune di tutti, e che  non sarà più appannaggio del solo ceto aristocratico o alto borghese.




mercoledì 1 luglio 2015

PIETRO FERRARI DA GIULIANOVA

Quel perentorio “Ai posti di combattimento!” con cui si presentava in aula con i libri in mano e spingendo la porta con un piede, il giorno in cui c’era compito in classe, non era solo un invito alla massima concentrazione per l’impegno di quel momento, ma era un monito universale, una sorta di precetto da osservare per sempre durante la vita, una dura legge che nell’adolescenza si ignora ancora.  Quel simpatico incitamento era un sistema inusuale, strambo e bizzarro per sollecitarci a guardare il futuro con animo impavido, uno sprone ad armarci di forza e di coraggio per affrontare gli ostacoli ed i casi della sorte.
Così Pietro Ferrari da Giulianova, come amava nominarsi,  inculcava ad intere e successive generazioni di studenti, sani principi esistenziali, sempre giocherellando con motti e gesti tra il serio ed il faceto, tra citazioni e rime, forbiti richiami classici e sontuose espressioni auliche. Una cultura infinita, sempre pronta ad emergere dal suo aspetto austero ed umile al tempo stesso,  imponente e carismatico, ma mai distaccato.
Tutto ciò che arrivava, in termini di insegnamento, giungeva da una via diversa, insolita, affatto anomala. Imparavi a conoscere e ad apprezzare un autore perché lui riusciva a farti ripercorrere a ritroso il travagliato cammino che partiva dal tormento dell’ispirazione per culminare poi  nella genesi di un’opera, esaltando la  fase embrionale ed il conflitto interiore che l’avevano generata. Forse perché Ferrari era lui stesso grande poeta, scrittore e critico,  uomo eccellente che vibrava di ineffabili sensazioni dell’animo e di brividi di puro lirismo.
Pietro, Pierino come lo chiamavano gli amici del mare, della sua sempre amata Giulianova, percorreva sentieri paralleli all’esistenza terrena. Capivi che quell’aspetto fisico burbero e possente non apparteneva alla comune realtà delle cose, al routinario procedere del tempo. La sua figura massiccia era addolcita da una incomparabile sapienza, di cui non dava mostra in modo  indiscreto, ma che traspariva tuttavia da ogni gesto e da ogni parola, come se tutto in lui sublimasse da un’ eburnea base di conoscenza, non intaccabile da fuori.
Essere stato tra coloro che dai banchi del Liceo, durante i mitici e favolosi anni sessanta, l’ascoltarono erudire, insegnare, o solo discorrere e parlare, e poi declamare a memoria interi canti della Divina Commedia, non è privilegio da poco.  Coglievi nel suo sguardo i fulminei raggi di un’indefinibile stravaganza, quasi come se volasse nell’etereo spazio di una sua ascosa e impenetrabile dimensione alla quale sapevi che mai avresti potuto accedere. Era un suo microcosmo, vago e indefinito, avvolto nella coltre nebulosa di un continuo fastidio esistenziale,  sempre altalenante  tra “”amor vitae “” e “” cupio dissolvi”” come bene avvertì il Santucci, che l’ebbe collega all’Università, recensendo alcune sue “Esperienze liriche dell’inesistenza (“Il mio cuore sepolto, se lo sfiora un richiamo di luce dalla vita, abbrividisce un attimo e rimuore”).
Tra i molteplici e mai negletti ricordi mi sovviene di un mattino di novembre : la tenue luce di un pallido sole, il sapore appena aspro dell’aria dell’autunno inoltrato, durante una gita scolastica. Con quel suo fare sornione non smetteva di passare di continuo dal fare giocoso alla domanda diretta, seria e cattedratica: mi chiese senza pudore ed  ex abrupto l’aoristo passivo di “Orao”, comparendomi davanti all’improvviso mentre m’ero coraggiosamente appartato con un amoretto liceale in un angolino del ristorante, complice l’atmosfera di diversità che si respirava così lontano dall’aula….
Eppure non mi parve inopportuna quell’intrusione. Faceva parte del gioco d’insieme, del mirabile clima di goliardica complicità che aveva instaurato con noi tutti e che lo rendevano un insegnante davvero “diverso”.
Anche per questi episodi così peculiari ed atipici Pietro Ferrari non può essere descritto né definito senza onerosi stenti e senza che, vergando il foglio, la penna esiti e indugi, perché il ricordo rende lucidi gli occhi e genera un nostalgico groppo in gola.
   Nelle pause e nei non molti momenti confidenziali raccontava di sé, delle sue numerose sentimentali avventure trascorse e dei suoi tormenti adolescenziali, sempre velando ogni frase ed ogni espressione sotto un sottile strato di inquietudine e di mai sopita mestizia. Quasi come se il tempo, così velocemente  fuggendo (“Ruit hora, fugit irreparabile tempus” sempre sentenziava) l’avesse privato di qualcosa che si sarebbe aspettato come giusto seguito, trasferendolo da una primitiva e inconsapevole dimensione di luce ad un consapevole spazio di tenebra incombente (“”Come divenni, io infinito, un uomo?””) .
Scrittore e poeta dall’animo sensibilissimo, usava il suo cantare per difendersi dall’imperversare degli eventi, cui soggiaceva in modo non inerte, affidandosi ad un  fortissimo sentire. Così raccontò una volta che travolto al largo dai marosi durante un’uscita con la barca in mare, sul punto di cedere alla violenza dei flutti, con tutto lo spirito guerriero che gli era dentro s’oppose indomito alla furia degli elementi e dichiarò a se stesso che mai nella vita avrebbe ceduto alla paura, e che sempre avrebbe preferito “” vivere fortissimamente, oppure morire”.
Subiva il travaglio culturale in modo intenso e sofferto, eppure da esso traeva linfa vitale, illuminazioni e valori di ricchezza morale che con assoluta semplicità riusciva a trasferire ai suoi adepti, perché tali per lui noi eravamo e non solo studenti di Liceo.
Durante le mirabili citazioni e declamazioni dei brani, sempre recitati a memoria, sapientemente modulava l’accento tonico con volute esagerazioni, esaltando il senso ed il significato del testo e solennizzando  ogni singolo termine ed ogni parola fino a sublimarne magicamente l’essenza.
Guardandolo con continuo interesse dal mio banco in prima fila durante le lezioni, e cercando continuamente  di cogliere in ogni suo gesto o in ogni espressione del suo viso qualche particolare che potesse aiutarmi a decifrarne la complessissima indole,  sempre immaginai che grande uniformità di sentire dovette covare in sé con lo “spirto guerriero” del Carducci, o con l’animo nobile e ribelle di quel Farinata degli Uberti, di cui spesso all’occorrenza in aula richiamava le doti di grande fierezza, mimando, dopo essersi alzato in piedi sulla pedana della cattedra e gonfiato il torace in modo buffo e curioso, il fatidico momento dell’incontro con Dante. “”Io avea il mio viso nel suo fitto, ed el s’ergea col petto e con la fronte come avesse l’Inferno in gran dispitto……”  urlava con la possente voce che rintronava simile al fragore del tuono per tutti i corridoi del Liceo e che per  il seguito dei nostri giorni noi avremmo tante volte riudito rimbombare in testa come un monito ad affrontare la vita con ferma determinazione ripudiando per principio ogni vile sottomissione.
Ferrari era maestro, guida e precettore.  Il suo insegnamento travalicava gli schemi e gli stereotipi del tradizionale sistema di erudizione e spaziava nel campo esistenziale, sicchè tutto ciò che da lui si apprendeva avrebbe avuto, in futuro, possibile ed utile applicazione nella quotidianità, fornendo preziosi lumi per cercare di rendere intelligibile il “mistero della vita”. E proprio quel grande mistero lo occupava, senza sosta e senza tregua, in ogni istante della sua esistenza, ponendogli non pochi affanni, fino all’ultimo giorno (“”che io non ti abbia atteso invano”” si legge sulla lapide del suo sepolcro nell’autonecrologio con riferimento all’Essere Supremo del quale sempre avvertì con travaglio interiore, ma con ferma convinzione,  la reale esistenza).
Aveva mani tozze e rudi, callose e nodose, come quelle di un vero marinaio. E davanti al mare, quando nei giorni di burrasca amava rifugiarsi nel suo caro Trabocco sul porto, veniva fuori quel mirabile contrasto tra il suo aspetto fisico forte e possente e la sensibilità del suo animo capace di recepire i minimi sussulti del cuore.  
Quando personaggi di tale ricchezza interiore entrano in contatto con gli altri lasciano il segno. Noi sessantottini, liceali, desiderosi di cambiare il mondo, travolti dagli eventi e dalle ideologie di quegli anni difficili, avevamo tanto bisogno di essere guidati e portati per mano per essere avviati sulla giusta strada.
Pietro Ferrari è stato il nostro grande maestro di vita.
Noi non lo dimenticheremo mai.


martedì 31 marzo 2015

AL TRAMONTO

Io non so per quanto tempo ancora
ci sarà concesso di camminare a fianco
lungo questo sentiero impervio
che trae verso l’ignoto.

Avverrà che uno di noi due, un giorno,
nell’andare, diventi, suo malgrado,
di doloroso impaccio all’altro,
e che poi si arresti.

E l’altro dovrà da solo, nondimeno,
riprendere il cammino.

Io non so chi, né perché, né quando,
ma qualcuno ci dividerà.
E allora uno di noi, fatalmente,
diventerà per l’altro rimpianto struggente.

La memoria assorbirà il ricordo lentamente,
ma senza lasciarlo mai più svanire.

Io chiedo di non sopravviverti.
Ma se al tramonto tu non fossi più qui,
io ti seguirò nello stesso istante,
prima che la crudele notte sopraggiunga,
e il buio della tua assenza
mi avvolga per sempre.


venerdì 13 marzo 2015

LE VOCI DEL MARE

”Il mare non ha paese ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là, dove nasce e muore il sole..”

                           Come reso irreale dal silenzio, interrotto solo dal lento e ritmato riflusso dell’onda sugli scogli e dal planato volo dei gabbiani, alcuni a tratti quasi immobili nel cielo, il porto appariva, quella sera, simile ad un quadro d’autore, dipinto con cura, e tuttavia non concluso, forse perché l’ultimo  tocco di pennello, definendone in modo immutabile forme e contorni, avrebbe potuto alterarne la virtualità e la portata espressiva, ineffabili nella loro evanescenza.
Quasi per tener dietro ad un antico rituale anche quella sera, lentamente, i pescherecci volgevano le prue verso il lontano orizzonte, uno dietro l’altro, sollevando nell’acqua vortici di schiuma e riverberi sbiaditi dell’ultimo sole del giorno, immenso disco di fuoco che il Gran Sasso, a poco a poco, traeva a sé in un richiamo eterno e naturale.
Si allontanavano e scolorivano le luci del porto e, da bordo, Giulianova spariva in lontananza con le sue case, le voci, i colori della sera ormai tarda.
Vincenzo di solito restava a lungo con lo sguardo fisso in direzione del campanile del Santuario, ora illuminato per l’ormai prossima Festività del 22 aprile. Quello era il punto di riferimento che avrebbe potuto vedere ancora per un po’ di tempo mentre il peschereccio si allontanava in mare aperto. E questa sua peculiarità gli consentiva di avere, nei confronti dei compagni di viaggio e di lavoro, ormai già dediti alle incombenze di bordo, un intimo colloquio con la sua terra, col paese, con Lucia. Era questa l’ultima uscita in mare prima del matrimonio. Dopo il ritorno avrebbe prelevato in Banca quanto messo da parte in duri anni di sacrifici e di rinunce e avrebbe sposato Lucia.
- Quattro soldi Peppì - confidava mentre insieme preparavano le reti nelle ceste – ma per sposarsi bastano. Poi ci accontenteremo.-
-Un mestiere così è già molto se ti fa campare – sentenziava Tonino, il cuoco, e mentre il profumo delle sarde arrostite si mescolava a quello pungente della salsedine e delle gomene inzuppate d’acqua, Vincenzo rifletteva sull’immutabile realtà di quella vita, non diversa da quella vissuta da suo nonno e da suo padre, marinai, con famiglie e figli che avevano sempre avuto gli stessi problemi.
Questo pensiero, in parte, lo rincuorava, né del resto egli avrebbe mai potuto immaginare per sé occupazione diversa o altro lavoro che quello di marinaio.
Il mare, le sue voci, la fragranza asprigna della salsedine, quello spazio azzurro infinito che lo circondava , tutto gli era da sempre naturale, consueto, solito ed usuale, tutto da sempre era parte inscindibile della sua vita.
La brezza della sera, prima leggera e gradevole, s’era fatta, al sopravvenire della notte, prima più tesa, per poi trasformarsi, a poco a poco, in vento forte. Stava arrivando l’ennesima tempesta. Nel buio che ora avviluppava da ogni parte l’imbarcazione Vincenzo, come altre volte era capitato, individuava distintamente il bianco latteo e vorticoso delle onde. Ma gli parve, quella notte, come di udire nel vuoto l’eco di voci lontane, arcani e indefiniti, ma suggestivi richiami del mare. Anche il mugghiare delle onde gli sembrava quella notte diverso, sicchè si pose, per la prima volta, come non aveva mai fatto prima, neutrale e distaccato di fronte a tutto. Diventò un osservatore esterno. E mentre non v’era fenditura né pertugio ove il vento freddo non filtrasse, per uscirne poi sibilando, e mentre tra le alte onde il piccolo “Vincenzo Padre” era diventato poco più di un fuscello alla deriva in uno stagno, Vincenzo guardò fisso verso gli altri suoi tre compagni. Quando i lampi li illuminavano a giorno coglieva su quei volti scuri e grinzosi un’espressione rude ma mai impaurita, e li vedeva preoccupati, ma non disperati, sempre forti e tenaci, come le genti d’Abruzzo.
Le reti distrutte, gli ingenti danni alle imbarcazioni, la perdita totale del pescato, tutto era parte di una storia scritta da sempre, ogni volta riletta e mai ripudiata.
Vincenzo quella notte colse e valutò l’ineluttabilità di quella vita, la sua obiettiva imprevedibilità, ma anche il legame inestricabile che congiungendola a quegli uomini e alle loro famiglie ne avrebbe distrutto, se mai si fosse spezzato, l’esistenza.
Burrasche simili Vincenzo ne aveva viste e conosciute. Quella notte, però, aveva deciso di recitare una parte: voleva essere lì per caso, a guardare da fuori, a giudicare. Mentre egli stesso, non diversamente dagli altri lavorava freneticamente, vedeva  tutti correre, affannarsi, sfidare il mare, quel mare padrone, maestoso e forte, giudice di ogni evento, arbitro e sovrano della sorte di ognuno. Tutti correvano, bagnati, lerci, incappucciati, sotto le continue sferzate del vento gelido e delle onde, ma nessuno si chiedeva in cuor suo perché, quasi in ossequio ad un atavico istinto.
Vincenzo quella notte non era tra loro. Li udiva strillare, scambiarsi mezze frasi, mezze parole gridate più forte del vento, e poi udiva invocazioni, preghiere, maledizioni, bestemmie: contrasti di sensazioni e di sentimenti  da cui scaturiva forte la ferma determinazione a non cedere, a non sottostare alla terribile ira del mare di quella notte d’aprile.  
Si sarebbe sposato Vincenzo, e suo figlio si sarebbe chiamato Ezio, come suo padre. L’aveva sempre pensato perché così usava tra la gente di mare, tra i marinai ed i pescatori. E pensò a suo figlio quella notte d’aprile, a come mai avrebbe acconsentito a farne un marinaio, per non saperlo mai in balia delle onde, malvestito come lui, col maglione ruvido di lana e con i pantaloni sempre sudici e bagnati. E, tutto sommato, povero. Questi pensieri  gli vorticavano nella mente mentre guardava fisso la sua borsa con i manici di corda , inzuppata d’acqua, abbandonata in un angolo del ponte. Quella borsa che, pure, sarebbe ancora servita la prossima volta, e chissà per quante altre volte ancora.
L’alba ormai prossima tingeva l’orizzonte dei tenui colori di un mattino che ognuno, a bordo, prevedeva radioso.
Si parlava ora solo dei giorni futuri, di come e quando si sarebbe provveduto a rammendare le reti, a sistemare o a sostituire le scotte. Si azzardava una valutazione approssimativa dei danni subiti e si guardava dappertutto per essere certi che nessun attrezzo fosse diventato del tutto inutilizzabile al punto da rendere difficoltosa o addirittura impossibile la successiva uscita in mare.
S’era sopito, ora, quel mare. Il tumultuoso ruggito della notte s’era fatto prima lamento, poi amabile sussurro. Erano ormai chete le acque e l’aurora si stagliava sullo sfondo di un cielo allegrato dal volo maestoso dei gabbiani che seguivano il “Vincenzo Padre”, messaggeri essi stessi di nuova vita e di rinnovata serenità.
Vincenzo, sul ponte, aspettava ansioso il primo raggio  di sole: si tornava in porto.
- Per chi vive come noi – disse Giovanni – non dovrebbe mai essere mare brutto. Una notte sprecata, lontano da casa senza motivo, e senza guadagno..-
Vincenzo, sul ponte, aspettava ansioso il primo raggio di sole, mentre  si tornava in porto. Guardava le reti quasi completamente distrutte  e le sartie spezzate ed inservibili, mentre le pompe della sentina funzionavano senza interruzione per estrarre acqua dalla stiva allagata. Il porto, in lontananza, apparve a lui prima che agli altri, in un ovattato silenzio che ora regnava sovrano, mentre la prua del peschereccio fendeva il mare ancora grigio, ma ormai calmo. Solo qualche cresta d’onda, imbiancando, ricordava ancora i burrascosi vortici della notte.
Vincenzo pensò a Lucia quando ormai gli apparve nitida l’immagine del campanile del Santuario, la Chiesa nella quale la domenica successiva si sarebbe sposato. E pensò ad Ezio, suo figlio. L’avrebbero chiamato così, ne era certo. Poi, come aveva sempre fatto prima dell’attracco, ricompose la sua borsa di corda con ciò che restava di quanto s’era portato.
Era pace fatta col mare. Tutti ora a bordo parlavano tra loro e ridevano. Vincenzo pure era tornato se  stesso, elemento naturale di quella vita e di quel mondo. Ora, ravvedendosi, pensava che pure Ezio, se mai un giorno fosse nato per volere di Dio, sarebbe partito con la sua borsa di corda. Perchè era giusto così, e perchè quel mare era da sempre vero padre di tutti loro.
E capì, mentre il “Vincenzo Padre” superava l’imboccatura del porto per trovare in esso rifugio, come un bimbo cerca il seno della mamma, che pescatore e marinaio sarebbe stato suo figlio, come lo erano stati suo padre e suo nonno.
Perché il mare è unica fonte di sostentamento e di vita per chi, come lui, riesce ad amarlo e ad odiarlo in una notte sola.