Il sole di aprile, tiepido e mite, qualche fiocco di
nube in cielo. Non v’era angolo nascosto ove il dolce tepore di quel mattino
non lasciasse un segnale di nuova primavera.
Le ragazze del liceo, allora, indossavano
castigati grembiuli neri e lucidi che ne fasciavano i corpi, rendendoli sinuosi
e procaci. Tra i pini del parco la brezza ancora pungente dell’ora mattutina
spandeva nell’aria fragranze diverse, profumi vaghi e millantatori, primi
segnali dell’estate ventura. La bella estate che l’angoscia dell’esame di
maturità, alle porte, ci rendeva quasi immaginaria e tanto lontana, come un
sogno che si sarebbe avverato solo dopo un ineluttabile evento ormai prossimo.
Percorro
l’autostrada da più di un’ora. Guardando dai vetri dell’auto il paesaggio
circostante, vedo ad un tratto le colline che sembrano quelle di un tempo,
verdi e vellutate, e mi giunge repentino ed improvviso il refolo di un ricordo,
sempre più forte, di uno di quei giorni, uguale agli altri, ma diverso perché
io e lei, per la prima volta, ci eravamo appartati all’ombra della magnolia per
parlare. Ora mi pare di ricordare di quel dialogo ogni parola e ravviso pure le
espressioni del suo volto.
Ma
non colgo appieno il legame che possa richiamarmi, dopo tanti anni, quelle
sensazioni. Presto però la ragione di quel turbamento si palesa improvvisa e
sconvolgente, in un baleno: riconosco la dolce melodia della nostra canzone che
un programma revival sta proponendo alla radio.
Lei
mi cercava sempre con gli occhi tra gli altri.
Il
silenzio era rotto dall’improvviso garrire di stormi di rondini e dal nostro
vociare continuo. Tra le voci di tutti i compagni di scuola io distinguevo sempre la sua.
Intorno alla magnolia il giardiniere si
ingegnava con le mani callose, ma in modo leggero, con grazia goffa e non
artefatta, carezzando le foglie quasi fossero delicate e fragili porcellane
d’autore.
I
miei pensieri fuggivano verso immacolate regioni mentali, sulle note della
melodia che dal mangiadischi rosso, al centro del gruppo, saliva lenta per poi
perdersi verso un punto vago e indefinito dell’orizzonte dove io fissavo lo
sguardo e più in là dell’arco visibile del cielo, quasi alla fine di un tunnel
senza luce.
Era
sabato, ed il sabato in genere, se c’era sole, ci era concessa una breve pausa
all’aperto. Ci recavamo nel parco che
distava dal liceo solo il tempo di un corto trasferimento, poco più di qualche
centinaio di metri, da percorrere, però, a quell’ora, col sole davanti agli
occhi, sicché appena fuori dall’oscuro corridoio dell’Istituto, avevamo tutti
un attimo di esitazione e pareva di non vedere. Poi il profumo dell’aria
penetrava nei polmoni e sembrava purificarli dopo la lunga permanenza in aula
tra l’odore un po’ acre del legno dei banchi. Uscire dal corridoio verso l’arco
di luce che intravedevo, guardando dal fondo, mi dava sollievo forse più che
agli altri che restavano insensibili e che non sembravano coinvolti, come me,
emotivamente.
Di
lei incontravo lo sguardo quando il primo bagliore che penetrava dal vecchio
portone cominciava a brillarle negli occhi, illuminandole il viso. Per me tutto
assumeva i contorni di un cerimoniale. Una specie di rito. Come uscire da un
tunnel, dalle viscere della terra verso una dimensione di luce e di colori che
la fragranza della prima brezza di primavera rendeva quasi irreale.
Canticchio
le parole mentre guido e guardo scorrere, come in un film, tutte le immagini di
allora, con la stessa carica emotiva: “
In fondo al viale, in quel caffè mi son fermato, per vederti arrivare….”
Sembra, ora, che ogni elemento naturale, d’intorno, assuma l’aspetto del nostro
parco, e il cielo è terso. Il suo sorriso, la sua voce, il mio timido imbarazzo, i primi pavidi approcci, lo scuro corridoio del
liceo e la mia ricerca affannosa di quello spiraglio di luce, che per un attimo
mi avrebbe accecato gli occhi, sono i ricordi che riesco ad individuare tra gli
altri.
Ma
la maturità acquisita negli anni deforma quelle immagini in modo arbitrario ed
ora mi pare che all’ombra della magnolia il nostro dialogo vertesse un tempo su
ben altro argomento che le interrogazioni di greco o i dischi dei Beatles.
-
Ho conosciuto altre cose della vita –
le dico adesso che mi pare di averla al
mio fianco in auto. Sto viaggiando, ma vorrei fermarmi e guardare in direzione
del sole, toccare con le mani l’erba verde della collina, svestire gli abiti
che ho addosso per tornare ad essere studente di liceo.
Lei
non risponde. Il mio viaggio continua e da lontano scorgo intanto l’ingresso di
una galleria.
Mi
sono immedesimato in un ricordo. La nostra canzone non finisce, ma ogni volta
inizia daccapo. Varcata la soglia di quel tunnel la radio in realtà non dovrebbe
più ricevere il segnale esterno e dovrebbe finire quel dolce incanto con un
brusco ritorno alla realtà.
Ma
non è così. Forse perchè questo mattino è troppo, troppo simile a quel sabato
di aprile, quando io e lei avevamo diciotto anni e lasciavamo che gli altri si
allontanassero da noi, per restare soli.
La
musica continua ancora. Anzi, il volume aumenta. Le luci gialle del tunnel
creano strani bagliori ed io rivedo adesso i giochi di colori della pedana
luminosa del nostro complessino, e lei, e gli altri.
-
Incideremo un disco - sosteneva
Umberto e, quasi a rigettare ogni possibile obiezione, parlava poi di
conoscenze importanti che aveva suo padre e che ci avrebbero aiutato ad
arrivare al successo.
L’arco della galleria appena imboccata appare
ora dal retrovisore sullo sfondo azzurro del cielo e sembra trasparente come
l’acqua del mare che lasciava intravedere le vongole interrate quando io e lei,
d’estate, al mattino presto andavamo a riempire insieme il secchiello rosso.
Nessun rumore. Solo lo sciabordio dei nostri piedi nel silenzio sovrano. Le
finestre degli alberghi, intorno, erano ancora chiuse. Solo qualcuna si apriva
come una bocca che sbadiglia e si scorgeva allora il biondo tedesco che
abbracciava con lo sguardo l’ampia porzione del mare sottostante.
Si
fa sempre più piccolo l’arco di luce dell’ingresso della galleria che continuo
a fissare dal retrovisore. E mi crea dentro un insolito turbamento. Ripercorro
il corridoio del nostro liceo procedendo all’incontrario e l’acre odore del
legno dei banchi comincia a farsi risentire. Ora le viscere della montagna mi
possiedono come l’utero materno racchiude il feto ignaro del mondo e della
luce, vivo, ma ancora morto alla vita.
E
il buio di questo tunnel mi suscita nella mente un carosello di ricordi: giovani studenti agitavamo cartelli di
rivoluzione. Rivoluzione di pensieri e di idee. Rivolgimento di ogni
irrigidimento borghese. Avremmo vinto, certo, quella battaglia noi del
sessantotto. Quando occupammo le aule della scuola io e lei avevamo, per
dormire, lo stesso giaciglio. Un materasso antico, di quelli imbottiti di
crine. Avremmo mutato le regole sociali che volevano imbavagliarci e renderci
“strumenti del sistema”. “Lotta senza paura” “Per un domani migliore”
scrivevamo sui muri quando si riusciva a combinare un appuntamento collettivo
di sera, prova già questa, per noi, di grande libertà, di emancipazione, di
stravolgimento di ogni legge fissa e stabilita.
Ma
ora occhi grandi da ogni lato di questa galleria mi scrutano quasi come a voler
leggermi dentro per interrogarmi o, peggio, per accusarmi di aver tradito quel
nostro comune dettato in nome di altre sorti future, o di aver proditoriamente
seguito le regole di un altro gioco che mi ha reso ingranaggio di una macchina
enorme, senza che io ne abbia avuto consapevolezza. Ombre e visi vedo scorrermi
davanti ed ai fianchi dell’auto che corre
in un viaggio diventato strano e straordinario. Sono visi noti, compagni di
classe che, vestiti come allora, mi riprovano perché ho scelto la strada
maestra che dispensa, a chi la percorre, tangibili ricompense.
Sì - ammetto candidamente - ho
cambiato la mia vita. Dove siete cari amici di un tempo, fantasmi del passato.
Quanti di voi oggi non vivono più, quanti sono partiti e mai tornati.
Ma io non vi ho mai dimenticati.
Di voi conservo il ricordo che durante questo
viaggio un mattino di sole ha rievocato, chissà perché.-
Una
cosa ora desidero: tornare a vedere la luce. Ma più forte pigio il piede
sull’acceleratore e più mi pare che il tunnel mi ostacoli e voglia per sempre
tenermi con sé. Non vedo davanti agli occhi che un’ombra continua e sinistra.
Prima
di addormentarmi, quando ero bambino, dopo aver indossato il pigiama con i
soldatini disegnati e colorati di rosso e di blu, fissavo l’ombra della vecchia
libreria proiettata sul muro e la vedevo diventare donna, o drago, o mostro, o
strega. Provo ora la stessa angoscia di allora. Quell’ombra buia, immobile e
priva di vita, gridava e poi piangeva e aveva gli occhi rossi di bragia. Io
impietrito e terrorizzato tiravo il lembo della coperta fino a coprirmi il capo
e poi sbirciavo piano, scoprendo solo gli occhi: era ancora là. Rideva beffarda
e sghignazzava finchè il mio terrore, divenuto panico, non prorompeva in un
pianto dirotto che nessuno, neanche mia madre che correva a bagnarsi le labbra
con le mie lacrime, poteva comprendere o giustificare. Poi le fobie della
notte, i risvegli improvvisi, le grida, l’angoscia, la febbre alta, i brividi e
le vampate di calore.
Dietro
la curva successiva non vedo ancora la fine del tunnel. Per quanto incredibile
possa apparire e per quanto razionalmente mi sforzi di non crederlo, questo viaggio,
iniziato ormai da troppo tempo, non ha fine.
Probabilmente
i pensieri e il caleidoscopio dei ricordi mi hanno tanto distratto da alterare,
per un po’, la percezione del tempo, sicché m’è parso eterno il breve
trascorrere di qualche minuto. La bella rievocazione del passato, i miei
compagni di liceo, le voci di ognuno e i loro visi, un sorriso tra gli altri,
tutto, forse, mi ha trasportato in una remota regione della mente, lontano
dalla monotonia di questo trasferimento in auto.
Annalisa
custodiva gelosamente i suoi appunti tenendoli stretti sotto il braccio.
- Bene o
male che vada - ripeteva con convinzione
- ormai è finita. “
A
me sembrava quasi incredibile che in breve quello stato di angoscia potesse
scomparire all’improvviso e finire davvero. Come l’uscita da un tunnel. E alla
fine di quel tunnel, a diciotto anni compiuti, io l’avrei ritrovata sorridente. Null’altro avrei
chiesto alla vita: il mio diploma, la tanto desiderata spensieratezza,
un’estate intera da vivere con lei. La dipinsi con i colori variopinti delle
mie illusioni di allora e la portai per sempre con me nell’anima.
Da
una lunga scalinata che mi appare all’improvviso davanti all’auto e illuminata
dal basso da una luce fioca e velata, la vedo ora discendere, oggi come allora,
con i lunghi capelli sulle spalle, triste in volto e, tuttavia, serena e
tranquilla. Traspare dai suoi occhi una rassegnata malinconia.
Così usciva da scuola e scendeva lungo le
scale, radiosa in viso, quel mattino di
primavera, lasciandosi alle spalle il buio corridoio del liceo, verso la luce,
verso la felicità che a diciotto anni le sarebbe spettata di diritto. Ignorava
che in un solo momento ogni equilibrio apparentemente stabile può subire gli
umori bizzarri della sorte e che possono sopravvenire, all’improvviso, eventi
assurdi ed irrazionali, come morire investiti da un’auto nel fiore della
giovinezza o trovarsi a percorrere, in autostrada, un tunnel che non finisce
mai.
Ora
la guardo fisso negli occhi: il suo sguardo è malinconico e triste ma, pure, mi
pare di cogliere in esso un tenue barlume di speranza, come un supplichevole
invito a non cedere, a continuare.
- Voglio tornare a quel giorno di
aprile! - le dico in tono di preghiera, ma con voce determinata .
Ma lei non parla. Ha un’espressione distaccata
e pur sentendola amica immagino che sia impedita nella volontà di agire.
Un
lungo brivido mi passa per il corpo, un mesto disinganno sembra volermi affrancare dal ricordo, per
impormi l’ineluttabilità di quella fine.
Quel
maledetto giorno, uscendo per l’ultima volta dal corridoio della scuola, lei
non trovò all’aperto né il tiepido sole né quel solito raggio che, penetrando
dal vetro superiore del portone, le illuminava sempre gli occhi rendendone
l’azzurro più chiaro ed irreale. Quel giorno scese le scale e attraversò la
strada correndo. Io l’aspettavo dall’altra parte con i libri sotto il braccio.
Una sorte ingiusta, incurante dell’azzurro cielo di quegli occhi e di quel
dolcissimo sorriso ne recise inesorabilmente lo stame.
Davanti
al gruppo attonito degli astanti, al di là della gente, tra urla disumane e
gemiti, sullo sfondo, il portone del liceo si chiuse lentamente ripudiando un
raggio di sole che poco prima, insinuandosi, aveva illuminato, come sempre, parte del corridoio.
Durante
questo viaggio, a bordo della mia auto che procede velocemente all’interno
delle viscere della galleria, ora che l’immagine di quel triste mattino è come
svanita nel buio, io mi sento, all’improvviso, solo nell’universo. Ho voglia di
abbandonare ogni riferimento oggettivo con la normalità delle sensazioni per
fuggire in una dimensione di assoluta fantasia. Lontano da ogni uomo. Lontano
dalle macchine fredde e crudeli che strinsero nei loro ingranaggi il suo tenero
sorriso.
In preda ad un’ultima allucinazione le tendo la mano
e, guardandola fisso negli occhi - che strana malinconia traspare dal suo
sguardo - la voglio seguire, non m’importa dove.
Insieme
in un’eterea dimensione ultraterrena ripudieremo
la scena dei libri che volano in aria sullo sfondo di quel cielo azzurro,
mentre con i lunghi capelli al vento il suo corpo fragile fluttua e poi cade
giù, restituendo intatta, al disegno della sorte, ogni giovanile illusione.
La
galleria mi appare adesso come un’ammaliante protezione di fronte al mondo
degli altri. Al mio fianco, nell’auto, compagna di questo sconvolgente viaggio,
sorridente come allora, serena e bella, come bello era il volto che avevo
baciato per l’ultima volta sul tavolo di marmo, bagnandolo di lacrime, lei ora mi
parla. Sono, le sue, parole strane ed incomprensibili che la mente, ormai
vacillante tra improvvise folgorazioni, adatta in modi diversi al mio sentire,
alle commozioni che quell’ennesima sensazione mi suscita nell’animo.
Dura
solo un breve istante.
Vorrei
dirle tutto ciò che quel mattino m’era rimasto dentro, soffocato per sempre. Ma
ogni mia parola si perde nel vuoto dell’oscurità che regna sovrana
tutt’intorno. Come attraverso un vetro ci vediamo, ma pare adesso che l’uno non
possa più udire l’altro.
Poi quel gioco si conclude in modo repentino.
Lei
fugge verso il suo castello di vetro, in quella regione della mente dalla quale
l’ho richiamata.
Uscirò,
dunque, dal tunnel.
La
luce del sole s’insinua con prepotenza all’interno dell’auto mentre mi giungono
dalla radio le note di prima, la fine della nostra canzone che è durata solo pochi
minuti portandomi tanto lontano.
Ora
che quella musica a poco a poco svanisce l’ultimo barlume di ricordo si
dissolve come sabbia tra le dita.
E,
come quel mattino di aprile, resto improvvisamente solo.
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