martedì 31 marzo 2015

AL TRAMONTO

Io non so per quanto tempo ancora
ci sarà concesso di camminare a fianco
lungo questo sentiero impervio
che trae verso l’ignoto.

Avverrà che uno di noi due, un giorno,
nell’andare, diventi, suo malgrado,
di doloroso impaccio all’altro,
e che poi si arresti.

E l’altro dovrà da solo, nondimeno,
riprendere il cammino.

Io non so chi, né perché, né quando,
ma qualcuno ci dividerà.
E allora uno di noi, fatalmente,
diventerà per l’altro rimpianto struggente.

La memoria assorbirà il ricordo lentamente,
ma senza lasciarlo mai più svanire.

Io chiedo di non sopravviverti.
Ma se al tramonto tu non fossi più qui,
io ti seguirò nello stesso istante,
prima che la crudele notte sopraggiunga,
e il buio della tua assenza
mi avvolga per sempre.


venerdì 13 marzo 2015

LE VOCI DEL MARE

”Il mare non ha paese ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là, dove nasce e muore il sole..”

                           Come reso irreale dal silenzio, interrotto solo dal lento e ritmato riflusso dell’onda sugli scogli e dal planato volo dei gabbiani, alcuni a tratti quasi immobili nel cielo, il porto appariva, quella sera, simile ad un quadro d’autore, dipinto con cura, e tuttavia non concluso, forse perché l’ultimo  tocco di pennello, definendone in modo immutabile forme e contorni, avrebbe potuto alterarne la virtualità e la portata espressiva, ineffabili nella loro evanescenza.
Quasi per tener dietro ad un antico rituale anche quella sera, lentamente, i pescherecci volgevano le prue verso il lontano orizzonte, uno dietro l’altro, sollevando nell’acqua vortici di schiuma e riverberi sbiaditi dell’ultimo sole del giorno, immenso disco di fuoco che il Gran Sasso, a poco a poco, traeva a sé in un richiamo eterno e naturale.
Si allontanavano e scolorivano le luci del porto e, da bordo, Giulianova spariva in lontananza con le sue case, le voci, i colori della sera ormai tarda.
Vincenzo di solito restava a lungo con lo sguardo fisso in direzione del campanile del Santuario, ora illuminato per l’ormai prossima Festività del 22 aprile. Quello era il punto di riferimento che avrebbe potuto vedere ancora per un po’ di tempo mentre il peschereccio si allontanava in mare aperto. E questa sua peculiarità gli consentiva di avere, nei confronti dei compagni di viaggio e di lavoro, ormai già dediti alle incombenze di bordo, un intimo colloquio con la sua terra, col paese, con Lucia. Era questa l’ultima uscita in mare prima del matrimonio. Dopo il ritorno avrebbe prelevato in Banca quanto messo da parte in duri anni di sacrifici e di rinunce e avrebbe sposato Lucia.
- Quattro soldi Peppì - confidava mentre insieme preparavano le reti nelle ceste – ma per sposarsi bastano. Poi ci accontenteremo.-
-Un mestiere così è già molto se ti fa campare – sentenziava Tonino, il cuoco, e mentre il profumo delle sarde arrostite si mescolava a quello pungente della salsedine e delle gomene inzuppate d’acqua, Vincenzo rifletteva sull’immutabile realtà di quella vita, non diversa da quella vissuta da suo nonno e da suo padre, marinai, con famiglie e figli che avevano sempre avuto gli stessi problemi.
Questo pensiero, in parte, lo rincuorava, né del resto egli avrebbe mai potuto immaginare per sé occupazione diversa o altro lavoro che quello di marinaio.
Il mare, le sue voci, la fragranza asprigna della salsedine, quello spazio azzurro infinito che lo circondava , tutto gli era da sempre naturale, consueto, solito ed usuale, tutto da sempre era parte inscindibile della sua vita.
La brezza della sera, prima leggera e gradevole, s’era fatta, al sopravvenire della notte, prima più tesa, per poi trasformarsi, a poco a poco, in vento forte. Stava arrivando l’ennesima tempesta. Nel buio che ora avviluppava da ogni parte l’imbarcazione Vincenzo, come altre volte era capitato, individuava distintamente il bianco latteo e vorticoso delle onde. Ma gli parve, quella notte, come di udire nel vuoto l’eco di voci lontane, arcani e indefiniti, ma suggestivi richiami del mare. Anche il mugghiare delle onde gli sembrava quella notte diverso, sicchè si pose, per la prima volta, come non aveva mai fatto prima, neutrale e distaccato di fronte a tutto. Diventò un osservatore esterno. E mentre non v’era fenditura né pertugio ove il vento freddo non filtrasse, per uscirne poi sibilando, e mentre tra le alte onde il piccolo “Vincenzo Padre” era diventato poco più di un fuscello alla deriva in uno stagno, Vincenzo guardò fisso verso gli altri suoi tre compagni. Quando i lampi li illuminavano a giorno coglieva su quei volti scuri e grinzosi un’espressione rude ma mai impaurita, e li vedeva preoccupati, ma non disperati, sempre forti e tenaci, come le genti d’Abruzzo.
Le reti distrutte, gli ingenti danni alle imbarcazioni, la perdita totale del pescato, tutto era parte di una storia scritta da sempre, ogni volta riletta e mai ripudiata.
Vincenzo quella notte colse e valutò l’ineluttabilità di quella vita, la sua obiettiva imprevedibilità, ma anche il legame inestricabile che congiungendola a quegli uomini e alle loro famiglie ne avrebbe distrutto, se mai si fosse spezzato, l’esistenza.
Burrasche simili Vincenzo ne aveva viste e conosciute. Quella notte, però, aveva deciso di recitare una parte: voleva essere lì per caso, a guardare da fuori, a giudicare. Mentre egli stesso, non diversamente dagli altri lavorava freneticamente, vedeva  tutti correre, affannarsi, sfidare il mare, quel mare padrone, maestoso e forte, giudice di ogni evento, arbitro e sovrano della sorte di ognuno. Tutti correvano, bagnati, lerci, incappucciati, sotto le continue sferzate del vento gelido e delle onde, ma nessuno si chiedeva in cuor suo perché, quasi in ossequio ad un atavico istinto.
Vincenzo quella notte non era tra loro. Li udiva strillare, scambiarsi mezze frasi, mezze parole gridate più forte del vento, e poi udiva invocazioni, preghiere, maledizioni, bestemmie: contrasti di sensazioni e di sentimenti  da cui scaturiva forte la ferma determinazione a non cedere, a non sottostare alla terribile ira del mare di quella notte d’aprile.  
Si sarebbe sposato Vincenzo, e suo figlio si sarebbe chiamato Ezio, come suo padre. L’aveva sempre pensato perché così usava tra la gente di mare, tra i marinai ed i pescatori. E pensò a suo figlio quella notte d’aprile, a come mai avrebbe acconsentito a farne un marinaio, per non saperlo mai in balia delle onde, malvestito come lui, col maglione ruvido di lana e con i pantaloni sempre sudici e bagnati. E, tutto sommato, povero. Questi pensieri  gli vorticavano nella mente mentre guardava fisso la sua borsa con i manici di corda , inzuppata d’acqua, abbandonata in un angolo del ponte. Quella borsa che, pure, sarebbe ancora servita la prossima volta, e chissà per quante altre volte ancora.
L’alba ormai prossima tingeva l’orizzonte dei tenui colori di un mattino che ognuno, a bordo, prevedeva radioso.
Si parlava ora solo dei giorni futuri, di come e quando si sarebbe provveduto a rammendare le reti, a sistemare o a sostituire le scotte. Si azzardava una valutazione approssimativa dei danni subiti e si guardava dappertutto per essere certi che nessun attrezzo fosse diventato del tutto inutilizzabile al punto da rendere difficoltosa o addirittura impossibile la successiva uscita in mare.
S’era sopito, ora, quel mare. Il tumultuoso ruggito della notte s’era fatto prima lamento, poi amabile sussurro. Erano ormai chete le acque e l’aurora si stagliava sullo sfondo di un cielo allegrato dal volo maestoso dei gabbiani che seguivano il “Vincenzo Padre”, messaggeri essi stessi di nuova vita e di rinnovata serenità.
Vincenzo, sul ponte, aspettava ansioso il primo raggio  di sole: si tornava in porto.
- Per chi vive come noi – disse Giovanni – non dovrebbe mai essere mare brutto. Una notte sprecata, lontano da casa senza motivo, e senza guadagno..-
Vincenzo, sul ponte, aspettava ansioso il primo raggio di sole, mentre  si tornava in porto. Guardava le reti quasi completamente distrutte  e le sartie spezzate ed inservibili, mentre le pompe della sentina funzionavano senza interruzione per estrarre acqua dalla stiva allagata. Il porto, in lontananza, apparve a lui prima che agli altri, in un ovattato silenzio che ora regnava sovrano, mentre la prua del peschereccio fendeva il mare ancora grigio, ma ormai calmo. Solo qualche cresta d’onda, imbiancando, ricordava ancora i burrascosi vortici della notte.
Vincenzo pensò a Lucia quando ormai gli apparve nitida l’immagine del campanile del Santuario, la Chiesa nella quale la domenica successiva si sarebbe sposato. E pensò ad Ezio, suo figlio. L’avrebbero chiamato così, ne era certo. Poi, come aveva sempre fatto prima dell’attracco, ricompose la sua borsa di corda con ciò che restava di quanto s’era portato.
Era pace fatta col mare. Tutti ora a bordo parlavano tra loro e ridevano. Vincenzo pure era tornato se  stesso, elemento naturale di quella vita e di quel mondo. Ora, ravvedendosi, pensava che pure Ezio, se mai un giorno fosse nato per volere di Dio, sarebbe partito con la sua borsa di corda. Perchè era giusto così, e perchè quel mare era da sempre vero padre di tutti loro.
E capì, mentre il “Vincenzo Padre” superava l’imboccatura del porto per trovare in esso rifugio, come un bimbo cerca il seno della mamma, che pescatore e marinaio sarebbe stato suo figlio, come lo erano stati suo padre e suo nonno.
Perché il mare è unica fonte di sostentamento e di vita per chi, come lui, riesce ad amarlo e ad odiarlo in una notte sola.