mercoledì 9 agosto 2017

L'ABRUZZO CHE NON CONOSCI - TESORI NASCOSTI

Bolognano, provincia di Pescara. La cascata della Cisterna.  Quanti abruzzesi conoscono questa località, a pochi chilometri da Pescara e da Chieti, immersa in uno scenario da favola raggiungibile tramite un sentiero di facile percorribilità, ombreggiato e tranquillo?  Luogo ameno, che il letto del fiume rende paradisiaco quando incombe la calura estiva ed è possibile bagnarsi nell'acqua fresca e limpida che scorre con ritmo vivace tra il canto armonioso e quasi prepotente delle cicale. Il barista di Bolognano mi racconta che il paese è ormai quasi disabitato. Sono andati tutti via per cercare lavoro. Restano una quarantina di persone, sempre quelle, un Ufficio Postale, una Farmacia non sempre aperta, un turismo possibile, di grande potenzialità, ma oggi allo stato embrionale. Un luogo mirabile, che ho conosciuto dopo sessanta anni vissuti da abruzzese verace e residente. Perché io, come altri, ne ignoravo l'esistenza. Bisognerebbe far conoscere questi luoghi, parlarne con gli altri, pubblicizzarli nella provincia, nella regione, in Italia. A beneficio degli italiani e dei non italiani che vengono in Italia. A beneficio degli italiani che vanno all'estero a cercare i posti belli e che invece ce l'hanno dietro casa. Per chi vive a Giulianova, come me, a un'ora di macchina. Chi lo sapeva?

giovedì 3 agosto 2017

IL FIGLIO DELLA MAESTRA - RACCONTO VINCITORE DEL PREMIO GIAMMARIO SGATTONI 2017 "CORFINIO BARATTUCCI"

           L’erba brinata davanti all’uscio dell’aula di campagna, il freddo novembrino. Dentro, improvviso, l’odore acuto e pungente del legno dei banchi. Giornata di pioggia e di nevischio: il fango davanti alla porta, quando entriamo, si attacca alle scarpe e vi resta per tanto tempo, per tutta la mattina. Con gli occhi seguo i piccoli rivoli d’acqua che all’interno fuggono per terra e corrono, si inseguono sul pavimento dissestato e poi s’infiltrano tra le mattonelle umide e sconnesse.
Un timido calore emana dalla vecchia stufa a legna, di terracotta, giallastra e fumosa, vicina alla lavagna.
Miscuglio di percezioni diverse.
I grembiuli neri con i colletti bianchi ed i nastri azzurri. Le barrette di cotone bianco cucite sulle maniche o sul petto. Orizzontali o verticali. Una, due, tre, quelli di prima, di seconda, di terza. Oppure una verticale con una sgangherata V accanto. Sono quelli di quarta. Pochi. E ancor più pochi quelli di quinta. Ma qualcuno è senza grembiule, qualcuno ha le scarpe con il fondo aperto. Il viso sporco. Le mani sporche. Siamo in campagna. Io vedo, guardo, osservo, fisso nella memoria.
Una sola classe. Tutti insieme. Ci si alza in piedi per il “buon giorno” corale quando entra la maestra. Una sola maestra, cinque classi. Poi la preghiera. Sempre in piedi. Capisco, non capisco, una cantilena, ogni mattina è uguale, ogni mattina. Io non recito ma mi guardo intorno. Fisso ora l’uno ora l’altro. Loro mi sbirciano di tanto in tanto, ma non possono distrarsi, non possono. Io invece non ho l’età, io ascolto, incuriosito, cadenze e cantilene. Qualcuno a volte  non segue e si distrae. Va per conto suo, è in ritardo. E’ quasi sempre quello dell’ultimo banco. Mia madre dalla cattedra lo fissa, io mi giro per vedere. Lui smette di recitare, poi riprende, a voce più bassa, timido, volge gli occhi per terra.
L’appello. Io so i nomi, tutti, li ripeto nella mente ad uno ad uno prima che li dica mia madre, li distinguo e li riconosco, i maschi, le femmine. Sono seduto tra di loro, siamo tre o quattro in ogni banco di legno, io sto tutti i giorni in un posto diverso, ognuno vuole che sieda vicino a lui. Come fossi una mascotte, un giocattolo.
Presente… presente… presente… Cosa vuol dire, perché tutti i giorni, sempre uguale? Sempre uguale. Capisco, non capisco, ma è quella regolarità che mi dà  sicurezza, è un batuffolo di sensazioni note, non ho da temere, nulla di diverso può accadere, è il mio mondo, è la mia seconda casa, c’è mia madre, non devo imparare come gli altri, posso, se voglio, se non voglio non importa, non ho l’età, sono il figlio della maestra.
Scorrono le ore del mattino. La poesia a memoria, tutti recitano a turno, chiamati davanti alla cattedra, “O cavallina cavallina storna che portavi colui che non ritorna …  Io so. Ho imparato, ogni giorno ascoltando, quando loro non ricordano sarei capace di proseguire, ma non posso, devo stare in silenzio, fermo, al mio posto.
La ricreazione. Ognuno scarta qualcosa. Odori diversi, fragranze forti: fette di pane spesse ed unte, salsicce spalmate, formaggi. Un pezzo qua, un pezzo là, le briciole sui banchi. Tutti mi offrono. Guardo mia madre, un cenno, non posso, solo un pezzettino, solo da uno, poi basta. Sulla piastra della stufa il caffè della maestra, l’aroma che invade l’aula, un profumo quotidiano, amico, rassicurante.
Poi la voce calda di mia madre che parla, parla forte, nitida, poi velata, ovattata, lontana. Si perde. La mia testa si reclina sul banco e gli odori acri del legno e dell’inchiostro del calamaio penetrano nelle narici.
 Dormo, non dormo, sento un vocìo, un brusìo, poi più forte un richiamo a voce alta, mi sveglio, sonnicchio, ridormo, mi risveglio.
La lavagna, i disegni solo per quelli di “prima”, la casa, l’albero, il dado. La A, la B, tutte le riconosco, le leggo, saprei come scriverle, ma non devo, se non voglio non devo. Guardo, osservo, ma potrei non guardare, non osservare, non ho l’età, sono libero, sono il figlio della maestra…
L’aria è greve dentro l’aula ormai calda, troppo calda. I grembiuli neri odorano di fango e di campagna. Si lavano solo il sabato perché la domenica non c’è scuola.
Qualcuno non segue col dito la lettura, mio madre lo sgrida, io non vorrei, mi dispiace, è mio amico. La regola non perdona, l’ordine è rigido e rigoroso, nessuno è escluso, nessuno deve distrarsi, li chiama a sbalzo, li richiama subito dopo perché continuino a leggere di seguito, non possono alzare gli occhi dal libro. Mi sembra una tortura. Perché?
La bacchetta sulla cattedra. Severina la chiamano. Non la usa mia madre, non ne ha mai bisogno. Ma il fatto che stia lì mi incute grande timore. Temo per loro.

Vado direttamente in seconda classe. Non frequento la prima, so già leggere e scrivere, so contare fino a cento. Compagni nuovi, un’aula diversa, non siamo più in campagna, c’è un bidello, così viene chiamato, ma il suo vero nome è Pietro. Sembra severo, tutti in fila per due, bisogna tenersi per mano. Non conosco, ho molta ansia dentro, forse paura. Non sono più un privilegiato, regole uguali per tutti. Primo giorno, compagno di banco, Francesco, è profumato. Il banco è pulito, non c’è inchiostro nel calamaio, non useremo penne, solo matite e gomma. La maestra. E’ alta, ha gli occhiali, ha anche lei la bacchetta sulla cattedra, ma parla in modo dolce, come una mamma. I capelli raccolti a cipolla, un po’ bianchi e un po’ neri, scrive sulla lavagna, poi cancella, sale in cattedra, siede, si alza. Guardo tutto con attenzione, scruto ogni movimento, ne va della mia serenità. Devo capire. E’ buona, è cattiva, ha l’aria di una che perdona, ma meglio non rischiare. In piedi, la preghiera, ora devo recitare in coro con tutti, seguire, non posso distrarmi, non sono più uno che può fare o non fare.
Qualcosa sta cambiando. Si apre una nuova pagina, come nel sussidiario. Ora non ho più privilegi di sorta.
Il copiato, la lettura, dieci caramelle acquistate e quattro perse per strada, quanto fa, lo so, imparo a calcolarlo.
Le poesie di Rodari, il libro Cuore, gli eroi del Risorgimento, il dettato, il riassunto.
Per quanto tempo sono scolaro, per una folata di vento, apprensioni, paure, tutti comandano, chiedono, dolcemente, ma chiedono, bisogna rispondere, imparare, crescere.
Bisogna crescere.
  Devo imparare che la cavallina che portava colui che non ritorna può essere storia vera. Perché la felicità è effimera ed è vulnerabile dalla storia, dagli eventi, dal tempo che trascorre e scivola via come sabbia dalle dita…
Imparare che Severina è comunque la forza dei tiranni e dei dittatori, e che ogni ordine democratico si può ottenere anche con il dialogo e con giusta condivisione.

Quindici anni. Gli amoretti liceali.
Da adolescente inseguo i sogni. Il prodigio degli innamoramenti, gli sguardi d’intesa rubati dai banchi durante le lezioni, le mezze frasi fatte di parole importanti. Ascolto, la sera, nell’invulnerabile guscio della mia cameretta, le note di un disco, sempre quello, e volo via verso le impulsive illusioni giovanili, sempre turbato dalle mie incertezze.
Oggi sono per me lontane, antiche, ineffabili memorie:
la gita a Sorrento, la prima volta da solo con Annalisa. Domani sarò interrogato, poi c’è il tema in classe, non so cosa scrivere. Le ansie, le efferate delusioni, le vittorie e le sconfitte, le prime lacrime per amore. Come sarà nella vita, gioie e dolori che durano un attimo soltanto, un fantastico gioco di improvvise indecisioni e fulminanti batticuori.
Malori adolescenziali. Passare dalla mestizia sconsolata alla felicità schietta e incontrollata. Dall’una all’altra in un baleno, senza  alcun apparente riferimento a ciò che accade intorno.
 Giovane studente quindicenne, col cuore ebbro di vita, fuggo nel mio  microcosmo di miraggi e di lusinghe, allucinato dai colori e dalle luci che vedo intorno, dappertutto, ovunque volga lo sguardo.
Chi comprende le mie malinconie, quando la sera a tavola non parlo, quando non ho voglia di raccontare,  quando sorrido per compiacimento, eppure penso ad altro?
La dea dei quindici anni è bella e veste d’azzurro. A lei sorrido, seppure sempre turbato dalle irresolutezze dell’età, e inevitabilmente sedotto dai suoi incantamenti fuggo verso i fulminei bagliori che mi regala.
Adolescente, sessantottino (ma quanto presto sono diventato “grande”) contesto come gli altri, per cambiare le leggi, per modificare le regole, in nome della libertà, dell’emancipazione, dell’indipendenza.
Ma sono ancora, come gli altri, fragile dentro.
 Chiedo consensi e consigli, eppure non vorrei,  ho bisogno di sicurezze per i miei dubbi e di consolazione per il mio pianto.
Liceo, scuola di sogni, incertezze e turbamenti, di titubanze ed indecisioni, e di vagheggiamenti giovanili.

Ormai maggiorenne, scelte importanti, decisive, irreversibili. Il futuro, la carriera, la professione. Banchi ad anfiteatro. Compagni di Corso, non più di scuola, amicizie diverse, più eteree, di quelle che passano, che si ricorderanno a fatica, che non resteranno impresse nell’animo come marchi indelebili o come il profumo acre del legno dei banchi di un tempo.
Adesso i giochi sono fatti, è tracciata la via  maestra da percorrere fino in fondo.
Ora è tempo di affrontare la vita a viso aperto. Un modo diverso di approcciare gli eventi, la realtà che incombe in un contesto di progressiva immutabilità. Ora ho in mano tela e pennelli per dipingere in modo definitivo l’immagine del  mio futuro. A tinte fosche, o colorate e vivaci. Dipende dalla mia volontà, ma anche dalla sorte, dalle scelte, dal caso e dalla ventura.

“Quisque faber fortunae suae” sentenziava di continuo il prof al Liceo, quando l’ebbrezza giovanile, l’euforia e la spensieratezza di quegli anni offuscavano l’immagine del futuro, mostrandolo lontano, tanto lontano, e così remoto da sembrare proiettato in una dimensione irreale. Come se dovesse appartenere solo agli altri. Come se la gioventù avesse durata illimitata e fosse un nostro possesso inalterabile ed inespugnabile.
Oggi inutilmente vorrei rivivere il momento di qualche scelta del passato, modificare in dubbio qualche antica certezza, cambiare in certezza qualche vecchio dubbio. Forse il presente sarebbe diverso, in meglio o in peggio, nessuno potrà mai dire.
O forse siamo solo personaggi designati di un quadro già dipinto. Forse è già raffigurata dal destino la tela di ognuno e già scritta è per ciascuno la vicenda della propria vita.
Forse nessuno, per quanto possa fare, potrà mai cambiare i colori della tavolozza, né modificare l’ordito del disegno originario.
Ma alla fine sarà comunque il tempo a scrivere l’ultimo capitolo della storia.

Venti anni sui banchi di scuola e la vita che scorre a braccetto: oggi tante cose ho imparato: so che i poeti soffrono. Che la dea vestita d’azzurro all’improvviso scompare e non torna più. Che la  Cavallina storna è storia vera perché i padri possono morire all’improvviso. So che i compagni più cari possono ferirti, che i piccoli grandi amori puoi perderli  per strada e ti resta dentro la rabbia, e poi il rimpianto.

So che un mistero infinito incombe su di noi, e che non brilla sempre il sole  sulle illusioni  dell’adolescenza.
Ho imparato che quando diventi uomo trovi ostacoli posti dagli uomini: barriere, tranelli, trappole, insidie, cattiverie, inganni.
Perchè va via la giovinezza e ti lascia a poco a poco dentro un corpo che a te non pare più il tuo, ti aggiunge anno per anno il peso di un’età che sembrava appartenere solo agli altri, la canizie che mai avresti pensato di avere, una pelle diversa, e ti disegna con crudeltà rugosi ghirigori sul viso…
Così passò la mia giovinezza.
Allora scopri che la vera scuola è per sempre, e che sei ancora seduto nel tuo banco, perché sempre hai da imparare, prima dalla scuola, poi dalla vita.

Ma con il ricordo, se voglio,  in un momento di totale ed assoluta diserzione mentale, posso fuggire lontano.
Modellare la memoria, usando tela e pennello per rivivere una realtà di mio unico, personale  e prezioso possesso. E se per un attimo soltanto col pensiero fuggo lontano, rivedo al mio fianco Annalisa e tutti i miei compagni, e l’incanto degli anni di scuola che il ricordo incornicia nel più bello dei quadri d’autore che nessuno ora, davvero, può modificare.
 Con coraggioso cimento lascio spazio ad audaci fantasie e mi rifugio nel mio caro mondo antico:  solo il tempo di estraniarmi dal reale per poi tornare, inevitabilmente, nel reale.
Il tempo di tornare scolaro, e poi studente, il tempo di vivere ancora, libero come un gabbiano in cielo, mirabili e illusorie chimere, opponendo strenua difesa alla dura razionalità ed alle  fredde apostasie della mente.
Il tempo di subire ancora un ineffabile inganno.
Come quando sembrava tutto facile, possibile, concesso, lecito, non obbligatorio. Come quando ero libero di fare o  non fare, di dire o non dire, di imparare o non imparare.
Come quando nell’aula della scuola di campagna io ero il figlio della maestra.