mercoledì 3 ottobre 2012

RACCONTO VINCITORE DEL PREMIO "GIAMMARIO SGATTONI" 2012


VIA QUARNARO

Borgo di giovanili memorie

 

Racconto breve di Sergio Di Diodoro

 

Il cancello della  casa di nonna Gaetanella  si apriva nel cuore di via Quarnaro. Era proprio a metà tra la Scuola elementare ed il lungomare. Nel piccolo giardino, a ridosso della via, una pergola non grande, ma antica, regalava in settembre meravigliosi grappoli di uva. Era il “moscato”. I chicchi erano sodi, grandi, dolcissimi. In mezzo ai  raspi spesso trovavi una piccola ragnatela col suo ragno, ma questo in nessun modo poteva alterare il piacere di mangiare quel “nettare” che  veniva consumato direttamente, appena colto, senza neanche essere lavato. I rami della vite sporgevano a ridosso della strada e i corposi grappoli rappresentavano per i passanti un piacevole ristoro.

Correvano gli anni sessanta.

Quando imbruniva, nei pomeriggi primaverili, tutto il borgo assumeva i colori della primavera stessa. E la strada diventava odorosa  perché l’aria s’ impregnava degli aromi di ogni pietanza. I peperoni fritti di Loreta, le alici alla brace di Maria “La Barcapersa” , le polpette di nonna Gaetanella. Appena terminati i compiti di scuola noi ci riversavamo per la via, come le lumache quando spiove. Si respirava un dolcissimo nettare di primavera: il clima era mite,  segnale precursore dell’estate ventura, già annunciata dalle prime fogge audacemente leggere, dall’abbandono dei pullover di lana, lasciati cadere per terra mentre si approntava un improvvisato campo di calcio in mezzo alla strada.

E la strada era poco trafficata. Solo qualche auto, ogni tanto, ci costringeva a rimuovere le “porte” sul terreno sbrecciato, i quattro mattoni disposti a cinque passi l’uno dall’altro. Quella era la distanza giusta con riferimento alle dimensioni del terreno di gioco.  Il pallone, di cuoio,  aveva un taglio dal quale veniva inserita internamente la camera d’aria rossa, poi richiusa dentro per essere gonfiata. Il lembo attaccato alla pompa veniva rigirato su se stesso e sistemato nella feritoia, richiusa a sua volta con un cordone di cuoio annodato e nascosto all’interno. Un processo lungo e riservato ad esperti che riuscivano a non far vedere null’altro che la strettissima fessura dopo aver gonfiato la camera d’aria.

Poi sulla superficie liscia del pallone veniva spalmato grasso animale a volontà, per ammorbidire il cuoio irrigidito dal continuo contatto con la polvere e con le pietre del terreno.                

Il profumo del sugo di pomodoro di nonna Gaetana si spandeva nell’aria e nelle case della via fin dalle prime ore del mattino. Era una sinfonia di aromi, quasi un elemento naturale di quel quadro dipinto sullo sfondo del mare, che si intravedeva alla fine della strada, dopo la pineta, e dal quale giungevano continui effluvi di salsedine, quando si era sotto vento, e il rumore sordo e dolcissimo della risacca. A pranzo mangiavamo polpette di carne e pane fresco profumato, profumatissimo, caldo di forno, perché si comprava alle undici, dopo la seconda uscita, affinchè giungesse in tavola ancora fumante.

Via Quarnaro era come un luogo di ritrovo naturale. Non occorreva darsi appuntamenti, né c’era bisogno di fissare orari. Non c’erano regole, se non quella, non scritta, di essere lì, tutti i giorni, dopo aver terminato i compiti di scuola. Poi si restava fino a che non fosse scesa la prima oscurità della sera, quando l’aria cominciava ad impregnarsi dei diversi profumi della cena imminente. Allora si rientrava a casa. La serata trascorreva senza televisione, senza telefonini, senza computer, senza stereo. A volte ci si addormentava, dopo cena, con la testa reclinata sul tavolo, per poi trasferirsi, assonnati, sotto le fredde lenzuola del letto. I termosifoni non c’erano e dalla stufa a legna della cucina arrivava nelle camere solo un tiepido calore. Rispetto agli adolescenti di oggi non avevamo nulla. Vivevamo di fantasia, di semplicità, di sentimenti vari e genuini, di piccole cose. Ognuno era felice di niente, ma quel niente era tanto.

Passavano poche auto in via Quarnaro: in media una ogni trenta o quaranta minuti. Qualche bici, a volte il carrettino del pescivendolo, qualche scooter. Ma raramente. In realtà tutta la strada era a nostra disposizione, tanto che i libri di scuola diventavano i “pali” delle porte di un improvvisato campo di calcio dove si svolgevano incontri di grande intensità agonistica. Le squadre venivano definite col sistema della scelta diretta. Due “capitani” improvvisati (in genere coloro che per primi avevano proposto lo svolgimento dell’incontro) procedevano ad una “conta” con la quale si stabiliva chi dovesse iniziare a scegliere, tra i presenti, il primo componente della propria squadra. Poi si andava avanti così fino alla fine. Naturalmente coloro che venivano scelti subito erano quelli considerati migliori. Chi veniva scelto per ultimo era il più “brocco” o, come talora accade, il più “antipatico”. Definite le formazioni si iniziava a giocare una sorta di partita “a dieci”, ossia senza limiti di tempo, ma con la regola che la squadra che avesse per prima realizzato dieci goals sarebbe stata dichiarata vincitrice. L’incontro era sospeso solo nel rarissimo caso che transitasse un’auto. Diversamente il passaggio di una bicicletta o di uno scooter non era considerato motivo valido per interrompere un’azione di gioco. Non esisteva fallo laterale, ma si giocava “di sponda” cioè potendo utilizzare il rimpallo del pallone su una parete laterale, fosse stato il muro di una casa, o un cancello, o un marciapiede. Non c’era arbitro. Ogni decisione in merito a qualche presunto fallo di gioco scaturiva da una specie di improvvisata ed estemporanea discussione , a volte anche molto vivace, tra i giocatori coinvolti nello scontro. Allora intervenivano gli altri, e si ripeteva un rituale sempre identico: un acceso scambio di opinioni, qualche parola di troppo, qualche spintone. Alla fine emergeva sempre un verdetto emesso a “furor di popolo”. In genere era molto importante avere in squadra, oltre a gente capace di giocare a calcio, anche qualcuno in grado di negoziare bene e capace di gestire le situazioni di criticità. Se poi questi fosse stato anche fisicamente ben messo e più massiccio degli altri, quindi in grado di far valere bene le sue ragioni, tanto di guadagnato. Alla fine della partita, sudati e lerci (la strada non era asfaltata, ma sterrata), si andava a bere alla fontanella pubblica di viale Orsini, davanti alla Scuola Elementare. E qui partiva sempre un coro di sbeffeggiamenti indirizzato alla squadra uscita sconfitta. A volte qualcuno dei perdenti, insofferente davanti alla spietata volgarità degli sfottò, andava fuori di testa e reagiva con violenza, assalendo fisicamente qualcuno degli avversari. Nasceva così la classica zuffa tra i due litiganti che iniziavano a darsele di santa ragione. In luogo di intervenire  per separarli , quasi sempre gli altri facevano cerchio intorno e assistevano al combattimento incitando l’uno o l’altro, al grido selvaggio di “match, match” o “botte, botte” . Il passaggio dal dopo partita al pugilato aveva termine quando qualche passante adulto si intrometteva nella mischia ed interveniva a separare i due avversari. A questo punto il gruppo si disperdeva naturalmente, per ricomporsi il giorno dopo, nello stesso posto, alla stessa ora.

La domenica mattina tutto il borgo era impregnato di profumi e di fragranze  che, mescolandosi tra loro,  diventavano il simbolo della giornata. Le casalinghe di allora, le vere massaie di un tempo, trascorrevano l’intera mattinata in casa per approntare l’impasto che sarebbe servito per stendere la sfoglia per poi ottenere la pasta all’uovo, tipico piatto domenicale. Quando nonna Gaetanella preparava “li maccarì tutt’ove”,  cantava ritornelli dei suoi tempi con voce dolcissima ed argentina ed era un quadro  d’autore. Il profumo del suo sugo di carne e pomodori si spandeva per l’intera via e l’aveva resa famosa in tutto il quartiere. È impossibile non ricordare le sensazioni diverse che si provavano quando ci si trovava in strada, in genere dopo la Messa delle 9,30, per trascorrere la mattinata inventando qualche diversivo, immersi nella magica atmosfera di quegli aromi, che preannunciavano il pranzo della domenica, un rito al quale nessuno avrebbe voluto rinunciare. Un desinare diverso da quello di oggi perché molte pietanze erano tipiche dei giorni di festa e non sarebbero più transitate sulla tavola per tutto il resto della settimana. L’attesa, come sempre avviene, era ancora più bella dell’evento. Così quelle due ore trascorse in strada a fare nulla,  aspettando solo che quelle suggestive sensazioni si traducessero in realtà, erano momenti magici della giornata.  Il preludio ad un periodo di ritrovo, di serenità, di pace familiare, ad un pomeriggio di libertà dai compiti di scuola.

In genere ci si trovava, intorno alle 14 davanti al cinema Ideal, alla fine di via Quarnaro. Dopo il pranzo  non si poteva fare altro. O  l’incontro di calcio al Fadini o, se Il Giulianova  giocava in trasferta,  pomeriggio al cinema Ideal o al cinema Ariston. C’era tuttavia un  paletto da superare. Tutte le domeniche, dopo la Messa, occorreva prendere visione di un avviso esposto ai fedeli sul fondo della Chiesa, nel quale si fornivano  indicazioni sui film in programmazione: T per tutti, S sconsigliato, V vietato. A volte forzando un po’ la mano si riusciva ad andare a vedere qualche S, ma per la categoria V non c’era speranza. Non erano sempre film  scollacciati, anzi, non lo erano quasi mai a quell’ora, ma spesso le limitazioni riguardavano scene di violenza, immoralità, atteggiamenti  corrotti, depravati, ingiusti. La morale era un’altra. Diverso era anche il rapporto genitori figli, almeno in gran parte delle famiglie di allora. Non ancora delineata la contestazione sessantottina, esisteva il rispetto per i genitori, si osservavano scrupolosamente gli insegnamenti paterni e materni. In altre parole se veniva proibita la visione del film non c’era verso di ottenere poi  il consenso. Si rinunciava e basta. E così qualche rara volta in cui nelle due sale si programmavano film vietati si finiva per trascorrere l’intero pomeriggio in strada, in via Quarnaro, inventando modi diversi per trascorrere il tempo.

 

Quello che chiamavamo “spiazzale” altro non era che un cortile interno, confinante con casa nostra e con altre case vicine,  una piazzetta di cemento alla quale si accedeva da un grande cancello di ferro che dava  su una piccola via, una traversa che collegava via Quarnaro con via Nazario Sauro. Era il luogo di ritrovo post prandiale. Appena terminato il pranzo, infatti, prima di iniziare i compiti di scuola,  si andava “allo spiazzale”, anche qui per giocare ridotte partite di calcio, spesso tre contro tre,  a volte interrotte da qualche adulto che aveva la sfortuna di avere la finestra della camera prospiciente al cortile e che, quindi, specie d’estate, protestava per il rumore e gli schiamazzi che gli impedivano di riposare. A quei tempi non c’era l’impudenza di oggi. Bastava un  rimprovero appena velato e si andava tutti via. Nessuno osava reagire ad un adulto, fosse stato anche un estraneo. C’era rispetto per gli anziani.  la discrezione e l’educazione spesso funzionavano in modo tale da reprimere ogni pur giustificato desiderio di manifestare il proprio dissenso. Correvano turpiloqui e volgarità, ma solo tra coetanei. Nessuno si sarebbe mai sognato di rivolgersi con parole inopportune  ad una persona adulta, e tanto meno ad una persona anziana. Eravamo così.

Lo spiazzale era anche il luogo in cui ci si intratteneva per lavare la bici, per lavare a volte le radici di liquirizia  riportate a casa ancora interrate. C’era anche, su uno dei muri laterali, un vecchio anello arrugginito che simulava il canestro del basket. Ma era riservato a pochi intimi,  che, peraltro assai raramente, organizzavano qualche breve incontro .

Un fenomeno curioso accadeva spesso: poiché il cancello di ingresso allo spiazzale rappresentava anche  una delle porte del mini campo di calcio, e  restava sempre aperto perché era assai difficoltoso chiudere le due pesanti ante di ferro,  il pallone finiva sempre per andare  contro una rete di  filo spinato che era al di là della strada.  E regolarmente si bucava. Provammo a risolvere il problema usando  il pallone di cuoio ricucito da un lato e cosparso di grasso animale. L’effetto  era  che il cuoio finiva per rovinarsi e consumarsi sul cemento e il grasso sporcava scarpe, vestiti, mani, gambe e tutto il resto. Si rientrava in casa completamente luridi e insudiciati. Non c’era l’uso frequente della doccia e il bagno in vasca  era programmato, in genere, per il sabato sera.  Al rientro nessun rimprovero da parte dei genitori,  per quanto quotidiano, poteva toglierci il piacere accumulato in quella mezz’ora di libertà, in quell’ovattato microcosmo che era lo spiazzale, ogni giorno.

Di quei momenti magici ricordo il profumo di mandarino che ci restava sulle  mani dopo pranzo per tanto tempo e che poi si mescolava in una fragranza di aromi con il sapore del grasso del pallone, intriso di terra e di polvere. Era un contatto diretto, reso ancor più unico dal cielo plumbeo, da quel freddo secco ma non lancinante che ti spingeva a muoverti, a correre. Era come se l’aria fosse impregnata di ineffabile sapidità, un misto di percezioni piacevoli oggi divenute struggente rimpianto.

La finestra della cucina della casa di via Quarnaro dava proprio sullo spiazzale. All’imbrunire, durante le serate estive, prima che la luce del giorno lasciasse spazio all’oscurità incombente, mentre erano in corso le nostre partite pomeridiane di calcio “a tre”, da quella finestra illuminata si spargeva per l’aria il profumo della cena: era un dolce e rassicurante richiamo, una sorta di segnale che preannunciava l’imminente abbandono nel batuffolo degli affetti familiari. Era quasi un rito la cena in tutto il borgo, perché gli odori che si spargevano nell’aria dalle finestre aperte creavano una specie di melodia, una musica meravigliosa fatta di straordinarie ed indicibili sensazioni. E’ difficile descrivere, narrando, quale fantastica commistione si creasse tra gli aromi delle pietanze pronte per essere servite sulle tavole apparecchiate e la fragranza degli effluvi presenti nella leggera brezza che s’alzava dal mare vicino, recando pungenti  sentori di salsedine.

In quel paradiso vivevamo, negli anni sessanta, noi di via Quarnaro.