mercoledì 9 agosto 2017

L'ABRUZZO CHE NON CONOSCI - TESORI NASCOSTI

Bolognano, provincia di Pescara. La cascata della Cisterna.  Quanti abruzzesi conoscono questa località, a pochi chilometri da Pescara e da Chieti, immersa in uno scenario da favola raggiungibile tramite un sentiero di facile percorribilità, ombreggiato e tranquillo?  Luogo ameno, che il letto del fiume rende paradisiaco quando incombe la calura estiva ed è possibile bagnarsi nell'acqua fresca e limpida che scorre con ritmo vivace tra il canto armonioso e quasi prepotente delle cicale. Il barista di Bolognano mi racconta che il paese è ormai quasi disabitato. Sono andati tutti via per cercare lavoro. Restano una quarantina di persone, sempre quelle, un Ufficio Postale, una Farmacia non sempre aperta, un turismo possibile, di grande potenzialità, ma oggi allo stato embrionale. Un luogo mirabile, che ho conosciuto dopo sessanta anni vissuti da abruzzese verace e residente. Perché io, come altri, ne ignoravo l'esistenza. Bisognerebbe far conoscere questi luoghi, parlarne con gli altri, pubblicizzarli nella provincia, nella regione, in Italia. A beneficio degli italiani e dei non italiani che vengono in Italia. A beneficio degli italiani che vanno all'estero a cercare i posti belli e che invece ce l'hanno dietro casa. Per chi vive a Giulianova, come me, a un'ora di macchina. Chi lo sapeva?

giovedì 3 agosto 2017

IL FIGLIO DELLA MAESTRA - RACCONTO VINCITORE DEL PREMIO GIAMMARIO SGATTONI 2017 "CORFINIO BARATTUCCI"

           L’erba brinata davanti all’uscio dell’aula di campagna, il freddo novembrino. Dentro, improvviso, l’odore acuto e pungente del legno dei banchi. Giornata di pioggia e di nevischio: il fango davanti alla porta, quando entriamo, si attacca alle scarpe e vi resta per tanto tempo, per tutta la mattina. Con gli occhi seguo i piccoli rivoli d’acqua che all’interno fuggono per terra e corrono, si inseguono sul pavimento dissestato e poi s’infiltrano tra le mattonelle umide e sconnesse.
Un timido calore emana dalla vecchia stufa a legna, di terracotta, giallastra e fumosa, vicina alla lavagna.
Miscuglio di percezioni diverse.
I grembiuli neri con i colletti bianchi ed i nastri azzurri. Le barrette di cotone bianco cucite sulle maniche o sul petto. Orizzontali o verticali. Una, due, tre, quelli di prima, di seconda, di terza. Oppure una verticale con una sgangherata V accanto. Sono quelli di quarta. Pochi. E ancor più pochi quelli di quinta. Ma qualcuno è senza grembiule, qualcuno ha le scarpe con il fondo aperto. Il viso sporco. Le mani sporche. Siamo in campagna. Io vedo, guardo, osservo, fisso nella memoria.
Una sola classe. Tutti insieme. Ci si alza in piedi per il “buon giorno” corale quando entra la maestra. Una sola maestra, cinque classi. Poi la preghiera. Sempre in piedi. Capisco, non capisco, una cantilena, ogni mattina è uguale, ogni mattina. Io non recito ma mi guardo intorno. Fisso ora l’uno ora l’altro. Loro mi sbirciano di tanto in tanto, ma non possono distrarsi, non possono. Io invece non ho l’età, io ascolto, incuriosito, cadenze e cantilene. Qualcuno a volte  non segue e si distrae. Va per conto suo, è in ritardo. E’ quasi sempre quello dell’ultimo banco. Mia madre dalla cattedra lo fissa, io mi giro per vedere. Lui smette di recitare, poi riprende, a voce più bassa, timido, volge gli occhi per terra.
L’appello. Io so i nomi, tutti, li ripeto nella mente ad uno ad uno prima che li dica mia madre, li distinguo e li riconosco, i maschi, le femmine. Sono seduto tra di loro, siamo tre o quattro in ogni banco di legno, io sto tutti i giorni in un posto diverso, ognuno vuole che sieda vicino a lui. Come fossi una mascotte, un giocattolo.
Presente… presente… presente… Cosa vuol dire, perché tutti i giorni, sempre uguale? Sempre uguale. Capisco, non capisco, ma è quella regolarità che mi dà  sicurezza, è un batuffolo di sensazioni note, non ho da temere, nulla di diverso può accadere, è il mio mondo, è la mia seconda casa, c’è mia madre, non devo imparare come gli altri, posso, se voglio, se non voglio non importa, non ho l’età, sono il figlio della maestra.
Scorrono le ore del mattino. La poesia a memoria, tutti recitano a turno, chiamati davanti alla cattedra, “O cavallina cavallina storna che portavi colui che non ritorna …  Io so. Ho imparato, ogni giorno ascoltando, quando loro non ricordano sarei capace di proseguire, ma non posso, devo stare in silenzio, fermo, al mio posto.
La ricreazione. Ognuno scarta qualcosa. Odori diversi, fragranze forti: fette di pane spesse ed unte, salsicce spalmate, formaggi. Un pezzo qua, un pezzo là, le briciole sui banchi. Tutti mi offrono. Guardo mia madre, un cenno, non posso, solo un pezzettino, solo da uno, poi basta. Sulla piastra della stufa il caffè della maestra, l’aroma che invade l’aula, un profumo quotidiano, amico, rassicurante.
Poi la voce calda di mia madre che parla, parla forte, nitida, poi velata, ovattata, lontana. Si perde. La mia testa si reclina sul banco e gli odori acri del legno e dell’inchiostro del calamaio penetrano nelle narici.
 Dormo, non dormo, sento un vocìo, un brusìo, poi più forte un richiamo a voce alta, mi sveglio, sonnicchio, ridormo, mi risveglio.
La lavagna, i disegni solo per quelli di “prima”, la casa, l’albero, il dado. La A, la B, tutte le riconosco, le leggo, saprei come scriverle, ma non devo, se non voglio non devo. Guardo, osservo, ma potrei non guardare, non osservare, non ho l’età, sono libero, sono il figlio della maestra…
L’aria è greve dentro l’aula ormai calda, troppo calda. I grembiuli neri odorano di fango e di campagna. Si lavano solo il sabato perché la domenica non c’è scuola.
Qualcuno non segue col dito la lettura, mio madre lo sgrida, io non vorrei, mi dispiace, è mio amico. La regola non perdona, l’ordine è rigido e rigoroso, nessuno è escluso, nessuno deve distrarsi, li chiama a sbalzo, li richiama subito dopo perché continuino a leggere di seguito, non possono alzare gli occhi dal libro. Mi sembra una tortura. Perché?
La bacchetta sulla cattedra. Severina la chiamano. Non la usa mia madre, non ne ha mai bisogno. Ma il fatto che stia lì mi incute grande timore. Temo per loro.

Vado direttamente in seconda classe. Non frequento la prima, so già leggere e scrivere, so contare fino a cento. Compagni nuovi, un’aula diversa, non siamo più in campagna, c’è un bidello, così viene chiamato, ma il suo vero nome è Pietro. Sembra severo, tutti in fila per due, bisogna tenersi per mano. Non conosco, ho molta ansia dentro, forse paura. Non sono più un privilegiato, regole uguali per tutti. Primo giorno, compagno di banco, Francesco, è profumato. Il banco è pulito, non c’è inchiostro nel calamaio, non useremo penne, solo matite e gomma. La maestra. E’ alta, ha gli occhiali, ha anche lei la bacchetta sulla cattedra, ma parla in modo dolce, come una mamma. I capelli raccolti a cipolla, un po’ bianchi e un po’ neri, scrive sulla lavagna, poi cancella, sale in cattedra, siede, si alza. Guardo tutto con attenzione, scruto ogni movimento, ne va della mia serenità. Devo capire. E’ buona, è cattiva, ha l’aria di una che perdona, ma meglio non rischiare. In piedi, la preghiera, ora devo recitare in coro con tutti, seguire, non posso distrarmi, non sono più uno che può fare o non fare.
Qualcosa sta cambiando. Si apre una nuova pagina, come nel sussidiario. Ora non ho più privilegi di sorta.
Il copiato, la lettura, dieci caramelle acquistate e quattro perse per strada, quanto fa, lo so, imparo a calcolarlo.
Le poesie di Rodari, il libro Cuore, gli eroi del Risorgimento, il dettato, il riassunto.
Per quanto tempo sono scolaro, per una folata di vento, apprensioni, paure, tutti comandano, chiedono, dolcemente, ma chiedono, bisogna rispondere, imparare, crescere.
Bisogna crescere.
  Devo imparare che la cavallina che portava colui che non ritorna può essere storia vera. Perché la felicità è effimera ed è vulnerabile dalla storia, dagli eventi, dal tempo che trascorre e scivola via come sabbia dalle dita…
Imparare che Severina è comunque la forza dei tiranni e dei dittatori, e che ogni ordine democratico si può ottenere anche con il dialogo e con giusta condivisione.

Quindici anni. Gli amoretti liceali.
Da adolescente inseguo i sogni. Il prodigio degli innamoramenti, gli sguardi d’intesa rubati dai banchi durante le lezioni, le mezze frasi fatte di parole importanti. Ascolto, la sera, nell’invulnerabile guscio della mia cameretta, le note di un disco, sempre quello, e volo via verso le impulsive illusioni giovanili, sempre turbato dalle mie incertezze.
Oggi sono per me lontane, antiche, ineffabili memorie:
la gita a Sorrento, la prima volta da solo con Annalisa. Domani sarò interrogato, poi c’è il tema in classe, non so cosa scrivere. Le ansie, le efferate delusioni, le vittorie e le sconfitte, le prime lacrime per amore. Come sarà nella vita, gioie e dolori che durano un attimo soltanto, un fantastico gioco di improvvise indecisioni e fulminanti batticuori.
Malori adolescenziali. Passare dalla mestizia sconsolata alla felicità schietta e incontrollata. Dall’una all’altra in un baleno, senza  alcun apparente riferimento a ciò che accade intorno.
 Giovane studente quindicenne, col cuore ebbro di vita, fuggo nel mio  microcosmo di miraggi e di lusinghe, allucinato dai colori e dalle luci che vedo intorno, dappertutto, ovunque volga lo sguardo.
Chi comprende le mie malinconie, quando la sera a tavola non parlo, quando non ho voglia di raccontare,  quando sorrido per compiacimento, eppure penso ad altro?
La dea dei quindici anni è bella e veste d’azzurro. A lei sorrido, seppure sempre turbato dalle irresolutezze dell’età, e inevitabilmente sedotto dai suoi incantamenti fuggo verso i fulminei bagliori che mi regala.
Adolescente, sessantottino (ma quanto presto sono diventato “grande”) contesto come gli altri, per cambiare le leggi, per modificare le regole, in nome della libertà, dell’emancipazione, dell’indipendenza.
Ma sono ancora, come gli altri, fragile dentro.
 Chiedo consensi e consigli, eppure non vorrei,  ho bisogno di sicurezze per i miei dubbi e di consolazione per il mio pianto.
Liceo, scuola di sogni, incertezze e turbamenti, di titubanze ed indecisioni, e di vagheggiamenti giovanili.

Ormai maggiorenne, scelte importanti, decisive, irreversibili. Il futuro, la carriera, la professione. Banchi ad anfiteatro. Compagni di Corso, non più di scuola, amicizie diverse, più eteree, di quelle che passano, che si ricorderanno a fatica, che non resteranno impresse nell’animo come marchi indelebili o come il profumo acre del legno dei banchi di un tempo.
Adesso i giochi sono fatti, è tracciata la via  maestra da percorrere fino in fondo.
Ora è tempo di affrontare la vita a viso aperto. Un modo diverso di approcciare gli eventi, la realtà che incombe in un contesto di progressiva immutabilità. Ora ho in mano tela e pennelli per dipingere in modo definitivo l’immagine del  mio futuro. A tinte fosche, o colorate e vivaci. Dipende dalla mia volontà, ma anche dalla sorte, dalle scelte, dal caso e dalla ventura.

“Quisque faber fortunae suae” sentenziava di continuo il prof al Liceo, quando l’ebbrezza giovanile, l’euforia e la spensieratezza di quegli anni offuscavano l’immagine del futuro, mostrandolo lontano, tanto lontano, e così remoto da sembrare proiettato in una dimensione irreale. Come se dovesse appartenere solo agli altri. Come se la gioventù avesse durata illimitata e fosse un nostro possesso inalterabile ed inespugnabile.
Oggi inutilmente vorrei rivivere il momento di qualche scelta del passato, modificare in dubbio qualche antica certezza, cambiare in certezza qualche vecchio dubbio. Forse il presente sarebbe diverso, in meglio o in peggio, nessuno potrà mai dire.
O forse siamo solo personaggi designati di un quadro già dipinto. Forse è già raffigurata dal destino la tela di ognuno e già scritta è per ciascuno la vicenda della propria vita.
Forse nessuno, per quanto possa fare, potrà mai cambiare i colori della tavolozza, né modificare l’ordito del disegno originario.
Ma alla fine sarà comunque il tempo a scrivere l’ultimo capitolo della storia.

Venti anni sui banchi di scuola e la vita che scorre a braccetto: oggi tante cose ho imparato: so che i poeti soffrono. Che la dea vestita d’azzurro all’improvviso scompare e non torna più. Che la  Cavallina storna è storia vera perché i padri possono morire all’improvviso. So che i compagni più cari possono ferirti, che i piccoli grandi amori puoi perderli  per strada e ti resta dentro la rabbia, e poi il rimpianto.

So che un mistero infinito incombe su di noi, e che non brilla sempre il sole  sulle illusioni  dell’adolescenza.
Ho imparato che quando diventi uomo trovi ostacoli posti dagli uomini: barriere, tranelli, trappole, insidie, cattiverie, inganni.
Perchè va via la giovinezza e ti lascia a poco a poco dentro un corpo che a te non pare più il tuo, ti aggiunge anno per anno il peso di un’età che sembrava appartenere solo agli altri, la canizie che mai avresti pensato di avere, una pelle diversa, e ti disegna con crudeltà rugosi ghirigori sul viso…
Così passò la mia giovinezza.
Allora scopri che la vera scuola è per sempre, e che sei ancora seduto nel tuo banco, perché sempre hai da imparare, prima dalla scuola, poi dalla vita.

Ma con il ricordo, se voglio,  in un momento di totale ed assoluta diserzione mentale, posso fuggire lontano.
Modellare la memoria, usando tela e pennello per rivivere una realtà di mio unico, personale  e prezioso possesso. E se per un attimo soltanto col pensiero fuggo lontano, rivedo al mio fianco Annalisa e tutti i miei compagni, e l’incanto degli anni di scuola che il ricordo incornicia nel più bello dei quadri d’autore che nessuno ora, davvero, può modificare.
 Con coraggioso cimento lascio spazio ad audaci fantasie e mi rifugio nel mio caro mondo antico:  solo il tempo di estraniarmi dal reale per poi tornare, inevitabilmente, nel reale.
Il tempo di tornare scolaro, e poi studente, il tempo di vivere ancora, libero come un gabbiano in cielo, mirabili e illusorie chimere, opponendo strenua difesa alla dura razionalità ed alle  fredde apostasie della mente.
Il tempo di subire ancora un ineffabile inganno.
Come quando sembrava tutto facile, possibile, concesso, lecito, non obbligatorio. Come quando ero libero di fare o  non fare, di dire o non dire, di imparare o non imparare.
Come quando nell’aula della scuola di campagna io ero il figlio della maestra.


giovedì 20 aprile 2017

QUEL LONTANO GIORNO DEL 1982 - Così nacque la Rivista “Madonna dello Splendore” -


Ritengo un gran privilegio aver conosciuto Pierino Santomo ed aver collaborato con lui per tanti anni. Persona di incondizionata disponibilità e di infinita bontà d’animo in ogni circostanza ed in ogni situazione, Pierino si accostava alla cultura con l’atteggiamento di colui che desidera conoscere, sapere, essere edotto ed informato su ogni cosa, senza mai eccedere nel giudizio e nelle valutazioni. Questa peculiare curiosità, evidente tratto di non comune perspicacia, gli permetteva di accostarsi da spettatore privilegiato a qualsivoglia forma di arte o di esternazione intellettuale, soprattutto alla scrittura ed alle arti figurative. Sempre schivo davanti ad ogni forma di coinvolgimento mediatico, preferiva starsene dietro le quinte e ripudiava le luci della ribalta. Queste doti andavano a sommarsi al suo carattere nobile e generoso , mai egoista, e rendevano amabile la sua compagnia nei molti momenti durante i quali discorrevamo e progettavamo iniziative editoriali.
Grande appassionato di fotografia, lui stesso fotografo-artista, non mancava di arricchire quotidianamente la doviziosa collezione di rarissime immagini d’epoca  del suo importante archivio personale, dal quale traeva, all’occorrenza, documenti preziosi del passato, vere eccellenze che giustamente custodiva come suoi pregiati cimeli.
Ho avuto più di una volta il modo e la fortuna di intrattenermi con lui nel suo studio per lungo tempo a spulciare in quel meraviglioso forziere del passato, traendone emozioni forti e rivivendo storie e personaggi della Giulianova di un tempo. Spesso, quando avvertiva il mio interesse particolare per qualche immagine rara, mi gratificava con un generoso “ se ti piace prendila pure…” a cui rispondevo sempre con diniego, non fosse altro che perché sapevo bene quanto avesse a cuore quei documenti. Ma la sua offerta era sempre sincera e la sua generosità andava oltre qualsiasi altra ragione che potesse porsi ad impedimento. 
Avevamo già collaborato in diverse iniziative, amalgamando le sue foto antiche e moderne con i testi che io scrivevo e creando suggestive commistioni editoriali delle quali andavamo fieri.
Un giorno, durante uno dei soliti appuntamenti che amava fissare presso il Bar dei Baroni, da lui considerato a giusta ragione luogo ideale per i nostri incontri letterari - ai quali si presentava peraltro sempre con qualche bottiglia di liquore o qualche barattolo di marmellata che amava produrre in modo artigianale in casa - mi parlò di un ennesimo e coraggioso progetto editoriale che aveva in mente ed al quale teneva moltissimo. Mi disse che avremmo dovuto subito lavorarci sopra per impiantare un piano esecutivo e dare corpo al disegno e che avremmo dovuto essere pronti per la Festa del 22 aprile 1982, alla quale mancavano pochi mesi.
Un progetto ambizioso, atteso soprattutto il breve tempo a nostra disposizione. Ma eravamo molto determinati ed io e lui sapevamo bene che comunque, come altre volte era accaduto in passato, saremmo riusciti ad arrivare alla meta. Con la preziosa collaborazione e con il benestare di Mario Orsini, allora Presidente del Comitato dei Festeggiamenti in onore di Maria SS. dello Splendore, e con il favorevole parere dei componenti il Comitato, Roberto Bianchi, Luigi Poliandri e Nicola Ridolfi,  stendemmo un canovaccio ed un piano d’opera: l’intenzione era quella di stampare una Rivista che raccontasse la Festa, che aprisse un sipario sul passato e sulla tradizione e che fosse, insomma, una guida storica e fotografica dell’avvenimento religioso più importante di Giulianova.  Lo spunto era partito dall’idea di far rivivere, in qualche modo, il periodico “Maria SS. Dello Splendore” che, nel passato, a partire dal 1950,  i P.P. Cappuccini di Giulianova pubblicavano con cadenza mensile.
Per mettere su l’ordito del nostro opuscolo occorrevano, naturalmente, collaboratori per testi, foto e disegni. Dall’archivio di Pierino avremmo potuto attingere a piene mani ed infatti scegliemmo, tra l’altro, per l’occasione, una rara riproduzione di un manifesto originale nel quale si riportava il programma dei festeggiamenti del 1958 che prevedeva, oltre ad altre iniziative, il lunedì 21 la famosa “Corsa di cavalli con fantino” e la sera del martedì 22 la “Tombola di lire mezzo milione”.
Interventi del Vescovo Abele Conigli,  del Sac. Alberto Di Pietro, di Padre Candido Donatelli, di Padre Antonio, del Sindaco Franco Gerardini e del prof. E. Lombardi avrebbero completato le scritture del modesto libello che andavamo a realizzare. La prima di copertina a colori raffigurante l’albero con la Madonna e Bertolino, la quarta di copertina recante una rarissima incisione del 1850, sempre raffigurante il medesimo soggetto, avrebbero racchiuso i testi. Una sola pagina di pubblicità.
Per via del poco tempo a disposizione, lunga e tormentosa fu la fase di assemblaggio dei testi, oneroso seguire le varie tappe della stampa, la correzione delle bozze, l’impaginazione, sebbene si trattasse di una pubblicazione di sole 10 pagine. Nonostante tutto arrivammo a vedere stampato il primo numero di quel periodico - che lunghissima vita e tanta fortuna avrebbe avuto in futuro - qualche giorno prima del 22 aprile con nostra somma soddisfazione.
Ad onor del vero devo dire che fui, all’epoca, cattivo profeta. Basandomi sul ripetuto fallimento di iniziative consimili avevo più volte messo in guardia Pierino pronosticandogli la breve durata che, a mio avviso, avrebbe avuto la nostra proposta editoriale. Nel tempo l’aumento delle spese, la difficoltà a reperire collaboratori (fenomeno opposto a quello che si pone oggi), il non facile lavoro di preparazione e di allestimento, la necessità di istituire una raccolta pubblicitaria per finanziare la stampa, secondo le mie previsioni avrebbero presto posto fine alla vita del periodico.
In realtà le cose sarebbero andate, invece, in modo completamente diverso.
Col passare degli anni la “Rivista” andò crescendo in modo esponenziale. Aumentarono gradatamente il numero delle pagine e quello dei collaboratori, gli argomenti trattati diventarono a poco a poco sempre più importanti,  i contenuti sempre più ricchi di inediti fatti storici, documentati spesso da rare foto e da preziose immagini del passato.  Presto Pierino avvertì l’esigenza di dare lustro alla pubblicazione presentandola in modo “ufficiale” alla vigilia della Festa, nel corso di una serata dedicata, alla quale avrebbero preso parte collaboratori e simpatizzanti, e chiunque avesse voluto essere presente per approfondire temi ed argomenti trattati, in presenza degli autori. Un’altra idea geniale che avrebbe ottenuto nel tempo successo e unanimi consensi. Proprio durante una di queste presentazioni a giusta ragione Sandro Galantini propose di abbandonare il termine “Rivista” - palesemente riduttivo a fronte del sontuoso bagaglio di ricerche storiche di cui era ormai ricco il periodico -  nel più consono termine di “Annuario”.
 I primi timidi passi compiuti dal modesto libello nato nel 1982 sarebbero così diventati, col trascorrere degli anni, passi da gigante.
Attualmente affidato alla supervisione della dott.ssa Cinzia Falini, che svolge la delicata funzione di generale coordinamento della pubblicazione, avocando a sé tutta le diverse fasi dell’organizzazione editoriale, oggi l’Annuario “Madonna dello Splendore” ha compiuto  trentasei anni di vita, durante i quali ha avuto un percorso di continua escalation, tanto da rappresentare un prezioso raccoglitore di memorie storiche di Giulianova e del suo circondario, con approfondite analisi e ricerche su personaggi, fatti, eventi del passato, il tutto rivisitato attraverso attenti studi ricchi di prove documentali e di rare immagini d’epoca.
Pierino Santomo ha vissuto tempo per tempo con orgoglio, ma con altrettanta modestia, le magnifiche sorti e progressive del suo originario progetto editoriale.
Purtroppo, però, il destino non gli avrebbe consentito di vedere crescere e maturare la sua creatura ancora per lungo tempo.
Negli ultimi anni di vita, sempre più costretto a disertare per motivi di salute i nostri incontri redazionali, affetto da malanno che non gli consentiva più di leggere bene, accentuò sempre più la sua innata  riservatezza, allontanandosi a poco a poco da tutti, e mostrando di voler vivere la propria intimità all’interno del suo amato studio, accanto ai cari libri ed al  ricchissimo patrimonio fotografico.
 Per tale palesata esigenza, peraltro connaturata al suo carattere schivo e discreto, io stesso  deliberatamente evitai, alla fine, di intromettermi inopportunamente nel microcosmo della sua desiderata solitudine, lasciandogli tutta la libertà di scegliere e di decidere.
Perché io sapevo che quello era il suo fermo desiderio.
Così, all’improvviso, non ci vedemmo più fino al giorno della sua scomparsa.
Mi resta dentro il ricordo di un amico semplice e buono, sempre cordiale e sorridente, amante dell’arte in ogni sua espressione, una persona di un’umanità sconcertante.
Mi resta dentro un vuoto infinito.


mercoledì 11 gennaio 2017

MILLANTARE IL PASSATO


Col trascorrere degli anni e col passare del tempo molti eventi trascorsi si avvolgono in un velo di dimenticanza e di oblio, soprattutto se si tratta di fatti che riguardano gli altri, ancor più se gli altri sono amici o conoscenti persi di vista da lunga data. Molti ricordi si affievoliscono e finiscono in una remota area della mente dalla quale solo accadimenti improvvisi possono richiamarli. Questa legge naturale consente a qualcuno di manipolare il proprio passato a proprio uso e consumo, rimodellandolo e trasformandolo da come è stato realmente a come egli avrebbe voluto che fosse. Durante una cena di rappresentanza ho incontrato un vecchio compagno di Liceo prima, e di Università dopo,  sparito dalla circolazione da lungo tempo perché trasferitosi in altra città dopo la Laurea (mia, perché la sua tardò ad arrivare...).
Sedeva non lontano dal mio tavolo, in compagnia di altri suoi amici ed amiche. La posizione delle nostre sedie era tale che io, potendo comodamente vederlo,  ho avuto agio di riconoscerlo. Lui, coperto da una colonna e da una grossa pianta, non poteva sapere che io ero lì.
Ho sentito, poi maleducatamente ascoltato, quello che andava narrando, guarda caso, proprio della sua carriera scolastica. La presumibile conoscenza superficiale dei suoi commensali gli consentiva di sparare a zero sulle vicende del suo passato studentesco, amplificandone la portata e inventando clamorosi successi mai conseguiti. La potenza millantatrice del suo racconto ha toccato vertici inauditi quando ha descritto in modo apoteotico e trionfale la sequenza degli esami universitari, costellati di successi e di trenta e lode consecutivi,  non documentabili in quella sede, ma neanche confutabili, sublimati in un grandioso finale con esame conclusivo coronato da un prevedibile e mai ottenuto 110 e lode (senza bacio accademico, forse per modestia).
Lo spirito goliardico che un tempo ci univa e ci animava ha avuto il sopravvento e alla fine ho considerato questa sua esibizione una sorta di sceneggiata fine a se stessa, intavolata per bene apparire di fronte agli altri, chissà per quale diabolico fine, o forse solo per amore di teatralità. Ma il mio ricordo non poteva che ripercorrere passo passo, durante la sua narrazione, le vera carriera universitaria da lui realmente vissuta al mio fianco e infarcita dei suoi ripetuti e malaugurati insuccessi.
Oggi professionista, magari pure bravo ed affermato, ha la possibilità di ricostruire il suo passato a proprio uso e consumo, abbacinando chi non lo conosce e poggiando la realtà di oggi su fasulle fondamenta di ieri.
 Ma forse tutto ciò poco conta. Forse davvero chi ha capacità istrioniche vale più di chi nasconde i propri trascorsi meriti dietro una falsa ed ipocrita modestia. Per rispetto della sua persona e per evitargli la classica "brutta figura" ho evitato di farmi vedere, restando nascosto dietro la colonna e dietro la pianta. Ma avrei avuto tanta voglia di riabbracciarlo.
 Magari per dirgli che non ricordavo nulla del nostro passato universitario. O che lo ricordavo completamente diverso...