venerdì 17 settembre 2010

SCUOLA DI CAMPAGNA (Premio speciale della Giuria al Concorso Letterario "Il Faro" anno 2010)

Il primo impatto, entrando in aula, quei freddi mattini d’inverno, era con l’aria greve e fumosa, mescolata all’olezzo acre delle cartelle di cuoio e al sapore  dolciastro del legno dei banchi che ti entrava dentro come  una cara abitudine, come se nessun’altra realtà fosse mai stata possibile. Era la consueta routine di ogni giorno e tutto faceva parte di quel quadro che non poteva avere colorazioni o sfumature diverse. Si accedeva dalla soglia erbosa, d’inverno fango e poltiglia, sul pavimento di mattoni sconnessi. Subito, a destra la lavagna coi gessi e la pezzuola, poi la stufa di terracotta, e i ceppi di legna da ardere, rigorosamente gestiti dalla maestra, con sapiente moderazione. L’unica lampadina, al centro della stanza, lurida di polvere, collegata ad un interruttore di ceramica attraverso un filo di rame rivestito di stoffa ed intrecciato, visibile, fissato al muro con i chiodini.

Non avevo ancora sei anni e non ero scolaro, ma figlio della maestra. Un po’ la mascotte di tutti quei miei primi amici d’infanzia che mi volevano accanto a loro, su quei banchi intrisi di un miscuglio di odori, prevalenti uno sull’altro in modo imprevedibile, casuale. Formaggio, mortadella, salame,  accuratamente approntati tra due fette di pane casereccio, di quello cotto nei forni a legna della campagna, vera regina di quella fantasmagoria di sensazioni. La campagna umida e fredda d’ottobre  e poi miracolosamente illuminata dai colori e dai profumi della primavera e inesorabilmente soffocata dal caldo dei  primi, eppure torridi, giorni di giugno, quando la scuola stava per chiudere.

La scuola di campagna. Una stanza piccola. Dieci banchi di legno per venti scolari  avvolti nel nero dei grembiuli sporchi, coi colletti bianchi sgualciti e i fiocchi azzurri  sempre liberi e sciolti. Sotto i banchi le cartelle di cartone pressato, qualcuna di cuoio. Sui banchi i calamai pieni a metà di inchiostro bleu scuro e le carte assorbenti sempre macchiate. I pennini spuntati. Sulla cattedra la bacchetta di legno per i “cattivi”.
Non ho l’età per essere in ”prima”. Ma da tre anni seguo la maestra perché a casa non c’è nessuno e non sa a chi lasciarmi. So leggere e scrivere da due anni, ne so più io che il primo della classe.
La voce di mia madre, stentorea e ferma, eppure materna: quelli di prima e di seconda prendano il quaderno a quadretti, quelli di terza preparino il libro di lettura, quelli di quarta e quinta ripassino la poesia, ma  a bassa voce,  senza disturbare. E io? Ascolto, guardo,  aste, cerchietti con la matita sul “mio” quaderno. Ma so scrivere già  come gli altri e quella poesia, a sentirla tanto, ogni giorno, l’ho imparata anch’io a memoria. “O cavallina cavallina storna che portavi colui che non ritorna….” So io come andare avanti ora che lui non ricorda… Vorrei , ma non posso. Ho l’obbligo di non disturbare durante le lezioni. Devo fare le aste, o posso colorare. Ma mi piace guardare le figure del sussidiario. Solo la pagina aperta sul banco, non posso toccare, ma per conto mio leggo. Qualche parola mi pare di capire,  il resto non so, leggo ma non capisco. Dura poco. Mi distrae la figura di mia madre alla lavagna. Il gesso sibila, lei lo spezza. Il suo grembiule nero diventa un po’ bianco, come quando la domenica mia nonna si sporca di farina quando lavora la massa per la pasta. Che buffa mia mamma, sembra cattiva con i bambini della classe perché ha la voce forte ed imperiosa. Con me, a casa è più buona.

Vorrei assaggiare uno dei confetti che le ha portato stamattina Michele del terzo banco, stringendoli nella mano nera di polvere e di terra. Sono quasi neri, e bagnati di sudore. Mia madre ringrazia, gli dà un bacio, lo accarezza. Ripone i confetti nel cassetto della cattedra. Io chiedo, piango, strillo. No, mi guarda in modo definitivo. No. Perché non vuole che io ne prenda uno? A casa è più buona. Qui comanda tutti e nessuno piange, nessuno protesta. Parlano piano tra loro, temono, nessuno sbuffa. Io sì, e loro ridono in modo sommesso.

Dalla piastra della vecchia stufa si spande per l’aria l’ennesimo aroma. E’ il caffè per la maestra che giunge a bollore nella piccola caffettiera. Ora si mangia. Tutti mi offrono piccole porzioni delle loro riserve scartate dai  fogli di giornale  e per l’aria si spande un effluvio di olezzi che  impregna ogni più recondito  angolo. Qualche quaderno s’imbratta inesorabilmente e richiede un immediato intervento. Si strappa un foglio, in gran segreto, perché la maestra non sappia. Io vedo, capisco, guardo verso mia madre che non ha visto, o forse sì, ha capito, ha finto di non vedere. Dalla stufa esce fumo, dalla finestra appena socchiusa giunge il sapore schietto della brezza autunnale, intriso del profumo della terra,  resa umida dal lento piovigginare. E giunge qualche suono dalla strada bianca sulla quale transita cigolando un carro trinato dai buoi. Poi il secco rumore della finestra che si chiude interrompe bruscamente quel suggestivo intervallo di sensazioni.

Ora cadenzate e lente giungono le parole della maestra  seduta in cattedra. Parla, parla, quella voce si fa più debole, più lontana, poi si dissolve, poi ricompare, lenta, confusa, distante, poi di nuovo scompare. Col capo reclino sul banco respiro il profumo forte del legno che sa d’inchiostro e di grafite, del sapore dolce dell’attaccatutto con cui a casa ripariamo i soldatini di piombo, della plastica dei miei giocattoli riposti nella scatola di cartone, vicino al mio letto. Colori, luci, tratti dalla tavolozza dei miei sogni infantili. Mi sveglia per un attimo un cane che abbaia, o l’improvvisa voce della maestra che interrompe l’uniformità  del tono per richiamare qualcuno che non ascolta, o che parla  piano, o che non segue. Io no, posso dormire, ascoltare, o non ascoltare, scrivere o non scrivere, colorare o non colorare. Che posizione di gran privilegio rispetto agli altri. Perché? Perché la maestra è mia madre. Ho qualcosa in più degli altri, una libertà che mi invidiano, un potere che nessuno osa contrastare.

Sulle pareti di bianco sporco,  quelle tabelle  consunte, appese una accanto all’altra. C di cane, D di dado…..F di foglia…ripetono  in coro quelli di “prima” . Acqua passata, per me, mi annoio a sentirli, ormai riconosco bene figure e lettere. Mi appassiona di più la storia di quel tale che bruciò la sua mano perché aveva fallito il colpo, o di quell’altro che fu rotolato da una rupe, dentro una botte irta di chiodi. Ascolto,  memorizzo, imparo. Tutto senza fatica, senza ansia. Per me non esiste rimprovero, non c’è punizione. All’occorrenza la maestra torna ad essere mamma , non ho l’obbligo di apprendere, ogni  informazione è registrata quasi a livello inconscio, ma accresce, nondimeno, la mia conoscenza.

Oggi è primavera, oltre l’uscio della piccola stanza la campagna, al di là della strada bianca, è impregnata di aromi e di mille fragranze. Entra il  padre di uno degli scolari e chiede  a mia madre il permesso di portarmi fuori, su un carro pieno d’erba falciata di fresco, trainato dai buoi. Mi lega sul capo un fazzoletto annodato ai quattro angoli. Poi il profumo forte di quell’erba mi penetra dentro  le narici  è rimarrà per sempre nei miei futuri ricordi come un momento ineffabile legato a quei giorni ormai lontani. Non parlo, o forse non ricordo di averlo fatto: Oggi mi torna a mente quel lento procedere, gli scossoni del carro sulle zolle, l’immacolato candore di quei mattini di aprile, il rientro in classe, per qualche minuto ancora, prima che tutti escano dalla scuola..
La giornata è finita. Si torna a casa. La strada bianca, da percorrere a piedi fino alla fermata dell’autobus piccolino, tutto impolverato. La fame, la nausea del breve viaggio da sopportare col sole che batte sui vetri sporchi, quel senso di malessere continuo per via delle curve.
Scuola di campagna.
Gli anni miei più belli.

1 commento:

  1. Molto bello. E' un acquerello interiore. Prevale il bianco, per come lo percepisco io. E ci sono tanti odori, e dentro c'è tutto il sapore dell'infanzia.

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