lunedì 12 marzo 2018

MARIA LA VONGOLARA - Brano tratto dal libro "ABITAVAMO IN VIA QUARNARO"

...Tra le scene abitudinarie una, in particolare, è sempre rimasta impressa nella mia mente e nel mio cuore in modo indelebile, non so perché. Credo per via del fatto che il personaggio di cui andrò a narrare tra breve, nella sua semplicità e nella sua naturalezza, mi pareva celare, dietro l’apparente umiltà dei modi e dietro una dimessa gestualità una sorta di fiera nobiltà, quasi come se avesse subito un incantesimo e fosse stata maledetta e trasformata da una strega cattiva. Una regina, una principessa,  un personaggio d’altri tempi condannato a vivere una vita diversa, in un ambiente non suo. Un sortilegio che l’avrebbe resa per sempre malinconica e triste, offuscando il suo meraviglioso sorriso e la lucentezza dei suoi occhi azzurri sotto il  velo di una impenetrabile afflizione.
D’estate ogni giovedì mattina, sul presto, in via Quarnaro transitava Maria “la vongolara”. Era costei una donna sulla quarantina ma, per via di una sconsolata mestizia che ne alterava le fattezze del  volto, mostrava più della sua età anagrafica. Indossava sempre una lunga gonna che arrivava ben oltre i pedali della bici sulla quale viaggiava e che era attrezzata in modo tale da ospitare, nella parte posteriore, sopra al parafango, due cassette di legno sovrapposte, coperte da un panno, e contenenti vongole da vendere. Il suo arrivo era annunciato da un grido squillante ed inconfondibile, che rintronava nel quartiere come la sirena di una nave. Maria gridava a squarciagola “Voncoleeeeeee”  (con la “c”) e le massaie spuntavano dagli usci delle case come lumache quando spiove.  Avveniva, quindi, la  fase di negoziazione e di vendita. Non so quanto riuscissero a tirare sul prezzo, che era sempre oggetto di coreografica trattazione, ma certo si otteneva qualche agevolazione in fase di pesatura, con qualche pugno più o meno generoso di vongole che Maria aggiungeva dopo aver già riempito e pesato il foglio di giornale. Le vongole, infatti, venivano raccolte in un semplice foglio di giornale (non esistevano o perlomeno lei non ne era in possesso) buste di plastica per alimenti” o tanto meno “biodegradabili” come quelle di oggi. Un foglio di giornale vecchio che serviva giusto per arrivare a casa e depositare le vongole nel lavandino dove venivano lavate per essere poi aperte sul fuoco del fornello.  Spesso, perciò, il govedì, d'estate, a pranzo si cucinavano spaghetti con le vongole e sauté di vongole aperte con un delizioso sughetto nel quale tutti inzuppavano il pane sfornato di fresco al mattino.
Maria la vongolara attirava il mio interesse e la mia attenzione per quel suo fare distaccato che ne faceva un personaggio immutabile ed enigmatico al tempo stesso. Era un’icona dell’estate. Quando compariva, in fondo alla via, preceduta da quel suo perentorio grido di richiamo io correvo a guardarla, quasi per cogliere nei routinari movimenti del suo corpo un gesto diverso che la rendesse più umana, e simile a tutti gli altri. Ma lei era diversa dagli altri. Sempre impassibile,  quasi un tutt’uno con quella bici sgangherata e sempre barcollante, per via del peso delle cassette. Il suo dire era essenziale, dagli  occhi trapelava una rassegnata malinconia, come se si fosse adattata alle vicende della vita suo malgrado, pur anelando nell’animo sorti diverse e certamente più gloriose. Perché era molto bella.  Aveva gli occhi azzurri come il mare cristallino dal quale provenivano le  vongole che vendeva, ed un portamento austero che strideva non poco con la sua immagine di umile indigenza. Piuttosto alta,  nascondeva sotto le vesti un fisico che ognuno avrebbe immaginato armonico e ben proporzionato. Lo si intuiva dai movimenti coordinati e flessuosi  delle braccia e delle gambe e dall’elegante ruotare del capo, che a volte sembrava accompagnare una musica di sottofondo che solo lei riusciva ad ascoltare.
Certo, Maria la vongolara avrebbe potuto essere un’altra persona. Questa convinzione era radicata in me e si alimentava ogni volta che mi fissavo a guardarla.
Quando transitava per la via interrompeva i nostri giochi di strada. In quel momento io mi avvicinavo timidamente ed ogni volta scoprivo particolari nuovi e diversi sulla sua persona, sugli abiti, sulla bici. Mi incuriosiva il sistema così elementare  e pratico che le permetteva il trasporto delle due cassette senza che una sola vongola finisse per terra durante il tragitto. Ma più di ogni altra cosa mi colpiva la manualità e la gestualità con cui lei preparava i cartocci, incassava il denaro, porgeva rapidamente il resto senza altro proferire. Immaginavo che Maria avesse il cuore altrove e che stesse vivendo forzosamente una realtà tanto tormentosa quanto ineludibile.  E partiva, allora, la mia fantasia di tredicenne innamorato della vita a fantasticare per lei una favola bella: l’avrei portata via con me, lontano lontano, in un paese di sogno dove il rifiorire della sua bellezza ascosa, ma non trascorsa, le avrebbe permesso di sorridere finalmente serena e lieta senza costrizioni nel suo vero mondo fatto di fulgore e di luce.

Ma tutto durava  un attimo. Terminata la fase di consegna e tornata in sella alla bici disperdeva nel vuoto le mie fantasie, con quel suo grido adamantino e possente, una sorta di brutale e prosaico ritorno alla vita che riconsegnava al suo misero stato ed ai coraggiosi giochi della mia mente la crudezza della realtà quotidiana, immutabile e definitiva...

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